l’inchiostro di madame bovary (*)

1 Prima di inventare i romanzi i letterati scrivevano le cose più svariate. Capitava a volte che i loro scritti contenessero elementi che noi oggi giudicheremmo “realistici”, cioè somiglianti alle situazioni che il lettore poteva trovare intorno a sé alzando il capo dalla pagina: un’abitazione come tante, la piazza di un mercato, il ritratto di un carattere comune – l’avaro. Capitava, ma si trattava di un caso, non di un programma e sempre, quando capitava, quei letterati avevano l’accortezza di buttarla sul ridere, di farne commedia o satira. Le loro trame erano così canoniche, prevedibili, così punteggiate di snodi e di colpi di scena rigorosamente codificati che era evidente la ricerca del tipico e il disinteresse per l’individuale. A volte poi seminavano tracce di queste somiglianze dentro avventure così astratte, a base di eteree fanciulle, amori contrastati e ippogrifi, da risultare del tutto impercettibili. Di individui come noi si poteva parlare per burla, non seriamente; la letteratura era destinata a scopi più nobili, o anche più futili, forse anche perché nobili e futili erano i pochi lettori in circolazione.

1.1 Con i romanzi i letterati si trovarono di colpo in mano un’arma di ineguagliabile potenza. Il suo detonatore era nuovo: imitare attraverso un registro serio – o con derivazioni di quel registro come ad esempio l’ironia tragica – la vita, le azioni, i pensieri, i sentimenti, l’ambiente, la famiglia, la società, persino i vestiti degli “individui reali e qualunque” che noi lettori siamo, usando i più vari procedimenti tecnici e narrativi ritenuti utili allo scopo (**).

1.2 Da quel momento in poi il lavoro degli scrittori diventò: scrivere storie di fantasia in cui i lettori prima di ogni altra cosa riconoscessero se stessi. Come produrre nel lettore un efficace “effetto di realtà”, attraverso quali artifici tecnici e quali finzioni: è questa la domanda che ha appassionato due secoli di narratori. In che modo fingere per meglio “dire il vero”.

1.3 Qualcuno ritiene che si trattasse tutto sommato di un’innovazione di poco conto: la capacità di suscitare attenzione, emozione e infine identificazione è connaturata all’arte dei narratori di favole. Così anche se si racconta di ippogrifi o delle disgrazie di un giovane re mai esistito, si parla di “realtà” che toccano chi ascolta, che diversamente tornerebbe a occuparsi d’altro, a curare le capre o a sistemare il conto in banca. Invece sta lì fino alla fine e poi, quando torna a casa o chiude il libro, continua per un pezzo a fantasticare rapito di essere lui quello che combatte il drago o sposa il principe biondo. L’obiezione ha un senso ma come vedremo limitato.

2. Ciò che a noi appare ovvio, all’inizio tuttavia emerse come un enorme problema. La “vita degli individui reali” che questa intenzione mimetica prese di mira è, oggi come allora, assai poco romanzesca: priva com’è di centro e di sviluppo coerente, di epiloghi e prologhi, di temi e di trama, dei tempi giusti e anche sbagliati, di focalizzazioni decenti, si presenta piuttosto come una massa sterminata, cacofonica e informe di eventi indifferenziati privi di un punto di osservazione unificante che a fatica e in modo nebuloso e del tutto precario viene continuamente riordinata dall’interno, retrospettivamente e attraverso versioni traballanti e spesso di comodo: «Lei mi amò, tu l’amasti, io no». Una non-storia priva di Autore, il cui moto perpetuo è una continua reinterpretazione tendenziosa. L’attività che alcuni moderni e troppo fiduciosi interpreti descrivono come “l’incessante fabbricare storie” in cui ognuno di noi sarebbe immerso è in realtà qualcosa di assai farraginoso e molto distante da ciò che, con un po’ di buon senso, intendiamo per storia o racconto.

2.1 Da un punto di vista narrativo quindi questo materiale di partenza non poteva che apparire poco interessante o, detto con franchezza, mortalmente noioso a un qualsiasi  osservatore esterno. I letterati che si diedero il compito di narrarlo si trovarono di fronte a un grave problema: quali di questi eventi polverizzati selezionare e quali scartare e quale ordine e direzione attribuire loro per rendere intelligibile e soprattutto letterariamente interessante o “avvincente” ciò che per sua natura non è tenuto a esserlo, ossia la nostra presunta “vita reale di individui”?

2.2 (“Vita reale di individui”: ossia ciò che rimane una volta che tutte le narrazioni pre-realistiche – rituali, encomiastiche, epiche, ludiche, religiose etc. – che costituivano il precedente panorama mentale degli una volta rari lettori e dei molti ascoltatori siano state dimenticate o stravolte così da ottenere progressivamente, presso gli odierni numerosi lettori o spettatori, quel risultato che noi per retroazione riteniamo originario: “la vita come sequenza temporale di puri fatti cui trovare un senso che li raccolga o trascenda”).

3. Il sistema scovato dai letterati per rendere interessante questa sterminata e anonima sabbia di fatti che passa, nel disinteresse generale se si esclude quello di chi vi è direttamente implicato, attraverso l’imbuto del tempo fu di impastarla dandole la forma più riconoscibile e sexy di un Destino. Un Destino individuale che si compie attraverso peripezie, momenti drammatici o patetici sovraccaricati ad arte in cui tutta l’esistenza si condensa così da apparire significativa, momenti portatori di senso di marcia e direzione, che creano pathos, attesa, suspense, che necessitano di rivelazioni, di ascese e di cadute. Il figlio di un anonimo contabile va nella capitale con la testa piena di sogni, viene preso a benvolere da un uomo potente, ama una fanciulla, si innalza e infine si perde e trova la morte. Una giovane figlia di un anonimo contabile deve prendere marito scegliendo tra i pretendenti tra cui un compagno di infanzia e un giovane facoltoso in villeggiatura nel villaggio: farà valere in questa decisione il cuore o il calcolo? Si trattò insomma di riutilizzare, anche a costo di caricarli al massimo – è il caso del melodramma a tinte forti, che sorprendentemente soppiantò le algide storie di intrighi di corte narrate in punta di intelletto – tutti gli espedienti per attirare l’attenzione basati sull’esaltazione di nuclei emotivi che gli antichi letterati avevano inventato per scopi assai diversi che non imitare l’esistenza di individui qualunque, impiantandoli ora dentro un tessuto “realistico”. Le storie di fanciulle e di intrepidi cavalieri e di mostri orrendi continuarono a essere narrante ma ora la fanciulla non è una principessa e il cavaliere è un operaio.

3.1 In questo modo ciò che il realismo romanzesco di fatto costruì fu una “esemplarità in forma di individuo”, una specie di contraddizione in termini.

4. Accadde imprevedibilmente però che, leggendo romanzi che intendevano imitare la vita dei lettori in quanto “individui reali qualunque”, costoro, rapiti dalla fascinazione di quella esemplarità nei confronti della quale non potevano che sentirsi irrimediabilmente carenti, sfocati, in pratica “irreali”, sentirono ferocemente il bisogno di procurarsi in prima persona quel Destino bisognoso di compimento che nelle intenzioni degli scrittori avrebbe dovuto piuttosto, all’inverso, costituire il nucleo dell’imitazione letteraria degli individui stessi. Quando la letteratura si dà il compito di imitare me, il risultato è un me all’ennesima potenza, un super-me: la scrittura “realizza” ciò che in me è solo un un’ipotesi, rende solido il fluido, trasforma in pieno il vuoto, mette una porta con la targhetta dove c’era solo un passaggio, un transito, uno stipite sguarnito. Il me stesso imitato è più reale del me stesso che imita. Gli individui non avevano nemmeno iniziato a esistere, partoriti dalla pagina, che già iniziavano a imitare le proprie imitazioni. Improvvisamente tutti volevano avere un senso! Cioè a ben vedere un significato. Cioè: tutti volevano essere fatti di parole.

5. Poiché il gioco di specchi del realismo venne rapidamente scoperto i letterati, che non se la sentivano di gettare alle ortiche la loro arma letale appena inventata, non poterono che alzare la posta: al grido «La vita reale non è fatta così!» il programma si radicalizzò riempiendosi di prefissi. Neo-ultra-iper-realismo, narrare riducendo all’osso l’apparato retorico, aggredire l’inenarrabile stasi delle esistenze anonime, i fallimenti esistenziali, i non accadimenti, riempire la pagina di fattoidi irrilevanti o abbassare l’enfasi retorica da Destino a Caso, a porta girevole, o ancora modulare la scrittura in “stili” cioè in strane modulazioni del corpo delle parole e delle frasi per proiettarvi una visione personale e supplire così, dalla parte del Soggetto, alle carenze dell’Oggetto, moltiplicare i fuochi e presentarli tutti assieme oppure sposarne uno interno fornendo di quell’insulso interno un resoconto veritero e fedele o infine, disperati, tentare un’impossibile svolta a U verso il “non realismo” della finzione che sa di esserlo, tra onnipresenti virgolette; ma ormai il danno era fatto, dalla novità della mimesi “dell’evento reale”, cioè dall’invenzione dei fatti-come-tali operata dalla scrittura “realistica”, non si torna indietro. E poiché, in definitiva, il luogo in cui questo paradosso accadeva era la pagina scritta, e non le vite degli individui reali che restavano del tutto non romanzesche, la scrittura e i suoi surrogati diventarono progressivamente l’unico luogo in cui i destini potevano “realisticamente” compiersi e coloro che scrivono i soli che potevano ambire a compiere un Destino, non tanto nella vita individuale ma nello scriverne.

6. A causa di questo crampo mentale collettivo accaddero due fatti dalle conseguenze incalcolabili quanto comiche cui ancora oggi, a queste latitudini, stiamo appesi: mentre lo scrittore, da semplice intrattenitore o uomo di cultura si trasformò rapidamente in una sorta di divinità in grado di dare forma alle nostre vite per interposta invenzione scritta di ciò che siamo tenuti a diventare, la scrittura smise di essere un mestiere e diventò essa stessa quel Destino (un Destino trascendente, alto, “artistico”) di cui nelle intenzioni avrebbe dovuto essere semplice imitazione. E lo diventò nell’ambizione o meglio nella necessità universalmente percepita e il cui contrario è l’oblio e l’insignificanza, di tracciare, fissare, perimetrare (o in qualsiasi altro modo esprimere secondo quanto prescritto dal comandamento duplice: sii te stesso cioè esprimi te stesso) e insieme rendere pubblico cioè pubblicare e così riassumere in sé il proprio profilo di individui, il disegno della propria esistenza, il rispecchiamento reale e puntuale dei microfatti irreali da cui crediamo di essere costituiti, che a quel rispecchiamento devono la propria promessa di consistenza. Individui che sentono di compiere, nell’atto di leggere-e-scrivere-sé o nei vari modi di espressione ormai disponibili, un proprio originale Destino che in verità non c’è mai stato se non, appunto, nel bisogno di crearsene uno esprimendolo.

++++++++

(*)
«
Félicité singhiozzava:
«Ah! La mia povera padrona! La mia povera padrona!»
«Guardatela» diceva sospirando l’albergatrice «come è ancora graziosa! Ci si aspetta di vederla alzare da un momento all’altro!»
Poi si chinarono su di lei per metterle la coroncina.
Fu necessario sollevarle un poco il capo e allora un fiotto di liquido nero le uscì dalla bocca, come vomito.
«Ah! Mio Dio! L’abito! Fate attenzione!» gridò la signora Lefrançois.
»
Madame Bovary.

 

(**)

Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino

la vita apparente degli scarti

A quanto pare la vita non assomiglia alle storie raccontate, tranne rari casi. E non solo perché nelle storie, in genere, succedono cose più interessanti che nelle nostre vite. Naturalmente si intende la vita media, di tutti i giorni, fatta di minuti, di ore e di occupazioni per lo più banali. In questa vita non ci sono prologhi, sviluppi ed epiloghi bene ordinati. Le agnizioni sono rare, per lo più senza pubblico e si svolgono semmai davanti allo specchio, in certe mattine, quando ci confessiamo coglionaggini che speriamo note a noi soltanto. Il climax dell’esistenza media in genere è tiepido, mentre l’anticlimax è così la norma che non fa più notizia. Non c’è un punto focale ben definito, un occhio che segue e discrimina le azioni che contano da quelle irrilevanti, nemmeno vagante o multiplo. Quanto alla voce: in confronto alla realtà i dialoghi di Altman sono chiari e cristallini e quelli di Beckett pregnanti e ricchi di senso. E poi la successione degli eventi non segue una curva ben disegnata ma piuttosto un saliscendi frantumato, quando non una linea piatta. A volte persino il concetto di “successione di eventi” pare del tutto fuori luogo: qualcosa “succede” davvero a qualcos’altro? O tutto quanto non è piuttosto una sterminata e simultanea ed eterna modulazione di fantasmi, di pseudo-azioni senza un vero agente, incapaci di uscire da sé? In realtà non compare nessun agente, il che getta seri dubbi anche sulla possibilità che ci sia un autore (oppure serve un autore proprio per retrodatarci come agenti, nemmeno troppo segreti?). Nella “vita vera” – ammesso che esista e se ne possa parlare come di qualcosa che sta prima che, appunto, se ne parli o se ne scriva – non si ode alcun tono uniforme, alcun “rumore sottile di prosa”, fosse anche volutamente dissonante e consapevolmente alterato, piuttosto una cacofonia di impressioni e di coloriture incongrue, un pasticcio di tinte che tende a un uniforme e sgradevole marrone scuro. Quasi mai si scorge il senso della vicenda e non si intende una morale, ma almeno un vago significato estraibile dall’aver di fronte un quadro dotato di una coerenza interna: nessun quadro, nessuna coerenza, nessun significato. I significati nella vita sono ex post e in genere si tratta di ricostruzioni velleitarie e interessate, pure reinvenzioni del passato ad uso proprio. L’esperienza della vita quotidiana di ognuno è più simile a quella di una nebbia sfrangiata e densa, qua e là rischiarata da attimi di illuminazione, da scelte fortunate o oscurata da precipizi di sconforto, che non a un disegno eseguito con perizia e mano ferma.

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cosa c’è dentro di me?

"Dentro non abbiamo niente di particolare, solo gli organi interni. Quel dentro cui pensi tu, è tutto fatto di fuori".

(*)

LATO A
Imbarazzanti scoperte nell’osservazione di sé

Osservo la mia mano. Mentre la osservo, osservo anche me che osservo la mia mano.
Passo ora ad alcune importanti considerazioni, non prima di aver provato il brivido di eccitazione tipico di ogni epocale esperimento scientifico – e anche quello di avere una mano niente male. Dunque: la seconda osservazione – osservo me che osservo la mano – sembra diversa dalla prima. Certo, sarei portato a considerarla un’ovvietà, una faccenda vagamente masturbatoria; tuttavia mi riesce così di rado fare due cose assieme, che non mi sembra il caso di passarci sopra. Così cerco subito di concentrarmi su quel tizio "che osserva me che osservo la mano", nel tentativo di coglierne al volo la natura.
Ma mi bastano dieci secondi di tentativi a vuoto per rendermi conto che si tratta di un tizio sorprendentemente difficile da afferrare, sfuggente e ambiguo. Se non ci credete, prendetevi due minuti e provate. Del resto, scusate: come lo dovrei afferrare, quel tizio? Con cosa? Ho già usato tutte le mani! Ad ogni tentativo di presa, anzi, quello si allontana di un gradino: io osservo la mano; io osservo me, che osservo la mano; io osservo me, che osservo me, che osservo la mano; io osservo me, che osservo me, che osservo me, che… eccetera. Sembra una fuga di specchi.

Insomma, c’è la percezione, ma poi c’è un residuo, c’è "qualcuno" che percepisce, si direbbe. Qualcuno che si mette, ogni volta, a una pur infinitestimale distanza dalla percezione della mano, come se le due azioni – che in definitiva dovrebbero essere me – non fossero del tutto coincidenti. Come se ci fossero, per così dire, almeno due me, separati da uno spazio vuoto. Che dentro di me ci sia il vuoto? Il vuoto fa di me ciò che sono? Un po’ l’avevo sospettato, ma…

Prendete l’ago del termostato: quello si muove quando il suo "organo di senso", un piccolo affare sensibile ai cambiamenti di temperatura, gli trasmette il messaggio: ehi, c’è un calo della temperatura, vai sul numero corrispondente. Ma tutto finisce lì. Anzi propriamente non c’è nessun messaggio e nessuna trasmissione e nessuna voce nel deserto, ma solo collegamenti e spostamenti. Nel mio caso invece non c’è solo – mi pare – un passaggio di scariche elettriche dall’occhio al cervello, c’è – mi pare – dell’altro. Certo potrei ingannarmi, forse davanti a me non "mi pare" proprio nessuna mano e io sto sognando, anzi forse non c’è proprio nessun "io"; tuttavia quel residuo, pur aleatorio, pare non subire conseguenze decisive da un tale ipotetico inganno: è lì. O almeno "mi pare". Ma che ci sia o solo appaia non fa gran differenza per me, a ben vedere.
Forse potrei immaginare, o anzi costruire, un termostato talmente complicato capace di provare esattamente la stessa doppiezza che percepisco in me. Ma avrei solo spostato il problema, perché se non so cosa in me produce quella doppiezza, non so nemmeno da che parte cominciare per ri-produrla.

Posso provare a tradurre diversamente la questione con un’altra frase. Si sa che il linguaggio è menzognero, magari è colpa sua. Dunque: mentre osservo la mia mano, "so" che la sto osservando. Ma che "sapere" può mai essere quello che non ha alcun bisogno di parole? No, allora: mentre la osservo, "sono presente" alla mia osservazione della mano. Ma del resto come potrei essere assente? Che sciocchezza. Proviamo così: "sono cosciente" del fatto che sto osservando la mia mano. Ecco che una parola, apparentemente, risolve tutto. Io sono cosciente delle mie sensazioni, anzi "io" sono questa coscienza, quasi più di quanto sia quelle sensazioni. Bella trovata, come ho fatto a non pensarci prima?
Però se mi domando: cos’è questa "coscienza?", di nuovo non so rispondere. È un’ulteriore percezione che si aggiunge alla prima? Una condizione della prima? Uno dei due lati di cui si compone l’intero? La mano di là, io di qua, oggetto e soggetto, esterno e interno; sì ma anche la mano è "mia", cioè è il soggetto, dunque l’esterno è all’interno? "Mia" di chi? E mi viene un dubbio anche peggiore: come posso sperare di giungere a una risposta soddisfacente, considerato che il mio stesso domandare, in definitiva, pare avere come presupposto, come condizione di possibilità proprio ciò che dovrei indagare? (C’è una sola certezza in tutto ciò, infatti: non s’è mai saputo di esseri in-coscienti che vadano in giro a far questione di questo e quello).

Naturalmente non siamo mica nati ieri. C’è gente che si fa domande simili – certo meglio formulate –  da millenni. Per millenni i filosofi, i teologi, i moralisti, i letterati, si sono chiesti ad esempio: cos’è l’anima? (Il termine "coscienza" non era così frequentato, nei tempi remoti). Conoscere la risposta avrebbe significato capire quale legame intratteniamo con un essere superiore e cosa ci distingue dagli esseri inferiori. Questione importante, come vedremo tra poco. Oggi ben pochi si pongono la domanda negli stessi termini: l’anima pare alquanto scesa nella classifica dei nostri interessi.

Tuttavia è anche vero che le conseguenze che si intende ricavare dalle eventuali risposte alla nuova domanda – cos’è la coscienza? – non sono così differenti da quelle che si sperava di ricavare indagando l’anima. Cosa ci fa essere umani? In cosa ci distinguiamo dai non umani? La coscienza infatti, non diversamente dall’anima, è considerata un discrimine. Essa è ciò che, si ritiene, rende personali le sensazioni, le rende esperienze vissute, prime tra tutte le esperienze della gioia e del dolore. Sapere di soffrire – o avere la potenzialità come specie, se non come individuo, di tale sapere – è considerato il limite sopra il quale si debbono applicare rilievi di tipo etico e morale. Senza tale potenzialità di consapevolezza si ritiene infatti – esplicitamente o meno, non importa – che la vita non differisca in sé dal mero "funzionamento".

LATO B
Se ti taglio una mano, chi è che prova dolore?

Un meccanismo non prova dolore nel rompersi. L’aragosta immersa viva nell’acqua bollente, invece, si dibatte e "urla" il suo dolore in un modo che ci spinge al raccapriccio (a meno che non siamo cuochi professionisti). Ma se quel dolore non fosse che la mera somma finale di meccanismi biochimici – una tal sollecitazione provoca una tal reazione e così via – senza che vi sia alcun soggetto "lì dentro" capace di consapevolezza, o senza che in alcun punto del percorso biochimico si rintracci una qualche sostanza capace di suggerire la presenza di una tale capacità, quelle urla diventerebbero simili in modo imbarazzante allo stridore assordante del metallo un istante prima che l’ingranaggio si spezzi. Nel caso dell’animale, sarebbe una parte di un meccanismo funzionale alla vita che non implica di per sé alcuna consapevolezza: forse quelle urla altro non sono che un tentativo, sviluppatosi durante l’evoluzione, di spaventare l’aggressore, senza che ci sia dietro alcuna coscienza e tantomeno alcuna scelta consapevole e vengono attivate, in questo caso, per una sorta di errore o imprecisione percettiva che scambia il bollore per un aggressore animato e pericoloso. E come non avrebbe senso porsi scrupoli etici nei confronti del metallo, così le aragoste continuano a finire nell’acqua bollente.

Naturalmente viene da chiedersi: le aragoste sì, ma i gatti? I cani? I cavalli? I bambini? A che punto si situa la linea che separa la zanzara da tuo figlio? Si conducono esperimenti su animali di ogni tipo, anche se con quelli ritenuti superiori ci si fanno maggiori scrupoli, o meglio si elaborano ipocrisie più complesse, ma di certo non ci si fa scrupolo di sopprimere intere schiere di maiali e ricavarne salsicce. Giriamo quindi il problema su se stesso: se il dolore può essere considerato un mero meccanismo nell’aragosta, forse può esserlo anche in me. Anche io urlo, anzi io soffro: non sono mica solo un rompersi, non sono solo un dolore sviluppatosi evolutivamente e funzionante biochimicamente, io sono una sofferenza, un “io soffro”! Almeno credo. Ma forse no. Forse questa mia "coscienza" è solo un gioco di specchi: l’urlo è un meccanismo evolutivo e quella che chiamiamo volontà, espressione eminente del "me stesso" che suppongo di essere, non è che una pia illusione, qualcosa che giunge a cose fatte e si prende meriti non suoi. Ci illudiamo, riempiendoci la testa di entità inesistenti, puri labirinti autocreati, quando in realtà noi "veniamo vissuti" piuttosto che vivere. Quindi che non c’è alcun valore in me che non ci sia in una formica, o detto altrimenti: non c’è alcun valore in me tout court. E nemmeno in te. Sappilo bene quando farò di te quel che più mi aggrada.

Si capisce bene, viste le conseguenze, quanto sia stata grande l’importanza attribuita alla domanda iniziale: dalla risposta dipendeva forse la possibilità stessa di una qualsivoglia regola sociale.

Ma a furia di dibattiti furibondi, è pur vero che invece di avvicinarsi a una risposta, si moltiplicano le domande. Ecco di seguito un breve elenco di quelle più diffuse tra i partecipanti.
La coscienza è ovunque o da nessuna parte? O solo in alcune parti – in alcuni animali, ad esempio? E che parti di queste parti la producono? È fisiologica, o sociale, o culturale? Dipende dagli effetti retroattivi che la relazione con gli altri provoca in noi? Si tratta di un oggetto "reale", l’azione di un particolare distretto corporeo a lei deputato che l’esprime come una funzione, o è l’effetto complesso ma aleatorio di particolari pratiche, ad esempio alfabetiche, che reinterpretano gli eventi ordinandoli in modo peculiare? È la somma di molte altre capacità, come ad esempio la capacità di apprendere, o qualcosa del tutto diverso, specifico, originale? Oppure è sia l’una cosa che l’altra? E da quando inizia, quando finisce? Si è certi che non possa più tornare? Se non può esistere autonomamente, è lecito considerare disponibile il corpo che potenzialmente la accoglierebbe o l’ha già accolta? O invece si tratta di una potenzialità di specie, la cui assenza eventuale nell’individuo non è sufficiente per dar luogo a quella disponibilità?
Oppure niente di tutto ciò: è solo un’illusione, un effetto superficiale, un riverbero che non gioca nessun ruolo particolare e noi, a ben vedere, non siamo che termostati molto complicati che solo supponiamo di "sentire"? Ma come lo supporremmo? E se tale supposizione fosse errata, una pura bolla vuota e senza contenuto, cambierebbe davvero qualcosa di ciò che noi “crediamo di essere”? Ma soprattutto, non è un errore molto tipico usare un prodotto – lo strumento, il meccanismo – come modello retroattivo per "guardare"  eventi che lo precedono e ne sono a fondamento – i produttori?
E se fosse tutto un falso problema, un’ovvietà che solo noi, dotati di linguaggio, riusciamo a rendere infinitamente labirintica e complicata mentre invece appare in sé elementare e evidente, manifesta nel batterio quanto in Einstein?

È chiaro: qui non ne usciamo vivi.
Dobbiamo ancora domandarci "che cosa c’è dentro di noi, in verità", o sarebbe meglio cambiare discorso?

LATO C (?)
Porte girevoli, o di come la sincerità sia fraintesa

Conscio della mia inadeguatezza rispetto a un compito titanico, provo a cambiare discorso, anzi a prendere la cosa da tutt’altro punto di vista. Chiedere "cosa c’è dentro di me" forse ha qualcosa a che fare con la sincerità. "Cosa c’è davvero dentro di me?", si chiede il ragazzino fornicatore di fronte all’immagine di una vita santa verso la quale si sente così drammaticamente inadeguato. Quali moti mi animano, per davvero?

Spesso invochiamo la sincerità. Ma per essere sincero dovrei sapere prima di tutto cosa sono. Ognuno però sa piuttosto poco di se stesso; come diceva uno, “io sono quello che tra tutti non incontrerò mai” (eppure ne scriveva). Quello che sappiamo di noi stessi è frutto di un gioco di specchi dall’origine incerta. Quindi sincerità sembra che significhi: attingere a un grado più elaborato, anzi più tortuoso, di menzogna, o di costruzione se si preferisce.

Ma non è a questa sincerità che si pensa quando si invoca la sincerità. Ciò cui si mira è un tentativo di scuoiarsi per vedere "cosa c’è sotto", e scuoiarsi è un’attività complicata, che oltretutto sporca il soggiorno. L’idea è che ci sia un nocciolo, un se stesso da sempre deciso, cioè un grumo inesploso da dipanare con interminabile logorrea. È assai probabile che se tutti provassero a essere sinceri in questo secondo e vano modo, singhiozzando uno nelle braccia dell’altro a tarda sera e tirando fuori le paure private più terrificanti e i pensieri di fallimento e impotenza e le terribili piccinerie bell’e buone, denuncerebbero, “dietro” ai propri atti, sentimenti molto comuni: passione, invidia, vanagloria, paura, senso di vuoto, desiderio di compiutezza, piacere, narcisismo, pietà e così via. Non credo scopriremmo niente di nuovo.

Potremmo contabilizzare le rispettive colpe o mancanze e i rispettivi punti di solidità, i pregi a cui ispirarci o gli insormontabili difetti che ci condannano; ma cosa distinguerebbe questa volontà di sapere circa noi o gli altri, dalla volontà di possederli o possederci? E c’è impegno più complicato, tortuoso, impossibile e inutile che tentare di possedere qualcuno o se stessi? Non è proprio il permanere di una distanza la condizione per articolare una relazione? Inventare un discorso su di sé per giungere a un "qualcosa", a un dato, a un "vero-di-sé" collocato dentro di noi che ci faccia permanere nell’essere che siamo, significa a ben vedere sottoporsi a un giudizio etico preventivo, già stabilito, già regnante, su ciò che è bene e ciò che non lo è. E questo giudizio è una profezia che si avvera, che ci trasforma in ciò che il giudizio decide sia "essere una persona".

Se fosse davvero possibile essere "sinceri", non si dovrebbe invece giungere molto presto al silenzio? Guardando dentro di noi potremmo giungere rapidamente a uno spazio vuoto, la non-cosa che ci permette di farci attraversare, di attraversare e di rimanere in qualche modo coesi, cioè di essere diversi da un sasso, ammesso che sappiamo davvero cosa sia un sasso. Si arriverebbe a un curioso “silenzio parlante”, che poi è stranamente proprio quello del sasso, o dell’animale o di noi stessi nel divenire sassi o animali o altro.

"Dentro" probabilmente non abbiamo segreti, solo gli organi interni. Ciò che ci accade e che siamo è tutto in superficie, perfettamente visibile: una visibile e determinata modulazione di carne. Siamo già nella verità e come non potremmo? Il dentro è tutto fatto di fuori. Non serve cercare di entrare negli altri, dato che noi siamo già negli altri, e nel contempo separati da loro, da sempre; diversamente non sapremmo per esempio parlare o fare un sacco di altre cose che normalmente facciamo "con" gli altri, dentro e fuori dagli altri, tra cui desiderare, soffrire ed essere indifferenti.

Quell’attività prepotentemente tautologica che è la costruzione di comuni forme e modi di vivere-assieme, non consiste nello scoprire la rispettiva verità, che è già tutta alla luce del sole (o non sarebbe) ma nel costruire forme di transitare gli uni negli altri. Riti, se si vuole chiamarli così. Forme pienamente vuote. Agio, anche se spesso disagio. Scrivere, ad esempio, può essere uno di questi riti che, come gli altri, ci fa diventare ciò che già siamo, spostandoci tuttavia impercettibilmente di lato e aprendo una nuova distanza. Non per costruirci sopra la nostra sincera verità. Per smantellarla, magari.

Non ci sono ovunque serrature, né chiavi, solo porte girevoli e noi siamo queste porte, questi transiti. Meno la porta è ostruita, più il transito funziona. Scrivere può essere un buon modo di levare intoppi, di scartare e lo scritto è lo scarto, il suo resoconto. Quando lo diciamo bello è perché parla di sé (parlando d’altro!) e piegato amorevolmente su di sé, si narra. Così possiamo alla fine persino amare noi stessi e il nostro corpo che piega e segna il mondo, operazione la più ovvia e complicata di tutte.

(*)
nota
La domanda che fa da titolo a questo post – cosa c’è dentro di me? – è stata rivolta tempo fa dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara ad alcuni blogger, tra cui il sottoscritto, assieme all’invito a rispondere con un pezzo di max 1400 battute, che sarebbe poi comparso sul sito del giornale suddetto (va detto che il senso di quella domanda non era: "cosa c’è dentro Giuliano Ferrara", come si poteva forse arguire, quanto piuttosto: "cos’è la coscienza?", oppure: "cosa siamo noi?").
Il pezzo che precede non è mai stato inviato. Il motivo mi pare (tragicamente) evidente.

utilizzo stupido della carta

L’altro giorno ho avuto tra le mani il secondo numero di Wired in italiano. Io sono del tutto "fuori target", per cui il mio giudizio è senza valore. Sfogliandolo, comunque, la sola cosa su cui sono riuscito a fermarmi per almeno 30 secondi è stata l’intervista a Clay Shirky.

Purtroppo devo confessare che l’avevo già letta in rete nei giorni precedenti. Ops.

In quell’intervista Shirky (che, data l’ignoranza crassa che mi contraddistingue, non avevo idea di chi fosse) dice in pratica due cose.

1) L’utilizzo "stupido" della rete – condividere le foto dei gatti, per dire – è importante quanto l’utilizzo "serio". La motivazione di Shirky: è tutto il tempo sottratto alla tv, cioè a un mezzo che rende passivi, quindi è tempo guadagnato perché rende attivi.

2) La sindrome più temibile che può colpire chi usa la rete è l’ansia di perdersi qualcosa, fosse anche l’ultimo pettegolezzo del subamico di quarta categoria; il bisogno di consultare continuamente le proprie fonti, di rimanere connessi. Dice, Shirky, che a rimanere connessi certamente non c’è niente di male, purché si sappia che qualcosa lo si perderà per forza, è la natura.

Niente di nuovo, insomma, ma interessante.

Forse però si può essere più circostanziati: più che essere tuile per limitare l’uso della tv, giustificazione che andrebbe bene anche per «esco la sera per fare il serial killer», l’utilizzo "stupido" della "parte abitata della rete" ha un senso proprio: in quanto uso di massa, costruisce il tessuto stesso delle relazioni e di conseguenza il transito delle informazioni – anche delle informazioni che definiremmo inutili o dannose, va da sé (consiglio sempre di non sovrapporre i giudizi sull’utilità tecnica con quelli sulla bontà etica).

Inoltre l’utilizzo "stupido" di piattaforme relazionali non è affatto stupido da un altro punto di vista, più "pratico", che riguarda il rapporto tra gestualità, relazioni, manipolazione di strumenti, estensione di protesi sensibili. Anzi, da questo punto di vista l’uso basic di massa è una delle molle più potenti, se ben interpretato dagli utenti/tecnici, che spingono l’evoluzione tecnica delle interfacce, ossia il mutamento morfologico degli ambienti, che decide ciò che si può o non si può dire/fare al loro interno. L’uso indica implicitamente ed esplicitamente quali ambienti sarebbe desiderabile abitare, prefigurando interfacce future.

Infine: la memoria che si può attivare in una rete fatta di relazioni non è cumulativa e sequenziale, ma regionale e a macchie di densità, e quindi sintesi e sguardi di insieme sono impossibili. Ne consegue che "perdere" e più ancora perdersi non va considerata l’eccezione, ma la regola.

Niente di nuovo, appunto.

Dimenticavo: la mia copia di Wired non l’ho pagata, la davano gratis all’incontro con Lessig. So che a volte fuziona così. Decisamente non sono in target. Mi chiedo chi lo sia, però.

comma Erode

Gli stranieri irregolari non potranno più registrare all’anagrafe la nascita di un figlio, con tutto ciò che ne consegue. Ogni bimbo sarà privo di identità, apolide e senza nome, cioè non esisterà. Sarà per sempre esposto ad ogni genere di difficoltà ogni volta che si troverà ad avere a che fare con la burocrazia, non potrà accedere all’istruzione né all’assistenza sanitaria e, ovviamente, essendo invisibile, non esistendo, sarà più facilmente esposto ad ogni genere di abusi e pericoli. Ma gli orrori non finiscono qui. I bambini, non potendo essere riconosciuti da mamma e papà, potrebbero risultare in stato di abbandono, anche non essendolo realmente, con il serio rischio che l’ospedale non possa consegnarli ai genitori. Alla madre non resterebbe che scegliere tra due rischi: partorire in ospedale, ma vedersi togliere il bimbo, o ricorrere al parto clandestino.

Effetti del “pacchetto sicurezza” già approvato al Senato e in discussione, tra qualche settimana, alla Camera.

Piovono rane; Radicali di sinistra

testamento ideologico

Se decidessi, in condizioni particolari e che al momento non so prevedere, di non voler più vivere e agissi di conseguenza, la mia scelta non toccherebbe solo me e la mia libertà: toccherebbe in via teorica tutti gli altri, cui verrebbe negata quantomeno la libertà di avere a che fare ancora con me in futuro (in via molto teorica, lo ammetto…); e toccherebbe poi in modo estremamente più devastante una piccolissima parte degli altri, le persone che amo e che mi amano, per le quali la mia volontaria dipartita si presenterebbe ben più che come una limitazione della liberta: sarebbe per loro una lacerazione profonda nel tessuto stesso della personalità, come se in definitiva il confine tra "io" e "te" fosse molto più incerto di quanto pensiamo.

In un secondo senso poi, la mia scelta toccherebbe gli altri perché potrebbe impedire ad alcuni di loro la libertà di impormi le loro eventuali convinzioni circa il divieto assoluto di disporre della mia vita.

Per il rispetto di un minimo di dignità argomentativa, questo secondo senso andrebbe però depennato dalla discussione (anche se, faccio notare, è proprio ciò cui si appiglia Panebianco nel suo quasi famoso pezzo sul Corriere.) È del tutto ovvio che per garantire a tutti qualcosa – come appare nel caso del dibattito sul testamento biologico – bisogna negare ad alcuni il diritto di negarlo agli altri, pur permanendo il loro diritto di ritenere che il primo non sia un vero diritto. Ma usare questa tautologia  per argomentare circa la violenza simmetrica tra chi vuole garantire e chi vuole negare è insostenibile.

Tra il privare alcuni della possibilità di avere a che fare con me e privare tutti della libertà di disporre di se stessi, la nostra società sceglie evidentemente la privazione minore. Il che spiega perché il suicidio non sia reato, ma la tortura sì.

***

Se qualcuno mi cogliesse nell’atto di rinunciare alla vita, è probabile che tenterebbe di dissuadermi, o addirittura di impedirmelo. Si presume infatti che il desiderio di vivere sia prevalente e possa anche riemergere se la convinzione di privarsi della vita non è davvero determinata. Ma il salvatore dovrebbe rinunciare se constatasse che la mia determinazione è assoluta: non può certo sorvegliarmi giorno e notte. Potrebbe rinchiudermi e non basterebbe. Dovrebbe riuscire a immobilizzarmi, per sempre. Ma, a parte l’assurdità di privarmi della libertà non per qualcosa che ho fatto ma per un’intenzione, è evidente che per salvarmi costui mi causerebbe in realtà una sofferenza infinita.

Lo stesso accadrebbe, credo, se io non fossi in grado di attuare il mio piano per via di insormontabili ostacoli fisici: chi mi è vicino tenterebbe in ogni modo di dissuadermi dalla mia convinzione. Il suo tentativo andrebbe forse a buon fine se, malgrado un’incapacita fisica quasi generale, io potessi comunque vivere in condizioni almeno parzialmente autonome, senza l’ausilio di macchine e in una situazione di sofferenza limitata o accettabile e potessi sperimentare quindi una vita minimamente soddisfacente, o almeno non più insoddisfacente di quella di un minatore minorenne in Congo, o di un cinquantenne impiegato delle poste single e misantropo di una qualsiasi periferia europea, individui che per qualche motivo in genere non rinunciano alla vita.
E anche se io non mi convincessi affatto a rinunciare al mio proposito, egli non dovrebbe far nulla per impedirmi alcunché. Ma onestamente non mi sentirei di biasimarlo se non intendesse aiutarmi ad attuare la mia decisione.

Ma se io fossi fisicamente impedito e in più dipendente da macchine per la mia stessa sopravvivenza fisica, oppure del tutto sopraffatto dalla sofferenza e senza una credibile possibilità di migliorare la mia condizione, la mia eventuale scelta potrebbe assumere un carattere diverso: non chiederei di agire contro di me, ma di non agire per me, o al limite di agire per me in un senso diverso. Chiederei di accettare insomma l’ineluttabilità della mia morte, che io potrei avere da parte mia già accettato. Constatata la mia determinazione, gli altri si troverebbero in questo caso di fronte a un dilemma diverso, cioè potrebbero chiedersi: che amore è quello che mi salva solo chiudendomi nella gabbia della mia menomazione e quindi nega la mia stessa volontà, cioè in definitiva nega l’essenza della mia coscienza, ossia il mio pormi anticipatorio in quanto vivente di fronte alla realtà della mia stessa morte? E, problema ancora peggiore, in che modo riuscire ad accettare la mia volontà e favorirla, senza autodistruggere se stessi nel realizzare tutto questo?

E quando infine, oltre al mio corpo, anche la mia mente si fosse inabissata senza ritorno e io fossi tenuto in vita solo grazie alle macchine, sarebbe sensato che tutti desistessero dal mantenermi artificialmente vivo, che evitassero un esorcismo verso la morte del tutto inutile e in un certo senso sacrilego. Sarebbe sensato, ed è ciò che normalmente si fa. E ugualmente sensato sarebbe continuare a farlo, senza essere costretti a normare per garantire a chiunque lo voglia il rispetto di un’evidenza. E senza che in una discussione surreale si fingesse di scambiare un tubo con un pollo arrosto.

***

Cosa vuol dire allora "tutelare la vita umana"? Prendiamo la cosa in prospettiva storica, per come le cose sono accadute: se le parole hanno un senso, vuole dire tutelare il diritto di ciascuno di disporre (o di non disporre) in via esclusiva della propria vita, ossia impedire a chiunque di disporre arbitrariamente della vita di un altro al posto suo, ossia ancora stabilire che il diritto di ciascuno di disporre (o di non disporre) di sé è superiore a qualsiasi altra considerazione politica, religiosa o di altro tipo che si volesse appropriare arbitrariamente di quel diritto.

Per questo se ne parla come di una conquista di civiltà, un avanzamento nei cosiddetti diritti umani, il più alto lascito della tradizione di pensiero occidentale e via discorrendo. Di fronte all’arbitrio del Principe che intende fare ciò che vuole del corpo e della vita del suddito, si stabilisce il valore intangibile del diritto di ognuno di non venir privato arbitrariamente della titolarità della propria vita, ossia del suo essere unico depositario della libertà di disporne o di non disporne eccetera eccetera.

***

Esistono i viventi, ma in che senso può esistere una "vita" sganciata dalla volontà di vivere (o di non vivere) di un suo qualsivoglia titolare?

Eppure, attraverso uno slittamento semantico, ecco che "impedire a chiunque di disporre arbitrariamente della vita di un altro al posto suo" diventa più semplicemente: "impedire a chiunque di disporre della vita". Il problema è che chiunque significa chiunque: la tutela della vita impone cioè che nessuno, nemmeno il titolare di quella vita, abbia il diritto di disporre della "sua" vita.

Naturalmente, in questa particolare accezione "autoriferita", il divieto etico non ha modo di tradursi in norma (a parte la bizzarria del sanzionare l’autolesionismo che, poveretto, ha già i suoi problemi…). L’unico caso in cui può farlo è proprio quello di soggetti malati la cui "volontà di non vivere più"
non possa essere attuata senza l’ausilio di altri; oppure ancora nei confronti di soggetti in cosiddetto "stato vegetativo", chiaramente non più in grado di determinare né esprimere alcuna volontà e la cui sopravvivenza sia garantita nei fatti solo da macchine.
La natura sembra insomma facilitare il compito di questi campioni della religiosità facendo quello che loro non possono o non sanno fare: immobilizzare il soggetto.

Ma: se la vita di un individuo è più importante della sua volontà, anzi è importante anche "contro" la sua volontà, che è quindi sacrificabile (1), e se la volontà dell’individuo non è che una sintesi di comodo con cui indichiamo la piena espressione delle sue facoltà superiori, ciò significa che la vita dell’individuo è importante e non sacrificabile a causa di ciò che rimane quando ne siano sottratte le facoltà superiori: sostanzialmente il metabolismo individuale. (2)

Primo problema: per quale motivo si deve difendere in modo assoluto la vita umana ma non si fa lo stesso con la restante vita animale, considerato che dal punto di vista di ciò che è importante esse sono indistinguibili? Cosa c’è di così rilevante nel metabolismo di un umano che non ci sia in quello di una mucca o di un pollo di allevamento? Perché un creatore, se tutto si riduce a biologia di base, avrebbe dovuto preferire il primo?

Secondo problema: la vita, si dice, è indisponibile in quanto creata, cioè in qualche modo coincidente col creatore e in esso fondata. Come sanno tutti i chierichetti, il creatore è amore; l’amore è persino più importante della fede perché coincide con Dio stesso, e a tale coincidenza l’uomo può a sua volta corrispondere amando. Può, non deve, cioè: l’atto di corrispondenza dipende da una scelta volontaria, il che presuppone una libertà di scelta.
Attenti dunque alla biforcazione:

da una parte si potrebbe dedurne: senza libera volontà niente vero amore, senza amore niente Dio e senza Dio niente singolarità: produrre una norma che limiti la libertà di scegliere per sé, pro o contro Dio significa imporre il bene, quindi, visto quel che si è detto, in definitiva equipararlo diabolicamente al male;
ma dall’altra si può anche dedurne: la libera volontà è qui solo un termine negativo. Essa può solo opporsi all’amore, e d’altro canto non opporsi all’amore significa esattamente rinunciare alla volontà, cioè abbandonarsi in Dio. Per questo chi è creduto privo di "volontà adulta" (i bambini, i minorati, i malati incoscienti) viene ritenuto più vicino all’amore di Dio: perché non ha gli strumenti per opporvisi.
(3) Ma se qualcuno può essere più vicino a Dio senza alcuna libera volontà – non c’è volontà nell’essere bambino o minorato – vuol dire che non è così importante rispettarla, questa volontà: la società può aspirare al bene anche al di là o contro la volontà degli individui, purché vi aspirino i suoi reggitori.

Ognuno può riconoscere qui il pezzo di cristianesimo che gli pare più somigliante a ciò che si vede in giro.

In altri termini: se nessuno, nemmeno il suo titolare, può disporre della vita, è perché Dio è l’unico autentico titolare di quel diritto. Ma notoriamente Dio non fa conferenze stampa nel fine settimana. Bene, vorrà dire che nel frattempo se ne farà garante la Chiesa, e magari pure lo Stato purché dalla prima illuminato. Esito finale: tutelare la vita in questa accezione significa che nessuno, nemmeno chi ne sia portatore, può disporre della vita "tranne la Chiesa e il Principe", che vi legiferano abbondantemente sopra nei loro modi consueti.

In altri termini si giunge esattamente alla situazione da cui la proclamazione di quel diritto e di quella tutela voleva emanciparci.

***

Questo post è finito. Non è granché, nemmeno come periodo ipotetico, ma al momento non mi viene di meglio. Dubito interessi il fatto che, personalmente, non sono molto interessato a redigere un testamento biologico, azione che rispetto e che mi pare soltanto sovrastimata rispetto alla mia importanza. Confiderei più volentieri in una fortunata "dispensa" astrale che regolasse la mia immortalità, ma mi rendo conto che, continuando a scrivere testi così lunghi, a qualcuno potrebbe venir voglia di staccarmela lui, la spina. Nel dubbio, immagino che mi sarà sufficiente affidarmi al caso.

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(1)
Un’obiezione recente al testamento biologico pare accettare il principio di libera scelta, purché svolto al presente: non si può deliberare in base a volontà espresse in passato che non possano essere ribadite nel presente (è il caso dello stato vegetativo), perché la persona potrebbe aver cambiato idea ma non essere in grado di riferirlo. L’obiezione è debolissima: intanto se si accetta il principio di libera scelta, si ammette implicitamente che il suicidio assistito sia lecito in caso di coscienza vigile; poi non si può dire contemporaneamente che il paziente è in stato vegetativo e che potrebbe aver cambiato idea: nello stato vegetatito non si formulano né idee né volontà; infine è triste che un pensiero che si vorrebbe forte come quello religioso si appigli, per giustificarsi, a un sentimento di certo né nobile né "religioso" come la paura, letteralmente la "strizza" che prende nel momento cruciale. Una volta  si usavano questi sentimenti per provocare conversioni in punto di morte, oggi li si evoca per procrastinare di un minuto ancora il momento di presentarsi all’Altissimo.

(2)
È noto l’argomento: se si fa coincidere la vita umana con le facoltà superiori e con la coscienza, significa che la vita umana che non esprime coscienza piena diventa sacrificabile. Quindi: eugenetica, nazismo. Questo pare un sofisma: il fatto che non sia corretto difendere la vita "contro" le facoltà superiori del suo titolare non implica affatto che l’individualità umana coincida con le facoltà superiori né che si possa sacrificare la vita in assenza di tali facoltà. Al contrario, è chi giudica sacrificabile la volontà del singolo che opera una suddivisione nell’umano e lo consegna così al nichilismo. Non è corretto del resto difendere la vita umana nemmeno "contro" altre supposte facoltà che non siano quelle deliberative: ad esempio se io intendessi sacrificare la mia vita per amore di mio figlio gettandomi nel fuoco per salvarlo, chi volesse impedirmelo non tutelerebbe affatto la vita. E persino chi intendesse impedire a Socrate di bere la cicuta non farebbe un gran servizio all’umanità.

(3)
Mentre non c’è da nutrire alcun dubbio sulla capacità d’amare, ma anche di odiare in modo estremamente pervicace, di bambini e minorati, peraltro in genere pienamente in possesso di una propria "volontà" come sa chiunque non ne abbia un’immagine agiografica e fasulla, che una persona in stato vegetativo possa "amare" o "avere una vita piena" come ha detto qualcuno, è in realtà alquanto improbabile. A meno che non si facciano equivalere di nuovo "amore" e "metabolismo" usando "vita" come termine medio. Questa strada però sembra portare i
l pensiero reilgioso in zone ideologicamente molto pericolose: altro è fondare in un creatore la singolarità vivente, altro è fondarvi in modo piuttosto vitalistico e idolatra un ente generico chiamato "vita" o addirittura collocare alla base del vivente una sorta di anonima "volontà di vivere".

la conturbante perfezione eccetera – 2

(…segue da qui)

Da una parte mettiamo il narrare storie compiute, dall’altra il frammentario, rapsodico riepilogo di sé che ognuno tende a fare nel tremolante e incerto tribunale della propria consapevolezza: verrebbe spontaneo tracciare bene la differenza. Si vorrebbe negare soprattutto che la prima attività possa essersi sviluppata a partire dall’altra: la fioritura di miti e formule narrative comuni, dal fragile e farfugliato trattenersi con se stessi e con il proprio passato – al contrario semmai: solo a partire dal muoversi infantile dentro architetture di significati raccontati, nella luce dei loro riflessi emotivi, il singolo può imparare ad abitare certe costruzioni di senso e con i materiali di scarto di quelle, mettere insieme alla meglio il camerino delle proprie semi-oniriche e continuamente mutanti auto-interpretazioni, dalla quale uscire di volta in volta travestito da eroe forgiato dalle sue ambigue esperienze, o da sconfitto ma mai vinto, da adepto sempre in cerca, da vittorioso contro il drago, da salvato, da perduto ma interessante, da pettegolo curioso o da goffo tenero e sfortunato, da meritevole di sofferenza, da furbo mascherato da stupido (che quasi sempre è uno stupido mascherato da stupido…), da gaudente e persino da personaggio secondario lieto della sua terza fila, a seconda del dramma o della commedia, del tono e delle forme in cui di volta in volta riesce a fondere come in uno stampo una ben selezionata e inevitabilmente erronea scelta dei propri ricordi.

[
Il progetto adolescenziale, esistenzialistico che brama "un significato per la propria vita" pecca a quanto pare di astrazione, dimentico com’è che "significato" è un risultato terminale e per di più instabile, non è una chiave d’accesso o una descrizione preventiva: non uno quindi, ma infiniti significati per la propria vita, come infiniti sono gli sguardi e gli appelli, i gesti, le richieste e i resoconti, i commerci, gli appetiti e i contatti "produttivi di significati" che intratteniamo con noi stessi e con gli altri prima che la domanda circa il significato possa anche solo esser posta in un momento di ozio o di sconforto.
]

E non è nemmeno possibile correggersi: quale sarà mai l’interpretazione corretta, che tien conto di tutti i fatti e li calibra nella loro relazione oggettiva? "Che anni meravigliosi… o forse erano terribili? Allora mi pareva d’essere triste, non sapevo di essere felice… Erano scelte sbagliate, ma oggi dico che mi hanno formato…". Sarà, ma anni di stupidità, come possono aver partorito un uomo saggio? Convocherai tutti i testimoni dell’epoca per avere la loro versione dei fatti? E su che base se già la tua versione è lacunosa e così evidentemente parziale e interessata? Che cosa è veramente successo? «Tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile. Su base minima di realtà, l’immaginazione disegna nuovi motivi: un misto di ricordi, esperienze, invenzioni, assurdità e improvvisazioni».

Solo in un caso questo "riconoscere sé con l’altro da sé" dalla natura così sorprendentemente risarcitoria, autogiustificativa quando non assolutoria, pare tacere: sono i casi di umor nero più profondo, nei quali l’assoluzione vien meno perché persino il narrare di sé tende a spegnersi e tutto ciò che ci accade e ci è accaduto appare, lì davvero, soltanto e puramente sordo e muto, aleatorio, intercambiabile, in una parola in-significante. E non a caso, come in chi sia privato della memoria e non possa ri-narrare se stesso (come nel caso di Jimmy) siamo a un passo dal collasso, dalla catastrofe dell’identità.
L’errore mistico ritiene che il linguaggio sia un gettone e la storia una menzogna, che dietro ad esse ronzi l’essere autentico nella sua racchiusa verità.
Ma per quanto tu tolga, troverai
sempre nell’oggetto i tuoi occhi fissi su di te, troverai rapporti. È la calamità autobiografica, che la letteratura lirica – che con le storie narrate ha un rapporto perlomeno ambiguo – ha imparato a conoscere molto presto, come ad esempio nel testo che segue, di Andrea Inglese.

Non posso non raccontare la mia storia.
Chiamo questo: calamità autobiografica.
Doversi fare una storia, andarla ad estrarre
come una scheggia, tra i tessuti fragili
della pelle, a rischio di

sbriciolamento,

farla nascere, imprimere un’esasperante lentezza
a questa cosa mai accaduta, mai appianata,

a questa x

pulviscolare, interrotta,
istantanea,

di cui si hanno dintorni a perdita d’occhio,
coltri che circondano,

di cui si ha un infinito accerchiamento

senza possibilità di approssimarsi
di dire: bambino, io, mia pelle, caduta sulla ghiaia.

Ci sono in compenso radiografie
molte, a partire dai quattro anni
rimangono quaderni di scuola,
copertine di quaderni,
rimangono dintorni, paesaggi documentati, scontrini.

Di quale storia si parli non è chiaro,
renderla mia è rallentare,
dare il controdocumento, dall’interno, dal buio della x

dare qualcosa dal centro, inventare che ci sia centro
mettendo in prospettiva e simmetria e successione
e comparando tutte le ferite, i punti di sutura.

Quel ferimento è il lato interno
di quello che fuori è pura traccia,
puro ritardo,

perdita,

documento. Anagrafe.

(Diventa sempre più chiaro qui che la faccendo ha iniziato a compiere un bel giro e il sottoscritto sta faticando a tenergli dietro…)


(continua…)

la conturbante perfezione delle storie – 1

Alla fine di un bel pezzo su Storytelling, libro di Christian Salmon sull’uso di strumenti narrativi da parte di politici e aziende, Giorgio Fontana scrive qualcosa di molto interessante:

"Le storie sono parte integrante di qualsiasi civiltà umana. La nostra vita, per gran parte, si fonda sulle storie e sulla necessità del racconto. Allora, forse l’unico mezzo per contrapporsi allo storytelling è tornare a una narrazione virtuosa, che testimoni il suo valore finzionale o meno, ma che resti volta a produrre verità in senso ampio. Che non sia schiava, cioè, del potere o di vuote necessità comunicative".

La questione è quasi inabbordabile, quindi non l’abbordo, ci giro intorno nella speranza di infilarmi in una pausa della sentinella. Sulla prima frase c’è poco da discutere. Strada chiusa. Ecco, la seconda fa venire in mente delle domande. In che senso la nostra vita si fonda in gran parte sulle storie e sulla necessità del racconto? E su cosa si fonda, nella parte che non è quella parte?

Da un lato infatti saremmo istintivamente portati a distinguere, a tracciare un confine netto tra l’ordine dei fatti personali (procedo come se Fontana intendesse questo dicendo "la nostra vita", so che il suo discorso è più ampio. Io scelgo di prendere le cose dal lato piccolo perché serve ai miei scopi) e quello delle storie narrate. La nostra stessa vita può apparirci – e in genere lo è – molto più "insignificante" delle più insipida delle storie. Priva di antefatti, di epiloghi, di svolgimenti chiari in una direzione o in un’altra, sfrangiata, incongrua, sorda e muta: un tessuto pieno di buchi e toppe anzi, chi l’ha detto che sia un tessuto? Quello che manca è proprio la trama, e non come a volte manca nei romanzi minimalisti, dove l’impressione di piatta medietà, ottenuta a prezzo di complicati artifici, è tutto fuorché piatta e media anzi, spicca certe volte con una tale conturbante perfezione che ti viene il desiderio di essere tu quell’insignificante impiegato invece che… questo qua ("realismo" sembra del resto un concetto limite, un punto asintotico di utopia irraggiungibile per un difetto d’origine: la carne di quelle vite è la parola scritta, cioè l’assenza allo stato puro. La letteratura può essere realista, ovviamente, a patto di non essere reale).

Tutto qui, nella "vita", sembra effettivamente dettato dal caso, comprese le rare svolte e gli snodi dell’azione, peraltro quasi mai originali. E questo malgrado il ricorso continuo, che tutti operiamo incessantemente, a ricostruzioni di comodo e a posteriori, deus ex machina convocati ogni volta e all’occasione nella forma dell’ultimo fatto accaduto, che retrodata la propria necessità a tutto il percorso che l’ha preceduto e che a essere sinceri nemmeno per idea lo preparava, come ci vuole far credere. A essere sinceri: la nostra esistenza appare un’accozzaglia vera e propria di eventi il cui unico fragile filo conduttore è l’essere accaduti alla stessa persona (ammesso che lo sia, la stessa, dato che l’unica prova è di nuovo quella sequenza di eventi del tutto presunta, in una fondazione circolare in cui A garantisce B perché B garantisce A). Una tale giustapposizione di fatti può apparire "sensata" solo grazie al consueto e costitutivo errore prospettico e sofisma per cui al centro costante delle impressioni di ognuno, il singolo io, viene attribuita una universale centralità narrativa che non dovrebbe avere e così, da questa a quello, come nel trucco delle tre carte, il senso ci passa sotto il naso.
Ecco, se le nostre vite fossero scritte da uno sceneggiatore, costui sarebbe di sicuro ubriaco e molto, molto svogliato. Oltre ad avere probabilmente qualche santo in paradiso.

Per questo la più banale e ben architettata commedia hollywoodiana riesce a prendere possesso dei nostri corpi trasformandoci per un’ora in esseri del tutto privi di volontà e raziocinio: perché nel venir narrata – nel venire ben narrata – qualsiasi "storia" è più interessante della "nostra". A meno che voi stessi non siate "parte di una storia", beninteso: forse persino il presidente degli Stati Uniti nel tempo libero si appassiona alle vicende sentimentali di Grey’s anatomy, ma non più di quanto i personaggi di Grey’s anatomy potrebbero legittimamente interessarsi alle sue.

E intendiamoci, è giusto che sia così: le storie "sono state inventate" per quello. E il fatto che la nostra non appaia una storia, ma una vita, non è un suo difetto, anche se ultimamente tutto sembra tramare perché così ci appaia (la nostra esistenza può essere reale perché non è affatto realista).

(continua…)

l’eterno ritorno dell’onda

Vi segnalo qui tre agili documenti che riportano gli esiti dell’assemblea studentesca alla Sapienza del 15 e 16 novembre, il cui ordine del giorno era la formulazione di proposte di autoriforma dell’università. Li segnalo perché mi sembrano un documento a suo modo significativo.

Che dire… L’impostazione mi pare identica a quella di 20 anni fa, la “famosa” Pantera (lo so, c’ero…), che a sua volta era identica a quella di 20 anni prima, il che non è esattamente una bella cosa, secondo me. Non ho una conoscenza diretta delle dinamiche interne di questo movimento, non so dire quanto questi documenti lo rappresentino realmente, ma dai contenuti e dalla forma saprei dire con esattezza dal solco di quale tradizione viene il personale politico coinvolto nella loro stesura (forse anche da quali correnti interne di quella tradizione…). Dato che non ho contatti diretti con quegli ambiti da molti anni, anche questo non è un bel segnale, direi. Tutto muta, ovunque. Tranne in Italia.

Ma se dovessi fare una sintesi estrema di cosa non funziona, in questi testi, direi così: oggi, come allora, si insiste nell’errore di trattare l’università come uno strumento di mobilità sociale (far sì che chi nasce da famiglia povera non sia condannato a rimanere povero), quando andrebbe considerata semmai quasi un effetto di questa avvenuta mobilità. Il fatto che un individuo di classe bassa o medio bassa arrivi all’università e la frequenti con successo, aumentando quindi di molto le sue possibilità di reddito futuro – almeno in un Paese normale – dovrebbe essere il segnale che tutto il welfare precedente ha funzionato come si deve, e non invece la toppa paracula e ideologica per un welfare che fa acqua da tutte le parti, col risultato che la toppa accresce il buco e l’università si adegua al malfunzionamento generale. Chi ci rimette in questo caso, i ricchi o i poveri?
Questo errore è presente in ogni riga di questi documenti, purtroppo.

Certamente, l’università dovrebbe essere un’istituzione di alta formazione di qualità ed eccellenza massime, cui tutti i meritevoli dovrebbero poter accedere a prescindere dalla loro condizione di origine. Ma se l’obbligo scolastico scade a 14 anni (o 16, non è ancora ben chiaro…), è palese che essa non può che fallire nel 100% dei casi qualora intenda porsi come strumento di riscatto – chi doveva fare il salto fuori dalla propria classe sociale grazie all’istruzione e non c’è riuscito, ha già lasciato la scuola da un pezzo. Quindi l’idea che l’accesso non debba essere ristretto ai meritevoli, purché non censiti con metodi di classe, ma consentito letteralmente “a tutti”, o è vuota, una pura ovvietà, o è cretina, esprimendo un’idea di “cultura umanistica come massima espressione della civiltà umana” (ergo, gli altri sono subumani) fasulla, retorica e ricostruita a esclusivo beneficio baronale.

Le agenzie su cui spendersi con vigore per favorire la mobilità sociale – per far sì cioè che “meritevole” non sia più sinonimo di “ricco” – sono altre, evidentemente. Questi documenti avrebbero senso se riguardassero la scuola primaria. Non ne hanno riguardando l’università. È noto e studiato: conta infinitamente di più l’asilo nido per intervenire sul destino scolastico delle persone, spesso già segnato in prima elementare a causa delle condizioni familiari, che non l’università. E non a caso in Italia c’è poca mobilità sociale e ci sono anche pochi asili nido; e ci sono pochi o nulli strumenti di sostegno al reddito a prescindere dal lavoro.
(Però, per motivi la cui causa storica va ricercata nel difetto d’origine del welfare italiano familista e clientelare, si spendono due terzi dei soldi del welfare in pensioni, cioè nell’istituto che per definizione è il meno adatto a promuovere la mobilità sociale, essendo di tipo assicurativo e non redistributivo – più versi più ricevi, con una sperequazione che fino a poco tempo fa addirittura aumentava assieme al reddito; viceversa non hai niente da versare, non riceverai niente).
E malgrado gli alti gridi, non è nemmeno vero che in Italia si spenda meno in finanziamenti all’università rispetto alle medie europee, come ha sufficientemente dimostrato Perotti: correttamente calcolati, questi finanziamenti sono equivalenti a quelli dei maggiori Paesi occidentali.

Da quel primo errore, nei documenti in questione, derivano a ruota tutti gli altri:

l’idea che le tasse dirette non vadano alzate anzi vadano azzerate – buon dio, ma l’università è già pagata con le tasse, comprese le tasse della maggioranza di italiani che non riescono a mandare i figli all’università, ed escluse quelle degli evasori fiscali, e questo sarebbe più equo che farne pagare una quota maggiore a chi ci va effettivamente avendone tutte le possibilità, esentando dal loro pagamento con appositi strumenti esistenti in tutto il mondo chi non può permettersele, e garantendo così risorse aggiuntive agli atenei?;


l’idea piuttosto demenziale che non siano desiderabili strumenti quantitativi di misurazione dell’operato di docenti e atenei nell’allocazione selettiva delle risorse – traduzione: libertà di pagare di più i docenti o i ricercatori più bravi e di dare più soldi alle università che investono in qualità, il tutto sulla base di misurazioni il più possibili oggettive. Cito: «L’autonomia della ricerca e la qualità dell’università pubblica non possono essere disgiunte dalla realizzazione di un nuovo concetto di valutazione. Tale concetto, più complesso della combinazione di indici presuntamente quantitativi, non deve essere legato al contenimento del bilancio, alla produzione di brevetti o al semplice numero delle pubblicazioni. Pensiamo che la valutazione debba essere intesa anche come rendicontazione sociale delle attività degli atenei e del sistema nel suo complesso, che non possa prescindere dai contesti territoriali in cui le università sono inserite».

Ora, non è che sia proprio chiaro cosa voglia dire, ma il sospetto è che proposte animate da buone intenzioni come queste siano come mettere la freccia “ingresso” a tutti i clientelismi e nepotismi del mondo – «Sì, facciamo ricerca del cazzo, non ci cita nessuno e pubblichiamo solo nelle riviste del circondario, però abbiamo un gran bel rapporto col territorio! Abbiamo partecipato anche alla sagra dello gnocco fritto studiando i diversi gradi di cottura in modo scientifico, il tutto finanziato dal locale assessore Minchialoni!». Per l’appunto. E a cosa si deve tutto questo? A una sorta di idiosincrasia al funzionamento “aziendale” visto come mercificazione, idiosincrasia che ha riflessi di irrazionalità completa: per quale motivo sarebbe preferibile un servizio pubblico che funziona male, a chi mai potrebbe giovare? Dove sta scritto che migliorare l’efficienza significa abbassare la qualità?;

e così via, nel grande come nel piccolo, che lascio alla vostra lettura (non senza segnalare punte di umorismo surreale, come rivendicare il rifiuto dell’obbligo di presenza ai corsi perché “sottopone gli studenti a un controllo sui tempi di vita”. Ma vaffanculo, va).

Purtroppo nessuna delle proposte formulate è in grado di intervenire sui malfunzionamenti più evidenti:
– scarsa, a volte molto scarsa qualità dell’insegnamento e della ricerca;
– scarso ruolo “di sistema” come volano economico per i singoli e per le organizzazioni (traduco: chi si laurea in Italia guadagna ormai meno di chi non si laurea, e le imprese non finanziano e non usano la ricerca mantenendo il Paese nello stato di arretratezza di cui si giovano le poche famiglie monopoliste e parassite che ne posseggono quasi in toto l’economia. Altro che rischi di commistione tra ricerca e interessi privati!);
– selezione dei docenti sovente non basata sul merito (i migliori nemmeno si presentano);
– possibilità di far carriera legata più ad anzianità e appartenenza che non alle capacità;
– nepotismo esasperato;
– scarsa produttività generale in termini di laureati;
– scarsissima presenza tra gli studenti di individui provenienti da classi di reddito basse.

Purtroppo non si tratta di un’alternativa credibile ai puri tagli travestiti da riforme del ministro Gelmini.

L’università rivendicata da questi documenti, che puntano tutto su un egualitarismo piuttosto parolaio che reale e su un diritto allo studio da proclama alle masse è, ahimé, esattamente l’università che già c’è, cioè una tra le più retoriche, clientelari, scadenti e classiste dell’occidente.