la persona distinta

«La gente fa di tutto per distinguersi dagli altri, cioè dalla gente. Ma volersi distinguere dagli altri è ciò che in definitiva accomuna tutti, è insomma ciò che distingue l’esser gente. Quindi più la gente prova a distinguersi dalla gente, più lo diventa».

Giulio Bartolomeo Argano, La persona distinta e l’anonimato come stile di vita, Laterza Bari 2022, pag. 2038.

Andreas Gursky, Tote Hosen

l’inchiostro di madame bovary (*)

1 Prima di inventare i romanzi i letterati scrivevano le cose più svariate. Capitava a volte che i loro scritti contenessero elementi che noi oggi giudicheremmo “realistici”, cioè somiglianti alle situazioni che il lettore poteva trovare intorno a sé alzando il capo dalla pagina: un’abitazione come tante, la piazza di un mercato, il ritratto di un carattere comune – l’avaro. Capitava, ma si trattava di un caso, non di un programma e sempre, quando capitava, quei letterati avevano l’accortezza di buttarla sul ridere, di farne commedia o satira. Le loro trame erano così canoniche, prevedibili, così punteggiate di snodi e di colpi di scena rigorosamente codificati che era evidente la ricerca del tipico e il disinteresse per l’individuale. A volte poi seminavano tracce di queste somiglianze dentro avventure così astratte, a base di eteree fanciulle, amori contrastati e ippogrifi, da risultare del tutto impercettibili. Di individui come noi si poteva parlare per burla, non seriamente; la letteratura era destinata a scopi più nobili, o anche più futili, forse anche perché nobili e futili erano i pochi lettori in circolazione.

1.1 Con i romanzi i letterati si trovarono di colpo in mano un’arma di ineguagliabile potenza. Il suo detonatore era nuovo: imitare attraverso un registro serio – o con derivazioni di quel registro come ad esempio l’ironia tragica – la vita, le azioni, i pensieri, i sentimenti, l’ambiente, la famiglia, la società, persino i vestiti degli “individui reali e qualunque” che noi lettori siamo, usando i più vari procedimenti tecnici e narrativi ritenuti utili allo scopo (**).

1.2 Da quel momento in poi il lavoro degli scrittori diventò: scrivere storie di fantasia in cui i lettori prima di ogni altra cosa riconoscessero se stessi. Come produrre nel lettore un efficace “effetto di realtà”, attraverso quali artifici tecnici e quali finzioni: è questa la domanda che ha appassionato due secoli di narratori. In che modo fingere per meglio “dire il vero”.

1.3 Qualcuno ritiene che si trattasse tutto sommato di un’innovazione di poco conto: la capacità di suscitare attenzione, emozione e infine identificazione è connaturata all’arte dei narratori di favole. Così anche se si racconta di ippogrifi o delle disgrazie di un giovane re mai esistito, si parla di “realtà” che toccano chi ascolta, che diversamente tornerebbe a occuparsi d’altro, a curare le capre o a sistemare il conto in banca. Invece sta lì fino alla fine e poi, quando torna a casa o chiude il libro, continua per un pezzo a fantasticare rapito di essere lui quello che combatte il drago o sposa il principe biondo. L’obiezione ha un senso ma come vedremo limitato.

2. Ciò che a noi appare ovvio, all’inizio tuttavia emerse come un enorme problema. La “vita degli individui reali” che questa intenzione mimetica prese di mira è, oggi come allora, assai poco romanzesca: priva com’è di centro e di sviluppo coerente, di epiloghi e prologhi, di temi e di trama, dei tempi giusti e anche sbagliati, di focalizzazioni decenti, si presenta piuttosto come una massa sterminata, cacofonica e informe di eventi indifferenziati privi di un punto di osservazione unificante che a fatica e in modo nebuloso e del tutto precario viene continuamente riordinata dall’interno, retrospettivamente e attraverso versioni traballanti e spesso di comodo: «Lei mi amò, tu l’amasti, io no». Una non-storia priva di Autore, il cui moto perpetuo è una continua reinterpretazione tendenziosa. L’attività che alcuni moderni e troppo fiduciosi interpreti descrivono come “l’incessante fabbricare storie” in cui ognuno di noi sarebbe immerso è in realtà qualcosa di assai farraginoso e molto distante da ciò che, con un po’ di buon senso, intendiamo per storia o racconto.

2.1 Da un punto di vista narrativo quindi questo materiale di partenza non poteva che apparire poco interessante o, detto con franchezza, mortalmente noioso a un qualsiasi  osservatore esterno. I letterati che si diedero il compito di narrarlo si trovarono di fronte a un grave problema: quali di questi eventi polverizzati selezionare e quali scartare e quale ordine e direzione attribuire loro per rendere intelligibile e soprattutto letterariamente interessante o “avvincente” ciò che per sua natura non è tenuto a esserlo, ossia la nostra presunta “vita reale di individui”?

2.2 (“Vita reale di individui”: ossia ciò che rimane una volta che tutte le narrazioni pre-realistiche – rituali, encomiastiche, epiche, ludiche, religiose etc. – che costituivano il precedente panorama mentale degli una volta rari lettori e dei molti ascoltatori siano state dimenticate o stravolte così da ottenere progressivamente, presso gli odierni numerosi lettori o spettatori, quel risultato che noi per retroazione riteniamo originario: “la vita come sequenza temporale di puri fatti cui trovare un senso che li raccolga o trascenda”).

3. Il sistema scovato dai letterati per rendere interessante questa sterminata e anonima sabbia di fatti che passa, nel disinteresse generale se si esclude quello di chi vi è direttamente implicato, attraverso l’imbuto del tempo fu di impastarla dandole la forma più riconoscibile e sexy di un Destino. Un Destino individuale che si compie attraverso peripezie, momenti drammatici o patetici sovraccaricati ad arte in cui tutta l’esistenza si condensa così da apparire significativa, momenti portatori di senso di marcia e direzione, che creano pathos, attesa, suspense, che necessitano di rivelazioni, di ascese e di cadute. Il figlio di un anonimo contabile va nella capitale con la testa piena di sogni, viene preso a benvolere da un uomo potente, ama una fanciulla, si innalza e infine si perde e trova la morte. Una giovane figlia di un anonimo contabile deve prendere marito scegliendo tra i pretendenti tra cui un compagno di infanzia e un giovane facoltoso in villeggiatura nel villaggio: farà valere in questa decisione il cuore o il calcolo? Si trattò insomma di riutilizzare, anche a costo di caricarli al massimo – è il caso del melodramma a tinte forti, che sorprendentemente soppiantò le algide storie di intrighi di corte narrate in punta di intelletto – tutti gli espedienti per attirare l’attenzione basati sull’esaltazione di nuclei emotivi che gli antichi letterati avevano inventato per scopi assai diversi che non imitare l’esistenza di individui qualunque, impiantandoli ora dentro un tessuto “realistico”. Le storie di fanciulle e di intrepidi cavalieri e di mostri orrendi continuarono a essere narrante ma ora la fanciulla non è una principessa e il cavaliere è un operaio.

3.1 In questo modo ciò che il realismo romanzesco di fatto costruì fu una “esemplarità in forma di individuo”, una specie di contraddizione in termini.

4. Accadde imprevedibilmente però che, leggendo romanzi che intendevano imitare la vita dei lettori in quanto “individui reali qualunque”, costoro, rapiti dalla fascinazione di quella esemplarità nei confronti della quale non potevano che sentirsi irrimediabilmente carenti, sfocati, in pratica “irreali”, sentirono ferocemente il bisogno di procurarsi in prima persona quel Destino bisognoso di compimento che nelle intenzioni degli scrittori avrebbe dovuto piuttosto, all’inverso, costituire il nucleo dell’imitazione letteraria degli individui stessi. Quando la letteratura si dà il compito di imitare me, il risultato è un me all’ennesima potenza, un super-me: la scrittura “realizza” ciò che in me è solo un un’ipotesi, rende solido il fluido, trasforma in pieno il vuoto, mette una porta con la targhetta dove c’era solo un passaggio, un transito, uno stipite sguarnito. Il me stesso imitato è più reale del me stesso che imita. Gli individui non avevano nemmeno iniziato a esistere, partoriti dalla pagina, che già iniziavano a imitare le proprie imitazioni. Improvvisamente tutti volevano avere un senso! Cioè a ben vedere un significato. Cioè: tutti volevano essere fatti di parole.

5. Poiché il gioco di specchi del realismo venne rapidamente scoperto i letterati, che non se la sentivano di gettare alle ortiche la loro arma letale appena inventata, non poterono che alzare la posta: al grido «La vita reale non è fatta così!» il programma si radicalizzò riempiendosi di prefissi. Neo-ultra-iper-realismo, narrare riducendo all’osso l’apparato retorico, aggredire l’inenarrabile stasi delle esistenze anonime, i fallimenti esistenziali, i non accadimenti, riempire la pagina di fattoidi irrilevanti o abbassare l’enfasi retorica da Destino a Caso, a porta girevole, o ancora modulare la scrittura in “stili” cioè in strane modulazioni del corpo delle parole e delle frasi per proiettarvi una visione personale e supplire così, dalla parte del Soggetto, alle carenze dell’Oggetto, moltiplicare i fuochi e presentarli tutti assieme oppure sposarne uno interno fornendo di quell’insulso interno un resoconto veritero e fedele o infine, disperati, tentare un’impossibile svolta a U verso il “non realismo” della finzione che sa di esserlo, tra onnipresenti virgolette; ma ormai il danno era fatto, dalla novità della mimesi “dell’evento reale”, cioè dall’invenzione dei fatti-come-tali operata dalla scrittura “realistica”, non si torna indietro. E poiché, in definitiva, il luogo in cui questo paradosso accadeva era la pagina scritta, e non le vite degli individui reali che restavano del tutto non romanzesche, la scrittura e i suoi surrogati diventarono progressivamente l’unico luogo in cui i destini potevano “realisticamente” compiersi e coloro che scrivono i soli che potevano ambire a compiere un Destino, non tanto nella vita individuale ma nello scriverne.

6. A causa di questo crampo mentale collettivo accaddero due fatti dalle conseguenze incalcolabili quanto comiche cui ancora oggi, a queste latitudini, stiamo appesi: mentre lo scrittore, da semplice intrattenitore o uomo di cultura si trasformò rapidamente in una sorta di divinità in grado di dare forma alle nostre vite per interposta invenzione scritta di ciò che siamo tenuti a diventare, la scrittura smise di essere un mestiere e diventò essa stessa quel Destino (un Destino trascendente, alto, “artistico”) di cui nelle intenzioni avrebbe dovuto essere semplice imitazione. E lo diventò nell’ambizione o meglio nella necessità universalmente percepita e il cui contrario è l’oblio e l’insignificanza, di tracciare, fissare, perimetrare (o in qualsiasi altro modo esprimere secondo quanto prescritto dal comandamento duplice: sii te stesso cioè esprimi te stesso) e insieme rendere pubblico cioè pubblicare e così riassumere in sé il proprio profilo di individui, il disegno della propria esistenza, il rispecchiamento reale e puntuale dei microfatti irreali da cui crediamo di essere costituiti, che a quel rispecchiamento devono la propria promessa di consistenza. Individui che sentono di compiere, nell’atto di leggere-e-scrivere-sé o nei vari modi di espressione ormai disponibili, un proprio originale Destino che in verità non c’è mai stato se non, appunto, nel bisogno di crearsene uno esprimendolo.

++++++++

(*)
«
Félicité singhiozzava:
«Ah! La mia povera padrona! La mia povera padrona!»
«Guardatela» diceva sospirando l’albergatrice «come è ancora graziosa! Ci si aspetta di vederla alzare da un momento all’altro!»
Poi si chinarono su di lei per metterle la coroncina.
Fu necessario sollevarle un poco il capo e allora un fiotto di liquido nero le uscì dalla bocca, come vomito.
«Ah! Mio Dio! L’abito! Fate attenzione!» gridò la signora Lefrançois.
»
Madame Bovary.

 

(**)

Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino

del modo in cui le canzoni hanno a che fare con noi

Ho tredici anni e sono in piedi sul retro scoperto di un furgone guidato da un diciottenne conosciuto un’ora prima al bar, assieme a mio fratello, che di anni ne ha diciassette e a due ragazze, di sedici anni, che stanno da sole in una tenda canadese proprio di fronte alla roulotte dei miei genitori. Siamo in Calabria e quella è la prima tenda canadese in cui sono stato da solo con una ragazza. È successo due giorni fa. Lei è la più bella delle due o almeno a me è sempre sembrata la più bella, l’altra è troppo magra. “Lei” ha i capelli biondi, il costume da mare due pezzi, la pelle chiara appena abbronzata. La tenda è minuscola.
«E tu che scuola fai?».
«Sono in terza».
«Mh. Sai, alle superiori è tutto diverso».
«Più bello, vero?».
«Sì, anche. È diverso».
L’amica era solo andata al bar con mio fratello a comprare bibite, non sono stati via più di dieci minuti.
Il tempo interminabile della vacanza lo passiamo ascoltando musica dal loro stereo portatile. Le ragazze parlano più che altro con mio fratello, che già fa politica a scuola e ha molte cose da raccontare. Quando mi permettono di stare con loro dimentico finalmente i miei giochi da ragazzino – un sacco di formiche in quel campeggio, me le ricordo ancora e loro credo si ricordino di me – e mi aggrego al gruppo: sto parecchio zitto, guardo tutto e respiro senza saperne nulla un’aria di libertà assoluta che mi accelera il sangue e mi morde le carni, ignaro di ogni cosa. Quel pomeriggio il furgone procede a passo d’uomo nel viale alberato, mentre l’autoradio manda a tutto volume “Com’è profondo il mare”, del cantautore Lucio Dalla. Noi quattro ridiamo come sul ponte di una nave che salpa. Anch’io sto cantando, com’è profondo il mare.
Mi sembrava che avere la vita davanti volesse dire tutto. Un po’ come succede a tutti.

(mi piaceva il titolo, il post è quello che è)

quattro quadri milanesi

***
Un giorno di agosto del 1967, intorno alle sette del mattino, una Fiat 850 imbocca via Sant’Elia e costeggia rumorosamente la collina detta “di San Siro”. Angelo, al volante, sta raccontando al maggiore dei suoi due figli, di anni sette, l’origine di quella singolare gobba di prati ingialliti che si alza appena sull’orizzonte milanese sterminatamente piatto, di rado sorvolato da svincoli autostradali e palazzi di nuova costruzione.

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socialino, mon detour

di Daniela Ranieri e b.georg

 

IL VOLENTEROSO
Il volenteroso vuole capire. I temi che il volenteroso si sente pronto ad affrontare, e le cui spinose conseguenze pone sotto gli occhi di tutti noi, spaziano tra
: gli aspetti tecnici dell’omosessualità, le leggi di indeterminatezza 1 e 2, le disposizioni europee in materia di trattamento sanitario gratuito dello scolo, chi si ricorda come reagì la sinistra parlamentare alla proposta dei verdi di bonificare la metro nel tratto Anagnina-Sub Augusta? Voi come lo fate il pesce capone, con l’aglio o con la cipolla? È arrivato il momento di capire la differenza tra fusione e fissione nucleare, non siete d’accordo? I suoi thread raccolgono centinaia di commenti di gente che vuole capire o aiutare a capire, con modestia, con umiltà. Leggendoli tutti ci si può avvicinare a farsi un’idea abbastanza precisa, anche se generalmente non del tema trattato.

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sono libero, scelgo a cazzo di cane

La lista delle mie incompetenze è sterminata. Non so nulla di matematica liscia o applicata, nulla di economia, niente di chimica o di microelettronica, sono digiuno di giardinaggio, di solfeggio, di meccanica dei fluidi, di cinema russo, di futbol americano, di pastorizia e avicoltura. Ho una solida incompetenza in fatto di giurisprudenza, di sociologia urbana, di moda pretaporté, di come si cucina il soufflé e non so niente di niente di vulcanologia. Potrei continuare un giorno intero: le cose di cui non so niente sono un vasto impero di cui persino fatico a conoscere i confini. E naturalmente non so niente di fisica nucleare, di ingegneria e di tutti i rami annessi e affini.
Se fossi astratto dalla mia identità e mi si chiedesse: «Chi sarebbe bene decidesse di politica energetica nazionale e di energia nucleare?», io direi, che so: Rubbia? Rubbia secondo me ne sa. Sempre che tra Rubbia e colleghi non nascano problemi e divergenze, intrighi, altrimenti siamo di nuovo nella nebbia. «Ma non vorresti che a decidere fosse uno che ad esempio non sa niente?» Ecco, onestamente no. Di uno come me, non mi fiderei tanto. Io non mi farei decidere. Anche se, lo ammetto, sarebbe una ben grave decisione.

Intendiamoci: non sono del tutto coglione, ne so anzi quanto voi, ho letto i giornali, internet, le ho fatte tutte le discussioni da bar. E ho tutta una mia formazione politico-ideologico-sentimentale che mi ha portato già una volta a compulsare furiosamente tutte le fonti di se-dicente informazione e di conseguenza a esprimere un voto diciamo così ragionato, un’opinione, che si rivelò in quel caso piuttosto condivisa. E di cui non ho avuto modo di pentirmi in seguito (anche se è legittimo il dubbio che non mi sia lamentato a causa dell’ennesima ignoranza, quella circa il rapporto tra le cose di cui mi lamento abitualmente e quella decisione). Ma sono passati molti anni e francamente se ripenso al me stesso di quei tempi sono pochi gli aggettivi qualificati a descrivermi quanto: “scemotto e supponente”. Certo, c’è sempre la possibilità che non lo fossi del tutto. Ma se ciò che mi permette di valutare oggi la mia scemità di allora non fosse una sopraggiunta saggezza, ma una scemità soltanto più aggiornata? È un po’ come l’argomento: «Ma siamo un popolo cialtrone, non vorrai lasciare una cosa così pericolosa in mano proprio a noi?». Pericolosa quanto decidere se farla o no, dici? È un problema senza soluzione.

Certo, a sentimento, vorrei abitare in una città giardino, tutta verde e senza inquinameno. Uno di quei posti così romantici e credibili da essere tanto cari agli sceneggiatori di film dell’orrore, per intenderci. Certo, anche a me pare una faccenda assai pericolosa. Ma anche gli aerei mi danno il terrore e non son certo di volere che le mie tipiche reazioni («Siete pazzi, io su quel coso non ci salirò mai!») diventino per tutti un punto d’onore.

Tuttavia un parere occorre darlo, perché a decidere di non farlo si dovrebbere essere competenti in decisioni e loro conseguenze, e non è detto che lo siamo. La cosa non mi scandalizza. Sono abituato a dare pareri su cose di cui sono incompetente. E lo faccio volentieri, non mi costa niente. È la vanità dell’uomo moderno. Cosa deciderò? Mi affiderei volentieri alla disciplina di partito, ne avessi uno, anche di ritorno. In mancanza d’altro, mi baserò sui miei valori, sulle mie profonde convinzioni e sul futuro dei miei figli. Eccerto. È un fatto d’orgoglio. Io sono un uomo libero. Faccio quello che voglio, io.

traumatologia di un amore

– Paola, sto camminando, ho il telefonino in una mano, come vuoi che faccia a.

– Senti Paola mi hanno ingessato, ho la stampella, il telefono, sto camminando, non riesco anche.

– Ma Paola, non ti sto trattando male! Ti sto solo dicendo che faccio fatica a.

– Paola, ma vai a cagare!

clic

AMISCI MIEI

Chi non ha mai fatto il trenino? Non mentite, non siete credibili. L’animatore o l’amico brillantone lo chiamano e tutti si mettono in coda, mani sui fianchi di quello davanti (che con un po’ di fortuna sarà dell’altro sesso e non troppo simile a un’aragosta bollita) al ritmo di qualche ballo sudamericano, sculettando e facendo facce molto buffe, buffissime. Signori in bermuda col capello rado e signore scollacciate e in carne ridono di gusto, non è chiaro di cosa. Perché puoi anche vergognarti come un ladro a mente fredda, ma quando sei lì è difficile resistere alla tentazione di dare il meglio di te. Che purtroppo spesso coincide col peggio, savasandir.

Il trenino, paradigma del divertimento democratico, è perfetto sotto il decimo anno d’età, oppure per i villaggi vacanze o per le crociere economiche. È agghiacciante in qualsiasi altro contesto. Secondo alcuni in realtà è agghiacciante ovunque, ma noi ci manteniamo fedeli a un profilo medio senza cedere agli eccessi snobistici.

Il gemello siamese del trenino nella comicità parlata o scritta è il tormentone. La battuta che si ripete identica, la parlata buffa, il gesto ricorrente, l’azione stramba che tutti imitano, lo strafalcione mirato (“savasandir”). Non è chiaro chi lo inizi, ma un sacco di gente ci si attacca e fa trenino, ognuno fornendo il suo originale contributo. Del resto non siamo tutti individui identicamente unici e irripetibili?

Il tormentone è un mezzo di umorismo goliardico, spiritualmente adolescenziale, parente stretto delle risate che da ragazzi si facevano negli spogliatoi quando il solito amico, il brillantone, faceva la solita rumorosa puzzetta. È un umorismo ormonale, gregario, semplice e soprattutto molto democratico. Perché è finalmente alla portata di tutti: grazie al tormentone ci si può sentire spiritosi in tanti con un cervello solo o, secondo i soliti snob, anche senza (ma noi non siamo d’accordo con loro, savas… naturalmente). Per questo il tormentone è il futuro: perché porta il sorriso. E noi lo salutiamo con gioia, perché il sorriso è sempre il benvenuto: niente come un sorriso ti fa guardare il mondo con occhi nuovi e ti riconcilia con la vita. Facciamolo assieme, facciamolo per un sorriso!

LOL.

(clicca qui sotto)

riti di massa

Alla seconda nota diffusa dalla radio amplificata, il bar di via Crocetta, a quest’ora animato da una ventina di persone variamente rumorose, di colpo ammutolisce. Nessuno fiata; tre lunghi minuti, religiosi, in cui ognuno osserva attento il mulinello lento del cappuccino come fosse una colpa antica, seppellita, ma riguardata ora da un’altezza vertiginosa, una salvezza solo immaginata. Poi, quando l’angelo vola a gola spiegata verso l’ultimo ritornello, un’ambulanza di passaggio canta l’ite missa est e nella pioggia di piume e lustrini dà il via libera per gli uffici, gli androni, i sottoscala, le carte, gli sbuffi, i maneggi, gli scarafaggi e tutto l’armamentario terricolo, polveroso e sudaticcio che esala i suoi affanni nell’obliqua luce del mattino terrestre.