jonathan franzen, libertà

ATTENZIONE: CONTIENE TRACCE DI SPOILER

Finita la lettura, sfumato l’accordo in maggiore dell’ultimo capitolo, l’impressione è che le perplessità e i mezzi giudizi abbiano trovato proprio nel lento e raccolto movimento finale una specie di sigillo, visto che non hanno trovato una smentita. Se i nodi non si sono sciolti, hanno però un anello cui legarsi bene. Libertà, a mio parere, sta tutto in quel finale di cui dobbiamo tacere l’aggettivo: per questa doverosa prudenza diventa difficile parlare del libro senza rovinarne la lettura a chi non l’ha ancora aperto. Costui sappia che l’attende un buon romanzo, piacevole e quasi sempre capace di catturare la sua attenzione e in cui troverà la consueta eccellente – a volte addirittura sorprendente – capacità dell’autore di rendere il dettaglio psicologico, ma un’inconsueta, almeno a mio parere, debolezza di voce.

Quello che voglio dire è che, in Libertà, Franzen pare sacrificare la potenza – e la libertà – della sua voce a un atteggiamento volontaristico, programmatico ma extraletterario, un approccio che piega la narrazione e le impone percorsi non del tutto chiari. Non mi riferisco tanto alle questioni ecologiche cui Walter consacra la propria vita e Franzen interi capitoli, questioni consapevolmente giocate con dosi massicce di ironia per renderle digeribili, ma a una scelta etica: la necessità di trovare, in astratto, un punto d’equilibrio tra responsabilità e libertà, tra errore (“Sono stati commessi degli errori”: gran bel titolo peraltro), distruzione e ricostruzione paziente. Naturalmente non c’è niente di male nelle scelte etiche di un autore, purché non interferiscano con il suo lavoro. Invece la decisione  a favore di una “riconciliazione sentimentale”, laddove le speranze di una vera presa di coscienza collettiva riguardo al destino comune paiono naufragare nel consueto e grottesco tutti contro tutti (perché la realtà è complicata e la libertà da tutti rivendicata è solo un risarcimento scadente e fatuo per un destino che non possiamo controllare e ci inchioda nel punto che siamo) quella decisione appare come un imperativo morale non supportato dalla logica interna della trama. Che si trova infatti nella necessità di ricorrere, non senza un accenno di birignao, al mero calco di luoghi classici (la morte dell’antagonista ad esempio, da puro melò, e una generale atmosfera “russa” che hanno notato in molti, che pare più un vezzo che non una vera necessità narrativa). La decisione etica è una camicia di contenimento che smorza e toglie potenza alla voce, la irrigidisce, le impone un contegno, la ferma quando minaccia di farsi gli affari suoi e di seguire la logica interna dei personaggi e del dramma. Certo, segue strade inaspettate per affermarsi: non l’impegno pubblico di Walter, prima intransigente, poi subdolo, infine patetico, ma la via del cuore di Patty, che tanto sbaglia ma tanto sa redimersi e mutare. Ma così facendo quella decisione, non abbastanza contrastata nel tessuto del romanzo, troppo assecondata dalla preferenza dell’autore, lo conduce a un solo passo dal precipizio: la pedanteria che si mostra nelle spiegazioni eccessive, nei ghirigori, nell’interesse del romanziere per “i fatti in quanto fatti” che per paradosso rischia di far evaporare la sospensione di incredulità del lettore per i fatti in quanto metafore.

Libertà, va detto, si ferma al perimetro di quel precipizio. Perché è anche vero che c’è l’altro lato del libro, il lato oscuro che a malapena l’enorme abilità e raffinatezza di Franzen nel trattare il dettaglio psicologico e di costruire ritratti vivissimi (specie nei figli maschi e nei padri, specie nei loro punti di debolezza e nei loro sogni traditi) può illuminare. È il lato dell’essere giocati, decisi dalle forze incontrollabili della storia e della natura, che possono emergere a consapevolezza e in qualche modo venire riassorbite solo attraverso l’autocoscienza, e quindi la scrittura e il resoconto (i due rinoceronti verbali costituiti dagli esercizi autobiografici della protagonista, una mise en abîme in cui Franzen sembra così poco interessato alla verosimiglianza della voce e ai giochetti strutturalisti su “chi sta guardando-chi sta parlando”, che il suo intento pare invece quello di poter dire: «I’m Patty»). Forse è qui che una eccessiva fiducia nei poteri della sua arte gli fa credere che basterà scrivere la propria storia per, alla fine, esserne riscritti, senza badare all fatto che dall’esterno si noterà l’asso nascosto nella manica? Chi è dunque la Patty “santa” dell’ultimo capitolo? Una creatura che fa dei propri errori la base per ascendere alla purezza, novella Hester Prynne che ostenta la lettera scarlatta nel suo viaggio dentro l’incubo della storia fino a trasformarla, la lettera infame, in un simbolo di pace? Oppure un essere fasullo e cartaceo, decisamente poco credibile nella sua improvvisa conversione dall’amore sensuale a quello spirituale, previa eliminazione, deus ex automobile, della rivale? (Proprio come, in miniatura, il figlio Joey resiste alla Grande Tentatrice – che naturalmente è molto figa e quindi molto sola e per questo si comporta così: come se la raccontano i maschi che fanno cilecca, nessuno mai – e ritorna dall’antica amante nei cui confronti tutti i sintomi dicevano: game over). O magari più banalmente è una di quelle donne rinate grazie a massicce dosi di sedicente sofferenza e analisi e dovrebbe fare le valigie e trasferirsi di peso dentro uno di quei romanzi edificanti sul valore della relazione umana e sull’importanza di perdonarsi, una di quelle che poi fanno la pace col papà vanesio e col marito tradito, con il vecchio amante e con l’odiata moglie del figlio rimettendo torti subiti e fatti e vissero tutti assieme felici e contenti a New York? Oppure c’è qualcosa che non vediamo?

È difficile capire quale significato nasconda l’aver fatto di Patty l’angelo salvatore di un alter ego maschile incapace di trarsi fuori dalla palude del narcisismo negativo e dell’idealismo adolescenziale, se tra le pieghe di questa scelta (“ora basta, da adesso le cose andranno bene, almeno qui, almeno tra noi, almeno dentro queste pagine, fate che vada tutto bene”) si debba scorgere una sorta di ottimismo volontaristico vagamente obamiano per non dir di peggio, oppure la rassegnazione, la posa stanca di colui che troppo si è speso senza risultati e ora cerca solo un buen retiro in campagna a scrutare passeri, o piuttosto (ed è la mia ipotesi, cui non so dare pezze d’appoggio) se quel che si cela qui è il puro e semplice terrore, qualcosa di talmente spaventoso che ci ha sfiorato da vicino e che abbiamo deciso, almeno per ora, di non guardare in faccia.proprio nel lento e raccolto movimento finale una specie di sigillo, visto che non hanno trovato una smentita. Se i nodi non si sono sciolti, hanno però un anello cui legarsi bene. Libertà, a mio parere, sta tutto in quel finale di cui dobbiamo tacere l’aggettivo: per questa doverosa prudenza diventa difficile parlare del libro senza rovinarne la lettura a chi non l’ha ancora aperto. Costui sappia che l’attende un buon romanzo, piacevole e quasi sempre capace di catturare la sua attenzione e in cui troverà la consueta eccellente – a volte addirittura sorprendente – capacità dell’autore di rendere il dettaglio psicologico, ma un’inconsueta, almeno a mio parere, debolezza di voce.

Quello che voglio dire è che, in Libertà, Franzen pare sacrificare la potenza – e la libertà – della sua voce a un atteggiamento volontaristico, programmatico ma extraletterario, un approccio che piega la narrazione e le impone percorsi non del tutto chiari. Non mi riferisco tanto alle questioni ecologiche cui Walter consacra la propria vita e Franzen interi capitoli, questioni consapevolmente giocate con dosi massicce di ironia per renderle digeribili, ma a una scelta etica: la necessità di trovare, in astratto, un punto d’equilibrio tra responsabilità e libertà, tra errore (“Sono stati commessi degli errori”: gran bel titolo peraltro), distruzione e ricostruzione paziente. Naturalmente non c’è niente di male nelle scelte etiche di un autore, purché non interferiscano con il suo lavoro. Invece la decisione  a favore di una “riconciliazione sentimentale”, laddove le speranze di una vera presa di coscienza collettiva riguardo al destino comune paiono naufragare nel consueto e grottesco tutti contro tutti (perché la realtà è complicata e la libertà da tutti rivendicata è solo un risarcimento scadente e fatuo per un destino che non possiamo controllare e ci inchioda nel punto che siamo) quella decisione appare come un imperativo morale non supportato dalla logica interna della trama. Che si trova infatti nella necessità di ricorrere, non senza un accenno di birignao, al mero calco di luoghi classici (la morte dell’antagonista ad esempio, da puro melò, e una generale atmosfera “russa” che hanno notato in molti, che pare più un vezzo che non una vera necessità narrativa). La decisione etica è una camicia di contenimento che smorza e toglie potenza alla voce, la irrigidisce, le impone un contegno, la ferma quando minaccia di farsi gli affari suoi e di seguire la logica interna dei personaggi e del dramma. Certo, segue strade inaspettate per affermarsi: non l’impegno pubblico di Walter, prima intransigente, poi subdolo, infine patetico, ma la via del cuore di Patty, che tanto sbaglia ma tanto sa redimersi e mutare. Ma così facendo quella decisione, non abbastanza contrastata nel tessuto del romanzo, troppo assecondata dalla preferenza dell’autore, lo conduce a un solo passo dal precipizio: la pedanteria che si mostra nelle spiegazioni eccessive, nei ghirigori, nell’interesse del romanziere per “i fatti in quanto fatti” che per paradosso rischia di far evaporare la sospensione di incredulità del lettore per i fatti in quanto metafore.

Libertà, va detto, si ferma al perimetro di quel precipizio. Perché è anche vero che c’è l’altro lato del libro, il lato oscuro che a malapena l’enorme abilità e raffinatezza di Franzen nel trattare il dettaglio psicologico e di costruire ritratti vivissimi (specie nei figli maschi e nei padri, specie nei loro punti di debolezza e nei loro sogni traditi) può illuminare. È il lato dell’essere giocati, decisi dalle forze incontrollabili della storia e della natura, che possono emergere a consapevolezza e in qualche modo venire riassorbite solo attraverso l’autocoscienza, e quindi la scrittura e il resoconto (i due rinoceronti verbali costituiti dagli esercizi autobiografici della protagonista, una mise en abîme in cui Franzen sembra così poco interessato alla verosimiglianza della voce e ai giochetti strutturalisti su “chi sta guardando-chi sta parlando”, che il suo intento pare invece quello di poter dire: «I’m Patty»). Forse è qui che una eccessiva fiducia nei poteri della sua arte gli fa credere che basterà scrivere la propria storia per, alla fine, esserne riscritti, senza badare all fatto che dall’esterno si noterà l’asso nascosto nella manica? Chi è dunque la Patty “santa” dell’ultimo capitolo? Una creatura che fa dei propri errori la base per ascendere alla purezza, novella Hester Prynne che ostenta la lettera scarlatta nel suo viaggio dentro l’incubo della storia fino a trasformarla, la lettera infame, in un simbolo di pace? Oppure un essere fasullo e cartaceo, decisamente poco credibile nella sua improvvisa conversione dall’amore sensuale a quello spirituale, previa eliminazione, deus ex automobile, della rivale? (Proprio come, in miniatura, il figlio Joey resiste alla Grande Tentatrice – che naturalmente è molto figa e quindi molto sola e per questo si comporta così: come se la raccontano i maschi che fanno cilecca, nessuno mai – e ritorna dall’antica amante nei cui confronti tutti i sintomi dicevano: game over). O magari più banalmente è una di quelle donne rinate grazie a massicce dosi di sedicente sofferenza e analisi e dovrebbe fare le valigie e trasferirsi di peso dentro uno di quei romanzi edificanti sul valore della relazione umana e sull’importanza di perdonarsi, una di quelle che poi fanno la pace col papà vanesio e col marito tradito, con il vecchio amante e con l’odiata moglie del figlio rimettendo torti subiti e fatti e vissero tutti assieme felici e contenti a New York? Oppure c’è qualcosa che non vediamo?

È difficile capire quale significato nasconda l’aver fatto di Patty l’angelo salvatore di un alter ego maschile incapace di trarsi fuori dalla palude del narcisismo negativo e dell’idealismo adolescenziale, se tra le pieghe di questa scelta (“ora basta, da adesso le cose andranno bene, almeno qui, almeno tra noi, almeno dentro queste pagine, fate che vada tutto bene”) si debba scorgere una sorta di ottimismo volontaristico vagamente obamiano per non dir di peggio, oppure la rassegnazione, la posa stanca di colui che troppo si è speso senza risultati e ora cerca solo un buen retiro in campagna a scrutare passeri, o piuttosto (ed è la mia ipotesi, cui non so dare pezze d’appoggio) se quel che si cela qui è il puro e semplice terrore, qualcosa di talmente spaventoso che ci ha sfiorato da vicino e che abbiamo deciso, almeno per ora, di non guardare in faccia.

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