la vita apparente degli scarti

A quanto pare la vita non assomiglia alle storie raccontate, tranne rari casi. E non solo perché nelle storie, in genere, succedono cose più interessanti che nelle nostre vite. Naturalmente si intende la vita media, di tutti i giorni, fatta di minuti, di ore e di occupazioni per lo più banali. In questa vita non ci sono prologhi, sviluppi ed epiloghi bene ordinati. Le agnizioni sono rare, per lo più senza pubblico e si svolgono semmai davanti allo specchio, in certe mattine, quando ci confessiamo coglionaggini che speriamo note a noi soltanto. Il climax dell’esistenza media in genere è tiepido, mentre l’anticlimax è così la norma che non fa più notizia. Non c’è un punto focale ben definito, un occhio che segue e discrimina le azioni che contano da quelle irrilevanti, nemmeno vagante o multiplo. Quanto alla voce: in confronto alla realtà i dialoghi di Altman sono chiari e cristallini e quelli di Beckett pregnanti e ricchi di senso. E poi la successione degli eventi non segue una curva ben disegnata ma piuttosto un saliscendi frantumato, quando non una linea piatta. A volte persino il concetto di “successione di eventi” pare del tutto fuori luogo: qualcosa “succede” davvero a qualcos’altro? O tutto quanto non è piuttosto una sterminata e simultanea ed eterna modulazione di fantasmi, di pseudo-azioni senza un vero agente, incapaci di uscire da sé? In realtà non compare nessun agente, il che getta seri dubbi anche sulla possibilità che ci sia un autore (oppure serve un autore proprio per retrodatarci come agenti, nemmeno troppo segreti?). Nella “vita vera” – ammesso che esista e se ne possa parlare come di qualcosa che sta prima che, appunto, se ne parli o se ne scriva – non si ode alcun tono uniforme, alcun “rumore sottile di prosa”, fosse anche volutamente dissonante e consapevolmente alterato, piuttosto una cacofonia di impressioni e di coloriture incongrue, un pasticcio di tinte che tende a un uniforme e sgradevole marrone scuro. Quasi mai si scorge il senso della vicenda e non si intende una morale, ma almeno un vago significato estraibile dall’aver di fronte un quadro dotato di una coerenza interna: nessun quadro, nessuna coerenza, nessun significato. I significati nella vita sono ex post e in genere si tratta di ricostruzioni velleitarie e interessate, pure reinvenzioni del passato ad uso proprio. L’esperienza della vita quotidiana di ognuno è più simile a quella di una nebbia sfrangiata e densa, qua e là rischiarata da attimi di illuminazione, da scelte fortunate o oscurata da precipizi di sconforto, che non a un disegno eseguito con perizia e mano ferma.

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quattro quadri milanesi

***
Un giorno di agosto del 1967, intorno alle sette del mattino, una Fiat 850 imbocca via Sant’Elia e costeggia rumorosamente la collina detta “di San Siro”. Angelo, al volante, sta raccontando al maggiore dei suoi due figli, di anni sette, l’origine di quella singolare gobba di prati ingialliti che si alza appena sull’orizzonte milanese sterminatamente piatto, di rado sorvolato da svincoli autostradali e palazzi di nuova costruzione.

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socialino, mon detour

di Daniela Ranieri e b.georg

 

IL VOLENTEROSO
Il volenteroso vuole capire. I temi che il volenteroso si sente pronto ad affrontare, e le cui spinose conseguenze pone sotto gli occhi di tutti noi, spaziano tra
: gli aspetti tecnici dell’omosessualità, le leggi di indeterminatezza 1 e 2, le disposizioni europee in materia di trattamento sanitario gratuito dello scolo, chi si ricorda come reagì la sinistra parlamentare alla proposta dei verdi di bonificare la metro nel tratto Anagnina-Sub Augusta? Voi come lo fate il pesce capone, con l’aglio o con la cipolla? È arrivato il momento di capire la differenza tra fusione e fissione nucleare, non siete d’accordo? I suoi thread raccolgono centinaia di commenti di gente che vuole capire o aiutare a capire, con modestia, con umiltà. Leggendoli tutti ci si può avvicinare a farsi un’idea abbastanza precisa, anche se generalmente non del tema trattato.

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tom wolfe, il falò delle vanità

 

Ascesa e caduta di un antiaereoe del nostro tempo, causa progressivo stritolamento negli ingranaggi della società. Bonfire è un bel romanzone di sapore vagamente balzachiano: qui l’ascesa a dire il vero è già avvenuta quando la storia inizia, ma l’acutezza e il realismo privo di qualsiasi illusione con cui i meccanismi sociali vengono descritti (ambizione, invidia, meschinità, vanagloria, cinismo, sopraffazione, tradimento, menzogna ecc), la costruzione di veri e propri “personaggi tipici” e l’attenzione conseguente a disegnare ritratti psicologici non idiosincratici, ma invece coerenti con il quadro generale e con le forze da cui i singoli sono mossi piuttosto che da “moti interiori”, paiono rispecchiare molto da vicino quella distinzione tra tipicità e medietà che, secondo Lukacs, smodato ammiratore di Balzac, distingueva il grande realismo dalle scivolate nel naturalismo e relative debolezze.

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sono libero, scelgo a cazzo di cane

La lista delle mie incompetenze è sterminata. Non so nulla di matematica liscia o applicata, nulla di economia, niente di chimica o di microelettronica, sono digiuno di giardinaggio, di solfeggio, di meccanica dei fluidi, di cinema russo, di futbol americano, di pastorizia e avicoltura. Ho una solida incompetenza in fatto di giurisprudenza, di sociologia urbana, di moda pretaporté, di come si cucina il soufflé e non so niente di niente di vulcanologia. Potrei continuare un giorno intero: le cose di cui non so niente sono un vasto impero di cui persino fatico a conoscere i confini. E naturalmente non so niente di fisica nucleare, di ingegneria e di tutti i rami annessi e affini.
Se fossi astratto dalla mia identità e mi si chiedesse: «Chi sarebbe bene decidesse di politica energetica nazionale e di energia nucleare?», io direi, che so: Rubbia? Rubbia secondo me ne sa. Sempre che tra Rubbia e colleghi non nascano problemi e divergenze, intrighi, altrimenti siamo di nuovo nella nebbia. «Ma non vorresti che a decidere fosse uno che ad esempio non sa niente?» Ecco, onestamente no. Di uno come me, non mi fiderei tanto. Io non mi farei decidere. Anche se, lo ammetto, sarebbe una ben grave decisione.

Intendiamoci: non sono del tutto coglione, ne so anzi quanto voi, ho letto i giornali, internet, le ho fatte tutte le discussioni da bar. E ho tutta una mia formazione politico-ideologico-sentimentale che mi ha portato già una volta a compulsare furiosamente tutte le fonti di se-dicente informazione e di conseguenza a esprimere un voto diciamo così ragionato, un’opinione, che si rivelò in quel caso piuttosto condivisa. E di cui non ho avuto modo di pentirmi in seguito (anche se è legittimo il dubbio che non mi sia lamentato a causa dell’ennesima ignoranza, quella circa il rapporto tra le cose di cui mi lamento abitualmente e quella decisione). Ma sono passati molti anni e francamente se ripenso al me stesso di quei tempi sono pochi gli aggettivi qualificati a descrivermi quanto: “scemotto e supponente”. Certo, c’è sempre la possibilità che non lo fossi del tutto. Ma se ciò che mi permette di valutare oggi la mia scemità di allora non fosse una sopraggiunta saggezza, ma una scemità soltanto più aggiornata? È un po’ come l’argomento: «Ma siamo un popolo cialtrone, non vorrai lasciare una cosa così pericolosa in mano proprio a noi?». Pericolosa quanto decidere se farla o no, dici? È un problema senza soluzione.

Certo, a sentimento, vorrei abitare in una città giardino, tutta verde e senza inquinameno. Uno di quei posti così romantici e credibili da essere tanto cari agli sceneggiatori di film dell’orrore, per intenderci. Certo, anche a me pare una faccenda assai pericolosa. Ma anche gli aerei mi danno il terrore e non son certo di volere che le mie tipiche reazioni («Siete pazzi, io su quel coso non ci salirò mai!») diventino per tutti un punto d’onore.

Tuttavia un parere occorre darlo, perché a decidere di non farlo si dovrebbere essere competenti in decisioni e loro conseguenze, e non è detto che lo siamo. La cosa non mi scandalizza. Sono abituato a dare pareri su cose di cui sono incompetente. E lo faccio volentieri, non mi costa niente. È la vanità dell’uomo moderno. Cosa deciderò? Mi affiderei volentieri alla disciplina di partito, ne avessi uno, anche di ritorno. In mancanza d’altro, mi baserò sui miei valori, sulle mie profonde convinzioni e sul futuro dei miei figli. Eccerto. È un fatto d’orgoglio. Io sono un uomo libero. Faccio quello che voglio, io.

jonathan franzen, libertà

ATTENZIONE: CONTIENE TRACCE DI SPOILER

Finita la lettura, sfumato l’accordo in maggiore dell’ultimo capitolo, l’impressione è che le perplessità e i mezzi giudizi abbiano trovato proprio nel lento e raccolto movimento finale una specie di sigillo, visto che non hanno trovato una smentita. Se i nodi non si sono sciolti, hanno però un anello cui legarsi bene. Libertà, a mio parere, sta tutto in quel finale di cui dobbiamo tacere l’aggettivo: per questa doverosa prudenza diventa difficile parlare del libro senza rovinarne la lettura a chi non l’ha ancora aperto. Costui sappia che l’attende un buon romanzo, piacevole e quasi sempre capace di catturare la sua attenzione e in cui troverà la consueta eccellente – a volte addirittura sorprendente – capacità dell’autore di rendere il dettaglio psicologico, ma un’inconsueta, almeno a mio parere, debolezza di voce.

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traumatologia di un amore

– Paola, sto camminando, ho il telefonino in una mano, come vuoi che faccia a.

– Senti Paola mi hanno ingessato, ho la stampella, il telefono, sto camminando, non riesco anche.

– Ma Paola, non ti sto trattando male! Ti sto solo dicendo che faccio fatica a.

– Paola, ma vai a cagare!

clic

AMISCI MIEI

Chi non ha mai fatto il trenino? Non mentite, non siete credibili. L’animatore o l’amico brillantone lo chiamano e tutti si mettono in coda, mani sui fianchi di quello davanti (che con un po’ di fortuna sarà dell’altro sesso e non troppo simile a un’aragosta bollita) al ritmo di qualche ballo sudamericano, sculettando e facendo facce molto buffe, buffissime. Signori in bermuda col capello rado e signore scollacciate e in carne ridono di gusto, non è chiaro di cosa. Perché puoi anche vergognarti come un ladro a mente fredda, ma quando sei lì è difficile resistere alla tentazione di dare il meglio di te. Che purtroppo spesso coincide col peggio, savasandir.

Il trenino, paradigma del divertimento democratico, è perfetto sotto il decimo anno d’età, oppure per i villaggi vacanze o per le crociere economiche. È agghiacciante in qualsiasi altro contesto. Secondo alcuni in realtà è agghiacciante ovunque, ma noi ci manteniamo fedeli a un profilo medio senza cedere agli eccessi snobistici.

Il gemello siamese del trenino nella comicità parlata o scritta è il tormentone. La battuta che si ripete identica, la parlata buffa, il gesto ricorrente, l’azione stramba che tutti imitano, lo strafalcione mirato (“savasandir”). Non è chiaro chi lo inizi, ma un sacco di gente ci si attacca e fa trenino, ognuno fornendo il suo originale contributo. Del resto non siamo tutti individui identicamente unici e irripetibili?

Il tormentone è un mezzo di umorismo goliardico, spiritualmente adolescenziale, parente stretto delle risate che da ragazzi si facevano negli spogliatoi quando il solito amico, il brillantone, faceva la solita rumorosa puzzetta. È un umorismo ormonale, gregario, semplice e soprattutto molto democratico. Perché è finalmente alla portata di tutti: grazie al tormentone ci si può sentire spiritosi in tanti con un cervello solo o, secondo i soliti snob, anche senza (ma noi non siamo d’accordo con loro, savas… naturalmente). Per questo il tormentone è il futuro: perché porta il sorriso. E noi lo salutiamo con gioia, perché il sorriso è sempre il benvenuto: niente come un sorriso ti fa guardare il mondo con occhi nuovi e ti riconcilia con la vita. Facciamolo assieme, facciamolo per un sorriso!

LOL.

(clicca qui sotto)

requie

 

Affonda la mano nel nido del serpente
senza ritrarla, scambia il tuo veleno col suo.

Nel buio non porti la chiave a stella, solo
il talismano che tieni sul cuore quando

precipitano i giorni e il sangue impallidisce.
L’animale docile non scampa la scarica che brucia

il lungo giorno della stalla, il pensiero sedato
lungamente che ritorna sotto forma di tragedia

privata, la morte di un parente stretto, l’incubo
del cancro, l’ansia che toglie il respiro

e fa il vuoto intorno, l’imbarazzo dei presenti
che cercano le scale mobili e infine

la salvezza tentata nella trafila delle cose minute
la sequenza dei treni, gli orari, il meccanismo

a scatto del telefono che funziona ancora per un poco.