scemo chi legge

Sull’ultima pagina de Il venerdì, supplemento di Repubblica di ieri, pagina riservata alla rubrica delle lettere di Michele Serra, si legge questo interessante scambio.

Anna Finocchiaro
, presidente del gruppo PD al Senato, si lamenta di essere stata inserita, in una lettera cui Serra aveva risposto in un numero precedente, in un elenco di esponenti della sinistra che mandano i figli alle scuole private. "Per scelta, convinzione e tradizione mando le mie figlie alla scuola pubblica", precisa.

La risposta di Serra si articola in tre parti. Nella prima si scusa con Finocchiaro per aver aver avallato, pur in buona fede, una notizia falsa.
Nella seconda, spiega la genesi della notizia falsa. Nasce su Il giornale, dice, da un articolo di Antonio Signorini del 25 ottobre che pubblica una lista di personaggi di sinistra che mandano i figli alle scuole private. In quella lista è inserita anche Finocchiaro, del tutto immotivatamente (e non è la sola a quanto pare a essere stata inserita di frodo). Poi, sostiene Serra (e questo è ciò che "lo ha maggiormente colpito"), è internet ad aver centuplicato gli effetti di quell’errore: alcuni blog hanno ripreso la notizia dal Giornale e l’hanno diffusa.
Chiude Serra, come è suo costume, con la morale, che conviene riprendere per intero: "Fa davvero pensare la velocità e la totale mancanza di controllo (e di autocontrollo) con la quale le bufale galoppano in Rete. Una goccia di veleno su un foglio di carta diventa in poche ore un torrente in piena. Quanto alla verità non fa più parte del dibattito, né su carta né su video".


Ora, la difesa dei propri errori tramite attacco ai passanti ("è stato lui, signora guardia") è così imbarazzante che bisognerebbe per pietà fermarsi qui e non infierire. Ma perché avere pieta?

Dunque abbiamo: un giornalista che diffonde bufale su un quotidiano, il suo direttore che non controlla, un altro giornalista che le riprende su un settimanale (in buona fede, ci mancherebbe) e un altro direttore che parimenti non controlla. Oh, succede. Ma la questione che fa riflettere Serra è la mancanza di controllo e autocontrollo "dei lettori", che non solo hanno letto la notizia ma ne hanno parlato tra loro, così diffondendola. Me’ cojoni.
Evidentemente secondo Serra i lettori del Giornale e delle sue proprie rubriche sono talmente pochi che la diffusione delle notizie in rete diventa responsabile anche dei guai propri della loro confezione e pubblicazione precedente. Era solo una goccia d’inchiosto, via, che colpe possiamo darle? Vuoi mettere col torrente in piena? Poi i giornali li leggiamo noi, persone colte e responsabili, mica la massa di scimuniti che va nei centri commerciali e si rimbambisce con feisbuc.

Viene da chiedersi: ma questo autocontrollo o controllo che Serra pare auspicare per la rete, vale anche per gli altri sistemi di diffusione di notizie? Voglio dire, se io leggo una notizia su Repubblica e ne parlo in tram al mio amico Gino, e il signor Amilcare ci ascolta e, arrivato in ufficio, difffonde la notizia tra i suoi colleghi, tra cui la segretaria Palmira, che giunta a casa ne parla con la madre Assunta, ecco, tutta questa catena sarebbe il caso di sottoporla a un po’ di controllo, no?
Perché il fatto che una notizia si diffonda attraverso l’aria o l’elettricità non dovrebbe poi fare così differenza, conta il meccanismo, e quello pare proprio lo stesso (scopertona: la rete non è un medium come gli altri, unidirezionali, ma simula la realtà interumana; ciò che pomposamente vien detto interattivo non è che la banale esperienza di vedersi "rispondere" dal "mondo", fatto che ci accade in ogni istante parlando e persino prima, afferrando la forchetta o respirando).
Dunque, par di capire per logica che a Serra un po’ di sano controllo (scusi, autocontrollo) alle conversazioni sul tram (ops, in rete) non sembra così sbagliato. Non sarà mica una questione di quantità: poca diffusione o tanta diffusione. Se una cosa è sbagliata è sbagliata nel poco come nel tanto. O è una questione di ciò che rimane? Le cose scritte in rete rimangono, i pensieri di mamma Assunta invece… Eh, accidenti, ho idea che rimangano pure quelli. E dunque? Lobotomia?

Fa davvero pensare la velocità con cui la sinistra e la destra si somigliano, a volte.

Quanto alla "verità": forse esigerla da chi parla sul tram non è così sensato. Se pretenderla dalla rete, è evidentemente ancora materia troppo oscura per queste latitudini: istituiremo una commissione parlamentare di indagine. Ma a chi scrive su un giornale, ecco: lì pensavamo che fosse richiesto per dovere autoattribuito (si badi: nessuno ce lo ha imposto, noi giornalisti ce lo siamo assegnato da soli), insomma per deontologia, per procedura, per correttezza. Ma capisco che è senz’altro più rassicurante dare la colpa a chi legge.

riassunto

«Dirò come stanno le cose per quel che mi riguarda: la scrittura in rete, anche quando prova a darsi un tono o uno stile e anzi in quel caso in modo ancora più beffardo, alla fine è poco più di una conversazione sulla strada o nel salottino buono, con tutti i tic le smorfie le posture e i gesti personali, proprio i gesti e i modi di fare e forse di essere che un estraneo che conosce bene mio padre ma non me riconosce all’istante la prima volta che mi vede, quasi quasi il corpo che si mette in mezzo, il mio corpo che l’elettronica non estirpa anzi concentra e potenzia, la mia importante e insulsa vicenda e le cose che non mi dico che diventano grandi come cartelli stradali in genere senza che io lo sappia o lo voglia; è una scrittura bassa e fluida e irrimediabilmente promiscua, facile a darsi via, più prosaica della prosa, media e mediocre, popolana. Non riesce ad avere né la rigidità solitaria della scrittura pubblica né la raccolta intimità di quella privata, pur essendo in qualche modo entrambe le cose. È singolare ma non individuale, di tutti ma non collettiva, è toccare senza mani, ascoltare senza orecchie. E lo splendido e sordido regalo che mi viene da lei, e questa è poi la sola cosa che volevo dire, il suo regalo è la certezza resa quasi incancellabile di essere, in qualche modo, più o meno o a volte o quasi sempre, un mostro».

(dedicato al Sir)

se non puoi zittirli, uccidili

«(…)

Appare logico, dopo un’iniziale impressione di saturazione e di rumor bianco, che all’aumento degli autori-attori aumenti la probabilità che tra questi ce ne siano alcuni che incontrano il gusto del singolo (e il gusto di ognuno singolarmente preso). Ritenere che diventi più difficile trovarli è una distorsione operata dalla sopravvivenza di un modello di medium ad accesso scarso, funzionante attraverso il principio di massima visibilità potenziale e la tendenziale reductio ad unum dell’audience, mentre questo funziona col principio della proliferazione interminata e in-descrivibile di isole di affinità. Che per il singolo sia impossibile, qui, conoscere tutto o anche un’approssimazione vaga al tutto è nella natura dello strumento, dato che il principio che vige è l’opposto: per chiunque è possibile trovare qualche forma di udienza e di ascolto affine, solo potenzialmente raggiungibile da tutti. C’è un elemento di oblio inaggirabile in questo archivio di memoria, in cui perdere quasi tutto e perdersi in prima persona è il presupposto per trovare qualcosa.

(…)

Si sta cioè passando da un sistema di comunicazione ad accesso limitato e forte validazione (che non sempre coincide con verifica) a un sistema misto di info-relazione, con accesso molto più aperto e livelli di validazioni assai variabili. Dove non c’è alcuna forma di verifica e la validazione è improvvisata, è tautologico che vi sia maggiore possibilità di errore, come accade in qualsiasi conversazione sulla pubblica via dove ognuno dica quello che gli pare e solo a volte qualcuno tra i presenti abbia la competenza per correggerlo. Nel sistema della scrittura in rete questa possibilità di correzione aumenta un po’ perché la presenza è asincrona e vi è un minor rischio nell’esercitare la critica, ma non aumenta poi di molto, almeno finché si pensa – in modo un po’ astratto – tale sistema come separato dal resto.

Ci si sbaglia però pensando che l’interesse puramente informativo di queste scritture sia quello di fonti, o che l’informazione coincida con un set prestabilito di argomenti (quelli "seri");  al contrario l’utilità relativa di queste pagine emerge proprio nei casi in cui si adoperano a costruire e mettere a disposizione dei percorsi – anche del tutto consegnati all’interesse individuale – attingendo con giudizio e competenza almeno amatoriale allo sterminato campo delle fonti più o meno validate, di cui fanno una personale selezione presentandole a un pubblico potenziale di non addetti desiderosi di saperne di più ma impossibilitati, com’è ovvio, a occuparsi di tutto. Semmai il punto è se esistano sistemi di selezione collettiva di tali percorsi tra i più e i meno meritevoli e laddove esistano se siano affidabili (il ricorso ad esempio allo strumento della rozza classifica di popolarità appare tra i più dubbi).

(…)

Come si sa, delle conversazioni è interessante proprio l’aspetto non verificato, che solo permette di avere un accesso diretto a forme di sentire più o meno diffuse: l’elemento di interesse preletterario  della scrittura in rete come spaccato e racconto della "giornata sociale" di una moltitudine di sguardi, più volte descritto, nasce da qui. Per questo inoltre la scrittura in rete è emersa come strumento dotato di una sua forza originale proprio in quei settori – tipicamente "politici" in senso antropologico – che riguardano la formazione dell’opinione e il "sensus", in parte contribuendo assieme ad altri fattori al deperimento del concetto stesso di opinione pubblica (tale concetto è infatti inscindibile da una condizione di scarsità di accesso  e tendenziale costruzione di blocchi massivi di attenzione, del tutto spiazzati dal fenomeno della proliferazione tribale di "intorni di affinità" o code lunghe).

(…)

Il fatto che in un sistema misto si assista a una maggiore aderenza tra parlante e argomento è alla base, da un punto puramente descrittivo, da una parte della possibilità stessa di costruire intrecci di affinità, dall’altra del possibile emergere, dato il contesto ampiamente orale-gestuale, e in casi fortunati, delle singolarità in quanto monstruum idiosincratico, con possibili effetti autoriflessivi di limitazione dell’io, riconoscimento dell’altro-in-sé e inglobamento delle tendenze narcisiste in un quadro più adulto (l’emergere ricorrente di domande autoreferenziali circa "ciò che facciamo qui" ne è testimonianza laterale).

(…)

Va detto che la trasformazione anche profonda di un sistema è difficile da valutare con un semplice giudizio di valore (meglio-peggio), sia perché quest’ultimo è soggettivo, sia perché la situazione apre possibilità nuove ma assieme anche rischi inediti (in qualche caso anche terribili). Dire è bene o è male è quasi inevitabile, ma farlo una volta per tutte è gratuito.

È infatti difficile, a titolo di esempio, pensare come piacevole un luogo dove le semplici conversazioni siano sottoposte a validazione oppure ognuno possa aprir bocca solo per dire cose verificate (peraltro si pone il problema di chi o cosa e in quali campi e come si stabilisce la verità: non esistono esempi se non limitatissimi e settoriali di autorità scientifiche preposte al controllo dei media, mentre è costume che tale controllo sia sottoposto ad ampi vincoli di tipo per lo più socio-politico).

E d’altro canto, se il nuovo sistema può essere descritto come più libero, va osservato che nessuna libertà va intesa in senso assoluto ma è sempre relativa a un campo: il fatto che tutti possano scrivere e farsi leggere più facilmente rispetto a una situazione di disciplinamento rigido, può fare tranquillamente capo a un campo di controllo che incita alla presa di parola come elemento di inclusione in un ordine discorsivo già completamente pregiudicato nei suoi termini e nelle sue forme (il che sposta la modalità del comando illiberale ma non lo rompe): il topo in gabbia che corre per tutto il giorno nella ruota si muove molto di più della pigra tartaruga nella gabbia a fianco, ma non è per questo più libero.»

Sir Julius Bartholomy Windlass, brani tratti da "Tribe and speech", Oxford Press, 2012, pag 1743-1755

eravamo quattro amici al bar

Il Sir, dalle nebbie di un periodo un po’ accidioso, si rivolge ai vecchi compagni di blogging per confessare:

Non so se capita anche a voi: provare la sensazione di non avere proprio nulla da dire, intendo. Come se “là fuori” non ci fosse nulla di realmente interessante, come se la grandissima parte delle cose che leggete, guardate, sentite fossero banali, poco rilevanti, quando non fastidiose.
A me sta succedendo da un po’. Capita, appunto, niente di straordinario. E il blog va di conseguenza, ovviamente. Si scrive “di mestiere”, spesso di sciocchezze irrilevanti, per mantenere l’allenamento, l’abitudine.

Conosco il problema, come (quasi) tutti del resto.
Premesso che, come dirà il più acuto dei commentatori di questo post, quando non si ha niente da dire è più onesto tacere, per via di un atteggiamento mentale che pencola sul patologico io non do mai la colpa a "là fuori", ma al mio modo di guardare, o di scrivere, o ai temi che scelgo. Le cose di cui scrivevo o i modi in cui lo facevo mi diventano progressivamente insopportabili, e mi vien da pensare: ma chi cacchio mi credo di essere per dire ‘ste cose? E così la vergogna, serva astuta ma non così influente da farmi chiudere bottega, indica al suo signore che è l’horror vacui il pertugio da cui farmi fuggire: mi sposto, cambio temi, o ci provo, parlo d’altro, in altro modo.

In apparenza il risultato, in questi cinque anni e passa, è che mi sono giocato via via una luminosa possibilità dopo l’altra: il commento politico da tuttologo che non sa niente, l’opinione di costume divertita che non fa ridere, la meditata riflessione irrilevante, l’approfondimento superficiale, l’infiammata presa di posizione a difesa di opinioni che non si sapeva di avere. Poi la narrazione immobile, l’aulico verso gracchiante, l’intimismo sudato, il sarcasmo patetico, la toccante confessione di vita della vita di un altro.

Certo, ci sarebbero le cose utili: la caccia a notizie non proprio risapute, o l’invenzione pura. Ma sono pochi quelli portati per la prima, e ancora meno quelli bravi nella seconda, io al massimo posso provarci ogni tanto, quando sono in stato di grazia, e anche in quel caso per me si tratta di imitare, di apparire più vero del vero, un esercizio, una simulazione.
Alla fine, se uno conserva un po’ d’amor proprio cosa gli rimane? Le recensioni dei libri, quelle almeno possono sempre servire a qualcuno, no?

il prezzo del biglietto

Un giorno, il più grande violinista vivente si ferma in una stazione della metropolitana di Washington (facilitato dal fatto di essere americano), estrae uno Stradivari e suona brani classici da vertigini per 43 minuti.

Non è chiaro cosa volesse dimostrare; ovviamente quello che accade è che non se lo fila quasi nessuno. Alla fine però, nell’indifferenza generale, si porta a casa 32,17 dollari (e giustamente nota: «Beh, potrei viverci, e non avrei neanche bisogno di un agente!»)

Il ruolo del contesto è un po’ la scoperta dell’acqua calda.
«Quando ti esibisci per un pubblico pagante – riflette il violinista – il tuo valore è già riconosciuto. Ma lì, ho pensato: perché non mi apprezzano?». Ovviamente perché nel primo caso c’è il contesto, l’informazione, la validazione interna del sistema dell’arte con i suoi critici, le sue riviste, i maestri di violino, i professori di estetica, il pubblico di appassionati, i colleghi, ecc., poi il prezzo del biglietto, la sala… Un’infinità di pratiche in atto che inquadrano il fatto e il suo valore. Al punto che senza quel contesto quasi quasi il fatto nemmeno esiste, almeno per il 99% dei passanti, cioè io, tu, lei ecc.

In una sala da concerto i rapporti sarebbero invertiti: il 100% del pubblico riconoscerebbe a priori il valore dell’evento, anche solo per emulazione o gregarismo e non capendo nulla di musica. Tutti saprebbero che "quello è il più grande violinista vivente", perché così è scritto sulla locandina all’ingresso.
Allo stesso modo, probabilmente, se la tv annunciasse: domani alla stazione di Rogoredo si esibirà il più grande violinista vivente, si radunerebbe una folla del tutto paragonabile a quella dei consueti concerti di violino, più qualche curioso.
Ma se i passanti di Corso Venezia fossero teletrasportati in una sala da concerto, continuerebbero per lo più a disinteressarsi dell’evento cui gli tocca assistere, ma apprezzerebbero all’istante il suo valore, che possono infatti disconoscere solo dopo avere riconosciuto.
Dunque, quel valore non dipende dal numero di persone che apprezzano, ma dal contesto. Nel contesto giusto, quella è grande arte. Al di fuori «è solo un ragazzo che strimpella»; per questo il "valore" esprime già in sé il proprio esser destinato all’oblio nichilistico, o almeno così ho letto da qualche parte, ma sui significati filosofici di questa storiella glisso poco elegantemente.

(Una negoziante brasiliana presente al fatto, dopo aver bellamente ignorato il musicista, afferma con una certa sicumera: "Se qualcosa del genere fosse accaduto in Brasile, tutti si sarebbero fermati ad ascoltare, non qui. Un paio di anni fa un barbone è morto, e non si è fermato nessuno". Il che, al di là della nota di sociologia della banalità, non fa che confermare il ruolo del contesto, cioè del riconoscimento interno a una serie di pratiche. In Brasile sarebbe accaduto altro, all’Esselunga altro ancora, nella piazza di Vigevano di nuovo altro…).

Pensa poi se, in un angolo qualsiasi di una città – che magari "non esiste" – uno si mettesse a strimpellare o a declamare, e non fosse nemmeno il più grande declamatore vivente, anzi se fosse un declamatore qualsiasi, uno degli infiniti mostri che stanno in basso. Quel che accadrebbe, al netto di interventi "esterni" tipo un buon ufficio marketing, è che verrebbe "riconosciuto" a orecchio da qualcuno, che si fermerebbe apprezzando, e ignorato da tutti gli altri. E questi uni e questi altri non sarebbero in rapporto al suo "valore": il caso del più grande violinista vivente lo conferma.

(Tra parentesi: ciò segnala che qui non si sostiene affatto che "qualsiasi cosa è arte, dipende dal contesto", semmai il contrario).

Si dice: "le parole troveranno dal sole i propri destinatari", il che significa però che troveranno solo quelli, e non è sensato ne trovino altri, e purché la metropolitana non sia chiusa per sciopero.

Cioè: in condizioni normali – si potrebbe dire: quando la prossimità è di tipo prevalentemente tattile, il che accade nel vis a vis oppure nella disseminata tattilità secondaria creata elettronicamente – la proliferazione delle minoranze, che altri chiamano coda lunga, è la soluzione ecologicamente più probabile (il che non fa che aggravare la mia perplessità quando leggo questi pur interessanti dibattiti).

Pensa com’è passata di moda l’utopia del «metti la tua musica sul nostro sito, con internet tutti possono diventare famosi”. L’esclusivo di massa, checché se ne dica, non c’entra con la rete.

cos’è un treno merci

Il dottor Brodo Primordiale, perfidamente, mi ammolla la catena più elettrizzante del secolo: scrivi cos’è un blog in 2000 battute. Quello che ne dice lui a dire il vero basta e avanza.
Quindi, dato che che all’alba del 2007 non è che dobbiamo star qui a definire cos’è il blog, e magari anche il treno merci, l’uovo sodo e il reggiseno, e sull’esempio – liberamente reinterpretato – del fresco Quotablog del compagno Strelnik ("basta prendere una citazione più o meno famosa e sostituire al soggetto della frase in questione la parola blog"), ecco che mischio il tutto e me la cavo egregiamente con 165 battute:

Ma cos’è un blog? Un giurato assedio
al proprio esser
fesso, un andar via di matto,
una confessione che propagar si vuole,
un apostrofe roseo messo tra le parole t’edio

Rostand, Cyrano de Bergerac

(L’originale ve lo cercate su gugol, che si trova tutto)
(Sono un ramo secco: qui le catene si impaludano, si inabissano, si sfiatano e non si passano a nessuno)

de blogo bellico

o l’autoritratto impossibile, con tanto di botola e arti sparsi

(…) Quando poi la memoria prese a ruotare su di sé per via di certi segni che ritornavano, di certe coincidenze, di segnali inaspettati che muovevano corrispondenze che solo per noi avevano senso, avemmo l’impressione che il ricordo girasse intorno a un asse invisibile ma uniforme di comprensione e di significato, ci colse cioè la sensazione di acquisire spessore. Così, molto sollevati, credemmo che la memoria non fosse che la premessa della storia e quindi si potesse narrare, che l’indagine fosse in corso e il colpevole alle strette. Senza pensarci cominciammo a percorrere in lungo e in largo il piano proiettandovi ombre, con grande entusiasmo. Tuttavia nel momento in cui quella storia, che pareva la nostra, venne alla fine tutta narrata o meglio scritta, l’episodio adeguatamente drammatizzato, romanzata la formazione, chiuso il quadro e la cornice, i problemi che credevamo finalmente in via di felice risoluzione, cioè il problema della coincidenza di noi con noi stessi, il problema dell’articolazione dei fatti, il problema della loro messa in gerarchia, della loro dominazione e disposizione come satelliti intorno al loro sole che poi eravamo noi, così da poterne parlare con noncuranza come si fa ogni giorno parlando di questo e quello cioè di ciò che abbiamo o pensiamo di avere a disposizione, tutti questi problemi, scoprimmo con terrore, si erano in realtà moltiplicati. Fummo avventati, o ingenui? Come si poteva sperare di trovare consistenza disponendo tutte le parti su un piano non più spesso di un foglio, anzi, proprio su un foglio? Prendersi in una scrittura così intesa, laddove i fatti slegati da qualsiasi memoria apparivano prima di tale presa sfrangiati, sconnessi, incongrui e noi con loro, del tutto insaputi, aprì infatti ulteriori ambiguità poiché la scrittura è l’assente per definizione, il morto che parla al vivo. Ecco che nella storia appena scritta i personaggi così ben torniti e messi lì col loro cipiglio come statuine nel presepe malauguratamente non coincidevano con i narratori, come avevamo dato per scontato e nessuno di loro coincideva del resto con gli attori che li mettevano in scena, e degli autori poi nessuna traccia; ognuno di costoro andava dalla sua parte in libera uscita, le gambe di qui, il tronco a destra, le braccia per conto proprio. I profili non erano ben sovrapposti, gli scarti si allargavano, gli anfratti invisibili diventavano botole e noi finimmo per caderci dentro come chi, volendo prendere un oggetto caduto sul fondo di una botte, ci si infila e rimane lì a penzolare al contrario col culo e i piedi in alto, incapace di trovare rimedio. Una posizione sconveniente. La speranza di venir raccolti, legati, precipitò senza che nemmeno ci accorgessimo: la misura, che credevamo naturale e spontanea e che sommessamente ci inorgogliva, invece proprio lei vacillò, noi non eravamo noi ma una caricatura (e la caricatura rivelava sì una verità su di noi ma di traverso o di riflesso, contro la nostra volontà, nostro malgrado, faccenda che gli altri non esitarono a farci notare, ciò che poi si rivelò la nostra salvezza). Lo scacco fu tale che per venirne a capo alcuni non trovarono di meglio che farne una professione. È a questo punto che ci venne il sospetto che la piegatura che aveva dato forma alla forma non avesse gemmato da quel tronco e che nella memoria, nella scrittura che la narrava, infine nella storia non ci fosse alcun riassunto disponibile, alcun asse di rotazione stabile che andasse evocato o ricostruito. Ci venne insomma il dubbio che la storia, regno della finzione o meglio della possibilità, giungesse a dire una verità o meglio a parlare di fatti non contro la propria natura, nell’autentico, ma attraverso quella natura, nello scherzo, cioè il più possibile lontano da noi. Come procedemmo a quel punto, riemersi dal naufragio su di un una scialuppa malconcia e strapazzata, laceri, ma vivi, non è faccenda che meriterebbe da sola l’attenzione di un intero racconto d’invenzione?

Cara vecchia storia

(La tesi di un "centro" costituito da pochi individui che si fanno forza del loro legame reciproco [non si capisce per via di quale particolare rito massonico] E QUINDI convogliano tutta l’attenzione e malvagiamente ne derubano gli altri, è un po’ datata e a me pare anche un po’ comica. Ha tutta l’aria di un effetto di autoipnosi [non sto a spiegare perché tecnicamente non sta in piedi, spero che l’aritmetica non vi sia del tutto estranea e che vi rendiate conto che attenzione e accessi sono due robe diverse]. In molti casi, dato che chi la formula ha un blog, è anche un caso da manuale di profezia che si autosmentisce per il fatto stesso di venir detta.)

Molto (molto) più seria è la questione della “banalità”, o detto diversamente della “mostruosità” perturbante ("mostro” è etimologicamente “il singolare”, ossia ognuno) di comportamenti che “scrivere scopertamente davanti agli occhi altrui”, cioè “mostrare scopertamente il corpo nudo e magari sgraziato della propria scrittura” fa emergere così evidenti in ognuno (ambizioni inconfessate – e pessime in quanto inconfessate, non in quanto ambizioni – gregarismo, invidie, ansia da notorietà, ma anche luoghi comuni, dilettantismo, filodrammatica, trucchetti).
Riguardo a questo si possono dire sensatamente due cose: 1) questo siamo (e sperabilmente non lo si è scoperto oggi); se qui emerge è forse perché “questa” scrittura, diversamente da quella neutralizzata e “pubblica” della stampa, lo permette. Di più: se fosse solo grazie a questo "corpo scritto" che tutto l’ambaradan funziona, a suo modo, strutturando secondo affinità la figura mutevole delle infinite minoranze? Non sarebbe interessante guardare questo strano fatto, che se accade avrà pure un senso, e come accade, invece che dividerci sulla diagnosi intorno al “dito” che lo indica? 2) In generale: non riuscire a guardare contemporaneamente i due lati del medesimo (di ogni medesimo), cioè la banalità e la bellezza, significa probabilmente coltivare pensieri di grandissima tristezza e condannarsi al cinismo. Che non è l’indispensabile satira, ma solo la malattia più noiosa e inutile: lo stesso che si critica, mal rovesciato.

Libero mica tanto


Per non sentirmi da meno ed evitare anche eccessivi marcamenti di territorio in giro che poi si diventa antipatici, metto qui la mia opinione finale, spero moderata, in forma di risposta senza maiuscole né link, che poi è la sua forma effettiva.


caro gino, sono convintissimo
che a infostrada (ma mica solo lì) di blogger non capiscano un’acca,
altrimenti non avrebbero sollevato tutto ‘sto vespaio. penso anche che
la gratuità e la circolazione libera ecc ecc siano cose basilari perché
i blogger esistano. semplicemente non mi pareva così grave che qualche
informazione circolata qui dentro cominciasse a filtrare anche fuori, e
non solo i nostri dibattiti un po’ onanistici. come lo fa libero, che
non se lo filano in molti, potrebbe farlo l’home page di repubblica.
sarebbe così grave? loro ci fanno soldi? mah…

per quel che mi riguarda,
io non lo farei comunque per soldi (non ne sarei capace, non sono
scrittore e anche come giornalista sono scarso e scrivo quando mi
viene, per piacere di farlo e di condividerlo), e se anche loro mi
citassero (cosa che non succederà comunque mai per via del tipo di cose
che scrivo e di cui comunque non mi frega al momento granché)
significherebbe solo che una cosa che ho detto può interessare anche ad
altri, il che non mi pare poi grave, per usare un eufemismo. dato che
non mi pare che loro possano rendere privata questa mia cosa detta,
anzi dicendola con un megafono più grosso non fanno che esattamente il
contrario, cioè renderla più pubblica, il fatto che ipoteticamente ci
facciano dei soldi (ma ne sei sicuro? chi fa soldi su internet?) non mi
tocca poi molto. Che poi tutto potesse essere fatto meglio è palese,
bastava che si studiassero un po’ il journal di granieri. ma si torna
al punto iniziale, infostrada ecc ecc…

Ciò che ci fa fare, è


Massimo, pur nell’accademicità di questo mio discuterne, credo che i tuoi cinque punti non siano né giusti né sbagliati: solo non sono utili. Da tempo si dice che le definizioni statiche non servono: qualcosa rimane sempre fuori o qualcos’altro è messo dentro male, in base a proprie fisime, o non dovrebbe esserci proprio.

Ciò che definisce un oggetto, secondo una buona tradizione pragmatista, è l’uso collettivo che se ne fa, ossia meglio: "ciò che ci chiama a fare" in rapporto al contesto in cui è sviluppato. Soprattutto, non c’è prima la definizione e poi l’oggetto che vi si deve adattare a spinta (uso terroristico della definizione: "tu sì, tu no"). Ci sono invece prima gli usi, e poi dagli usi emerge la figura sempre mobile e variabile di "quell’oggetto" e di chi lo usa come "il soggetto di quell’uso".
La definizione di martello di cui parla Giuseppe nei commenti è, ad esempio: "inchiodare" (e solo per questo, nel caso per inchiodare io usi un sasso, che non somiglia per nulla a un martello, posso dire tranquillamente che "ne faccio martello").
Così weblog, ad esempio e in prima migliorabile approssimazione, è "scrivere e relazionarsi", cioè: conversare. Definizione ancora imprecisa e notevolmente rozza perché comprende molti fenomeni della rete e non rende alcune specificità e molte conseguenze, ma che va almeno nella direzione giusta.
Che poi lo si faccia coi permalink o con xxxyy, importa di certo ma si tratta di discorsi già "interni" all’oggetto. Sono, quelli, adattamenti reciproci, come la "mano" e il "martello" si adattano tra loro nell’uso, il che spinge ad esempio l’attrezzo a farsi più lungo nell’impugnatura per meglio servire allo scopo, o la mano a muoversi in modo uniforme per meglio spingere: entrambi emergono come "martello per una mano" e "mano per un martello" solo in questa relazione (le definizioni non ci sono già prima, nell’iperuranio; per questo il titolo di questo post andrebbe concluso con la frase reciproca, cioè: ciò che fa di noi, siamo). Allo stesso modo "ciò che è usato per scrivere e connettere" fruttifica dentro sé i permalink o i commenti o ciò che meglio "serve l’azione" e il suo agio sulla base materiale e di pratiche in cui si trova.

Tali adattamenti "corporei" della tecnologia nascono dall’uso, non il contrario: i weblog – come la scrittura del resto – sono tecnologie, ergo l’adattamento avviene col "corpo": altro che stupidaggini sulla "virtualità".
(più seriamente, ma più ermeticamente in questa occasione, "virtuale" è forse il poter essere, la potenzialità determinata di ogni azione e in questo senso è propria di ogni rapporto costituente del vivente con la porzione di mondo di cui è fatto e da cui muove, scandendo in essa e in sé differenze che vengono raddoppiate "significativamente" nella piega del linguaggio)


Così lo sviluppo (come processo non lineare) è rimesso sulle gambe e non sulla testa (vuota), così si spiega perché si percepisca l’esigenza di sviluppare i permalink e non, che so, i fondini
automatici a fiorellini – sarebbe tecnologia anche quella, no?; e questo è anche il motivo per cui proprio il nesso tra utilizzatori "stupidi" e sviluppatori – e non gli esperti, che arrivano regolarmente in ritardo –  decide nei fatti la direzione delle tecnologie comunicative, inventando nuove modellazioni non dal nulla ma da esigenze di prassi. La tecnologia è corpo che si sviluppa nell’uso. A quali fini? I suoi.

(Tra parentesi e di nuovo con una certa dose di ermetismo, questo è un buon modo, secondo me, per scartare da tutte le concezioni apocalittiche – cioè intellettualisticamente religiose – della tecnologia come manipolabilità assoluta e devastante dell’essere o cose simili. Concezioni, letteralmente, in-spiegabili, che non spiegano i processi né tantomeno la con-costituzione di mente e mondo che avviene nella prassi né può avvenire altrove [e dove?]. E non li spiegano perché, appunto, fanno camminare i processi sulla testa, assolutizzando protesi metafisiche come "volontà" o "controllo" che magicamente costruiscono e in-formano il materiale di cui dispongono alla stessa stregua dello spirito che da fuori e non si sa come animerebbe i corpi. Appunto, spiegazioni che hanno bisogno esse stesse di una spiegazione)