onda, megafono, sedia

Il blogger Whitefang mi segnala in un commento a un post precedente che l’ormai nota assemblea della Sapienza non è l’unica ad aver elaborato proposte di riforma dell’Università. Dice:

I documenti dell’ "onda" mi sembrano molto annebbiati. Attenzione però: perché dev’essere il "network delle università in rivolta" ad avere necessariamente l’egemonia e il "punto di vista ufficiale" riguardo alle opinioni sull’università? Le proposte intelligenti non mancano: questo che segnalo è un riassunto delle discussioni che si sono svolte soltanto all’interno dell’ateneo di Verona. Eppure mi sembrano proposte in larga parte sensate e non rivolte al riproporre i soliti vecchi stereotipi in una salsa nuova.

Nel post premettevo che non so quanto siano rappresentativi i documenti della Sapienza, dato che gli ambienti studenteschi mi sono un po’ alieni ormai. Pur nel loro essere grezzi e in qualche caso ingenui, questi qui mi sembrano decisamente meglio. Almeno sembrano scritti da gente di questo secolo che ha idea di quali siano i problemi reali e quali quelli immaginari (tra "Corsi specialistica e master obbligatoriamente in inglese" e "Cinema aggratis" ammetterete che c’è un bel salto…). Poi le soluzioni buone, si sa, è difficile trovarle per chiunque.

Tutto ciò è molto confortante.

Meno confortante è il fatto che questa faccenda mi fa venire in mente un altro problema tipico dei movimenti, il cosiddetto problema del megafono. In ogni movimento c’è sempre uno che prende in mano il magafono e riesce a far sentire la sua voce a tutti. E la sua diventa un po’ la voce di tutti. Purtroppo chi è bravo a prendersi il megafono, in assenza di criteri di selezione migliori che non la sveltezza, non è detto che sia il più intelligente, il più preparato o il più bravo. E’ solo il più bravo a prendere in mano il megafono…

(questo fa il paio col problema della sedia. Nelle assemblee di movimento la linea che passa non è la migliore, è quella presentata dal tizio che sa rimanere seduto sulla sedia più a lungo, nello sfinimento di tutti gli altri. Ma quante ne so?).

l’onda non si giudica si cavalca

(e io non ho il costume)

Questo blog assumerà ora una piega un po’ privata, di nicchia, quasi di sezione, praticamente di cellula carbonara, protomassonica, iniziatica, una roba per fanatici, in sostanza per malati di mente, una faccenda da spostati totali con scarso rapporto con la realtà.
Insomma: gente che fa politica, e addirittura senza un partito. Abbiate pietà.

***

In conversazioni con i miei amichetti "de politica" (quelli con cui da anni ci si trova, si discute, si fanno cose e si vede ‘ggente), avevo riassunto il mio post di ieri sull’Onda con la frase: forse è meglio ritirarsi in collina. E Giacomo via mail mi ribatte:

«Che disfattismo, quanti giudizi ultimativi, che livore. Non serve a nulla una critica depressiva dei movimenti, del loro eventuale conservatorismo e della loro inadeguatezza. I movimenti sono imperfetti per definizione, sono frutto delle culture politiche presenti nel territorio che li esprime. Mi sembra poco utile analizzare i movimenti se il punto di vista è solo quello delle proposte. Penso infatti che questo movimento debba essere giudicato, più che in base alle proposte che avanza, in base ai meccanismi di espressione e ai processi di partecipazione sociale che riesce a costruire. Le assemblee nazionali di qualsiasi movimento sono il peggio del peggio, sono il luogo delle contese tra capetti e ceto politico vario. Non darei troppa importanza a quei documenti. Penso anche che l’università sia solo una parte (forse nemmeno la più interessante) del movimento. Dove sto io, a Macherio, nella profonda Brianza, è nato un comitato per la difesa del tempo pieno e della scuola pubblica, così si chiama; ci fanno parte mamme e papà che fino a ieri erano nel comitato antimoschea, si ritrovano il giovedì sera insieme a due mamme marocchine che quella moschea la vogliono aprire. Nel comitato ci sono insegnanti e anche singoli cittadini. L’altro giorno in treno una ragazza, commentando la sua partecipazione al movimento, diceva alla sua vicina: "sai, aldilà di quello che ci diciamo in questi giorni, il fatto stesso di fare queste cose mi sta piacendo di brutto".
Penso anch’io che le proposte siano importanti, che il cosa si dice al mondo sia lo specchio di quello che sei, però credo che il primo passo per una generazione di ventenni, così come per le mamme della Brianza, sia quello di prendere la parola e cominciare a ragionare. Ritirarsi in collina? Secondo me l’opzione giusta e scendere a valle e fare dei bei ruzzoloni».

Segue la mia articolata risposta.

Hai ragione, non bisogna esagerare l’importanza di queste assemblee, che sono in genere palestre di ceto politico. È un errore ridurre un movimento, piccolo o grande, alla sua consapevolezza o alle proposte che formula, perché i movimenti tendono a eccederle per la loro stessa natura. I movimenti  costruiscono il futuro con materiali del passato (o almeno ci provano). C’è "movimento" diffuso anche nella costruzione di un mezzo scaracchio come il PD, e se si dovesse sempre giudicare dall’esito…
Ed è anche vero che gli universitari, curiosamente, da tempo esprimono le tendenze politicamente più attardate e arretrate per motivi che non è difficile spiegare. È un po’ come per la politica: perché mai un comparto arretrato e chiuso in sé dovrebbe esprimere innovazione?
Meglio le mamme della Brianza.

E invece è la presa di parola comune a essere importante, è l’aria che sta cambiando direzione. Tuttavia, come dici tu stesso, molti tra coloro che oggi sono all’opera, sono già abituati a questo "prendere parola insieme": l’hanno già fatto contro la moschea, ad esempio.
E la Lega è l’esempio perfetto di movimento che porta le persone fuori dalla loro passività casalinga e gli fa fare riunioni di sera, banchetti di pomeriggio e gite a Pontida tutti assieme una volta l’anno. È partecipazione sociale, che ci piaccia o no, peccato che il suo obiettivo sia di infilare il negro sullo spiedo, smentendo tutte le possibili speranze nei movimenti "in sé" (anche al netto delle nostre antiche e inascoltate analisi che facevano della Lega un sintomo di trasformazioni che la sinistra non ha saputo rappresentare).

Non è dunque il movimento "in sé" che ci giova, questo è feticismo. Ciò che ci interessa, è che l’obiettivo della mobilitazione "no alla moschea" è stato sostituito dall’obiettivo "perseguire il bene comune nella forma di una scuola elementare funzionante". È questo che rende una socialità progressiva e l’altra regressiva. Occorre ricordarlo: le due cose separate non funzionano: "impegno personale assieme ad altri" e "chiaro obiettivo del bene comune" vanno in coppia. Il primo da solo è cieco, il secondo da solo è monco.

Tornando a noi: sappiamo bene per averlo visto svariate volte che il mix di ceto politico incancrenito e desideroso di visibilità e obiettivi sbagliati calati sulla testa di persone un po’ sprovvedute può distruggere qualsiasi movimento, farlo abortire e disperdere la sua capacità di sedimentare. Do you remember social forum?
Quindi se parlo di incollinarsi, non si tratta di disillusione verso i movimenti, non serve disilludersi né illudersi: i movimenti fanno comunque quello che pare a loro e di fatto, almeno quelli davvero importanti, determinano nel tempo il nostro stesso modo di leggere le cose. Si tratta probabilmente di disillusione verso la mia capacità di affrontare le parole d’ordine sbagliate e la pulsione di autodistruzione e morte che attacca i movimenti e rischia di distruggerli, pulsione che i ceti politici dei "movimentisti di professione" portano in sé come untori.

In definitiva: mi rimangio la collina, ma mantengo tutte le critiche sui contenuti. Credo sia, se ce n’è una, la cosa che so fare e non penso che sia inutile né espressione di livore o di "maestrinismo", ma di adesione al presente e anche ai suoi errori, con i miei mezzi.

l’ombra della paura

Un tema senz’altro interessante è quello della "percezione di". Acutamente fanno notare: non conta quel che accade, ma quel che si percepisce accada. La gente si sente insicura e questo basta, quindi servono azioni decise. La risposta usa lo stesso argomento di questa pretesa confutazione di ogni alternativa: se conta la percezione, e questa è sconnessa dai fatti, qualsiasi azione reale e diretta è nel migliore dei casi impotente nel contrastarla e nel peggiore, per la legge di Murphy, non farà che amplificarla. Forse è opportuno ripensare a quali siano questi famosi "fatti".

Un intervento sensato, uno tra i pochi letti in questo periodo, quello di Ilvo Diamanti su Repubblica del 9 scorso (non online), usa questo argomento nell’analizzare tra l’altro in caso Treviso, spiegando poi che insicurezza è un nome di comodo in cui si riassumono una serie di impressioni reali che non necessariamente hanno a che fare con episodi micro o macrocriminali, ma hanno più relazione con stati di insicurezza sociale multicausa: degrado urbano, rottura dei legami sociali, abbandono del territorio a logiche di puro interesse, incertezza economica diffusa, pura e mera "fatica sociale" e così via. Questi temi vengono in genere definiti banaltrismo. Mi pare che il vero benaltrismo sia rifiutarsi di rispondere alla semplice domanda: perché se la microcriminalità diminuisce costantemente (e la macro è comunque su valori "normali", se è vero che in Italia ci sono stati 621 omicidi nel 2006, contro i 16.000 degli USA), l’insicurezza aumenta al punto che, come declama oggi un non imparziale assessore al Comune di Milano, «la gente è terrorizzata e non ne può più»?

La Repubblica
9 settembre 2007

A che punto è la paura nella società vulnerabile
di Ilvo Diamanti

Un fatto sicuro è che siamo insicuri. Che l´insicurezza sta crescendo rapidamente, nella società. L´abbiamo rilevato qualche mese fa (Osservatorio Demos-coop, giugno 2007). L´83% delle persone pensa che oggi, rispetto agli ultimi anni, in Italia la criminalità sia aumentata. Il 44% ritiene che lo sia anche nella zona in cui vive.
La sensazione del rischio, però, è aumentata soprattutto a livello locale (+ 10 punti percentuali negli ultimi due anni). Questa tendenza sta penalizzando, soprattutto, la maggioranza di governo. Non a caso, il 40% degli italiani ritiene il centrodestra maggiormente in grado di “combattere la criminalità”. Mentre solo il 18% considera più affidabile il centrosinistra.
E´ per questo, probabilmente, che, da qualche tempo, leader di governo e amministratori di centrosinistra sono protagonisti di iniziative molto discusse, in tema di ordine pubblico. In alcune città (fra cui Bologna, Padova e Firenze) sono state avviate azioni decise contro l´illegalità urbana e contro la “microcriminalità”.
Un termine riduttivo. Evoca reati “piccoli piccoli” commessi da “criminali piccoli piccoli. Li pesti a ogni passo”, ironizza Marco Paolini in una pièce. In effetti, si tratta di reati che suscitano grande inquietudine, perché “offendono la vita quotidiana dei cittadini”, come ha giustamente affermato Giuliano Amato, intervistato da Massimo Giannini. Il ministro dell´Interno, per questo, ha annunciato, anch´egli, “un pacchetto di misure urgenti contro la criminalità”. Mentre i sindaci Cofferati e Domenici hanno auspicato che vengano attribuiti loro “poteri di polizia”. Subendo le pesanti ironie di Giancarlo Gentilini, (pro)sindaco di Treviso. Il quale, a una recente “festa della Lega”, ha invitato a diffidare delle imitazioni; di “questi sceriffini di sinistra”. E ha scandito: “Lo Sceriffo sono io”. Ha inoltre chiarito quale uso farebbe dei poteri di polizia. Riguardo agli autori del sanguinario assalto alla villa nei pressi di Treviso, ha, infatti, detto, senza giri di parole: “L´unica pena certa è la pena di morte. Metto io il sapone sulla corda”.
Naturalmente, non c´è parentela fra le posizioni di Gentilini e l´orientamento di Cofferati, Domenici e Zanonato (per non parlare di Amato). Lo “sceriffo di Treviso” è il primo a rifiutare l´accostamento con quelli che definisce “gli sceriffini bolscevichi”. Però, non è casuale se, quando si parla di “tolleranza zero”, in Italia, il pensiero non cada su Rudoph Giuliani, ma su Gentilini. Profeta della “tolleranza doppio zero”.
Il fatto è che la sinistra, soprattutto negli ultimi vent´anni, ha sostenuto il tema della “giustizia” principalmente se esercitata dai magistrati contro i poteri e gli interessi forti (Berlusconi, grandi imprenditori, i politici di governo). Oppure contro le grandi organizzazioni criminali (mafia, camorra e ‘ndrangheta; in alcuni casi “colluse” con i poteri e con gli interessi forti). Mentre ha sempre mostrato disagio di fronte alla “microcriminalità”, perché composta, in larga parte, da figure socialmente marginali. Quasi che, come ha osservato Carlo Trigilia sul Sole 24ore, il principio di legalità si dovesse adattare alla condizione sociale dei responsabili di illeciti. Ma i cosiddetti reati “minori” meritano la massima attenzione, e suscitano grande reattività nell´opinione pubblica, proprio perché non solo gli artefici, ma anche le vittime appartengono, prevalentemente, ai ceti popolari e marginali.
Tuttavia, è indubbio, e significativo, che il verbo “securitario”, in Italia, evochi, per riflesso pavloviano, Gentilini. Lo Sceriffo della “tolleranza doppio zero”. Il quale ha inaugurato, negli anni Novanta, un modello ispirato al motto “ordine e pulizia”. L´ordine: espresso da iniziative provocatorie, a chiaro contenuto simbolico (segare le panchine su cui stazionano gli immigrati), rafforzato da messaggi ancor più violenti (proponendo, fra l´altro, di mascherare i soliti immigrati da “leprotti”, per poi aprire la caccia, a colpi di doppiette). La pulizia: il centro storico trasformato nel “salotto di casa”, ripulito non solo dalle cartacce, ma anche da stranieri, accattoni e poveracci.
Per sopire l´insicurezza della società, in altri termini, si ricorre a iniziative provocatorie, indirizzate contro bersagli “esemplari”. Una politica efficace, dal punto di vista dell´immagine. Che, tuttavia, non risolve l´insicurezza. Perché la asseconda e, quindi, la dilata. Come dimostra, di nuovo, il caso di Treviso. Dove la Lega governa in Comune e in Provincia. E agita, periodicamente, “la paura” della criminalità, ma soprattutto degli immigrati, per motivi di consenso politico. Tuttavia, (come dimostra il rapporto curato dalla Caritas per il Cnel) il grado di integrazione degli immigrati a Treviso è, da anni, fra i più alti d´Italia. Grazie alla capacità di assorbimento delle imprese, alla rete di solidarietà dell´associazionismo cattolico (e non). Ma anche alle politiche attuate dalle amministrazioni locali leghiste. Che, per propaganda, predicano male ma, per necessità, razzolano molto bene.
Fa bene, allora, il centrosinistra ad affrontare, con decisione, il problema dell´insicurezza. Ma deve evitare di “imitare” questo modello. Non può, in particolare, accontentarsi della “politica dell´annuncio”. Perché, in questo caso, rischia di risultare poco credibile. Una “cattiva imitazione” della destra. Tanto più se promette ciò che poi non è in grado di mantenere. Giuseppe D´Avanzo, sulla Repubblica, ha sollevato il dubbio che il “pacchetto anticriminalità” possa effettivamente essere approvato entro l´anno. Perché mancherebbero non solo i “voti” (della sinistra radicale), ma anche i “tempi” tecnici.
Occorre poi chiarire il rapporto fra criminalità comune e insicurezza. Spiegare perché, negli ultimi anni, l´insicurezza sociale sia cresciuta mentre la microcriminalità, da tempo, sta declinando. Come dimostrano le statistiche fornite dallo stesso ministero dell´Interno (giugno 2007). Negli ultimi dieci anni, ad esempio, i furti di auto sono calati (l´8% solo nell´ultimo anno). I furti in abitazione quasi dimezzati, al pari degli scippi. Sono cresciute, invece, le rapine. Quasi del 50%. Ma vanno catalogate, piuttosto, nei reati maggiori. L´Italia, peraltro, presenta tassi di episodi micro-criminali non dissimili dal resto d´Europa.
Per affrontare il tema della sicurezza dei cittadini, dunque, occorre evitare “chimere”. Artifici ambigui, per impressionare l´opinione pubblica. Usare la lotta alla criminalità comune (obiettivo meritorio) come terapia all´inquietudine sociale. Altri fattori, ben noti, concorrono ad alimentare le paure dei cittadini. La società è insicura perché l´ambiente in cui vive è insicuro. Perché i legami sociali si sono indeboliti, perché le città sono diventate spesso invivibili e sempre meno vissute, perché il territorio si è degradato. Non è un caso che il massimo grado di insicurezza oggi investa proprio le grandi città. Che le categorie sociali più esposte siano gli anziani – i più soli. Ma anche i giovanissimi, che crescono in ambienti sempre più anomici; sempre più “violenti” (i quartieri periferici, il mondo della notte, le stesse scuole). La società è insicura perché le persone si sentono vulnerabili e isolate, in un mondo senza confini, che moltiplica tensioni e minacce. La società è insicura perché i media amplificano i fatti di violenza quotidiana. Per ragioni di spettacolo, oltre che di informazione. La società è insicura perché la politica invece di offrire certezze insegue e moltiplica l´insicurezza.
Argomenti che il ministro Amato potrebbe considerare afflitti dal vizio tipico della sinistra, che fa filosofia invece di “misurare le politiche sulla loro efficacia”. Tuttavia, noi dubitiamo che la lotta ai microcriminali possa realisticamente abbassare la soglia della paura. E dubitiamo perfino della sua efficacia, se mira ad aumentare la “concentrazione” di forze dell´ordine senza incrementare la “densità sociale”; senza legare l´azione della polizia al contesto e alla comunità locale. Noi dubitiamo che la paura e la criminalità comune si possano contrastare.
Fino a che, come avviene oggi, lo sviluppo dei quartieri e il disegno delle città verranno affidati (anzi: appaltati) alle imprese immobiliari. Fino a che lo spazio intorno a noi continuerà ad apparirci “ostile” e “straniero” (a prescindere dal numero di immigrati che lo popola). Fino a che il compito di garantire la sicurezza verrà affidato, se va bene, a una crescente presenza di polizia. Se va male, a surrogati folk: sceriffi e ronde padane. Oppure, come ormai avviene ovunque, a sistemi di videosorveglianza. Occhi liquidi, che monitorano un territorio sempre più deserto, attraversato da ombre.
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mago zurlì, o il male

G. Neri confronta il vincitore dell’ultima edizione dello Zecchino d’Oro con il suo omologo olandese, in cui si canticchia di un bimbo adottato da una coppia gay.

Titolo della canzone italiana: Wolfango Amedeo. Esempio di testo:
«A Salisburgo antica città / C’era una mamma e c’era un papà / Ebbero un bimbo che strano il suo pianto / Più che un lamento sembrava un bel canto!»

Titolo della canzone olandese: Due padri. Esempio di testo:
«Viviamo in un attico / pieno di cose belle / Viviamo lì tranquilli tutti e tre insieme / Bas lavora per il giornale / E Diederick è un assistente di laboratorio / Mi hanno adottato quando avevo un anno».

Difficile dire se il confronto verta sulle diverse retoriche, sul fatto che il contenuto debba (debba??) essere più o meno realistico, o sulla politically correctness.

Marco comunque si chiede:
«Ma davvero un mondo in cui allo Zecchino d’Oro i bambini cantassero di padri gay sarebbe migliore di un mondo in cui si canta di Popof o di Wolfango Amedeo? Ma davvero piegare i bambini a un’ideologia (qualunque ideologia) è sintomo di modernità?».

Insomma, lasciateci la Peppina, dice Marco.

Non so dire se il mondo sarebbe migliore nel caso proposto da Marco; probabilmente, senza farla tragica, ciò che ci appare opportuno o meno è per lo più questione di assuefazione, di costume, non di opportunità in senso proprio.

So invece bene cosa ne pensavo io, dello Zecchino d’Oro. È probabile che il mio caso non sia rappresentativo, può darsi che un bambino che da piccolo si appassiona ai peanuts e alla collana di guerra supereroica, ma che viene colto da torpore di fronte a tex, superman, diabolik e compagnia, sia un po’ subnormale.
Ad ogni modo: io lo odiavo lo Zecchino d’Oro, lo odiavo più a otto anni di quanto non faccia adesso. Lo odiavo probabilmente (questa è la spiegazione che mi do ora, ovviamente, allora non c’erano spiegazioni, solo il dovere di recitare un’infanzia appiccicaticcia e il fastidio per quel dovere) perché era una roba umiliante, fatta da adulti che pretendevano di trattarmi da deficiente decerebrato solo perché ero più corto di loro.

Gli adulti hanno notoriamente la tendenza a inventarsi bambini inesistenti, appassionati al pensiero mitico, alla fantasia e alle filastrocche, tutte cose che magari piacciono agli adulti, costituzionalmente nostalgici e rincoglioniti, ma che i bambini, in quanto vi sono immersi senza per questo saperle maneggiare, subiscono come un limite, una jattura, il marchio della propria minorità, del proprio esser subordinati e a cui sperano di sfuggire al più presto deprecando la propria sudditanza al potere ipnotico delle storie, un potere che non comprendono (e in qualche caso non comprenderanno mai…), in cerca di una bramata "realtà". Per restare al problema: manifestano questa tendenza, gli adulti, sia quando inoculano agli indifesi bambini il repertorio delle peppine saldate per l’eternità alla caffettiera, credendo che questo li diverta, sia quando pensano di dover instillare loro qualche buon sentimento, qualche valore, qualche sol dell’avvenire.
In realtà il massimo dell’odio per me a quel tempo erano le favole di Rodari; quel misto di progressismo buonista e mito dell’infante, cuciti insieme da un surrealismo fasullo e magico, quelle filastrocche presunte bizzarre, quelle storielle incongrue i cui nessi retorici restano per principio totalmente oscuri a qualsiasi bambino sano di mente. Ed era così comico e disperante che l’adulto dovesse spiegare al bambino il significato di certi passaggi demenziali, stupendosi che l’infante suddetto, così "fantasioso" per natura, non ci capisse un’acca. A nessuno sorgeva il sospetto che il bambino cerca spiegazioni credibili a problemi reali e soverchianti, non favolette idiote su braccia distratte che si staccano e passeggiano per conto loro.
Come se io poi non potessi avere le mie idee, ben più "progressiste" di quelle, senza un cretino che cercava di farmi fesso a suon di rime e torte in cielo.

Livingston

pezzi di ferrara ovunque

Noblesse oblige, ogni tanto usciamo dalla retorica colla maglia pesante e ci occupiamo anche di cose terrene.
(Ehi, qualcuno ha visto il mio scovolino? M’è rimasta una lisca d’acciuga tra i denti…)

Così accadeva che dal sior Squonk si discutesse con piglio tribunizio come solo noi blogghi perlopiù ignoti sappiam fare del tema urto (participio passato di urgente, cioè trapassato) e così ristretto: il giornalismo italiano è tutto venduto da far schifo o cosa?

A tal proposito si citava il noto scapigliato Ferrara Giuliano, che così argomentava in altro, più alto, loco, non senza spudoranza:
«I giornalisti sono lavoratori dipendenti, il loro padrone non è il lettore ma l’editore, l’editore non è un contropotere ma un potere tra i poteri, e quel potere stipula regolari compromessi ad ogni latitudine e longitudine con lo stato, i partiti, le lobby e le altre potenze sociali».

Il sior Squonk, ertosi (erettosi? Insomma, ergendosi) a interprete di siffate divagazioni parafrasava da pari suo:
«A Ferrara sembra non interessare minimamente il concetto di informazione (termine che infatti non figura mai nel suo articolo), ma unicamente quello di formazione della pubblica opinione, che pare essere nè più nè meno di un esercizio di statistica: ognuno mette in bocca al lettore la sua polpetta più o meno avvelenata, e sta poi al lettore stesso calcolare la media ponderata di ciò che ha sentito (o letto, o visto) per crearsi il quadro dei fatti e la conseguente opinione, facendo la tara di tutte le falsità o distorsioni o parzialità che – lecitamente, secondo Ferrara – gli vengono propinate, e a pagamento».

Inquietatosi, riassumeva:
«Siamo tutti così, e quindi meglio che nessuno si atteggi a vergine in mezzo alle puttane».

E chiudeva coll’amarognolo quesito: e se Ferrara avesse ragione? (limortacci)

Sinoforse, eggià. Presero alcuni la parola piuttosto unanimi ma questa sfuggiva loro rapida e il locale si empiva frattempamente di fumi passivi e pigrizia altrettanta.

Finalmente, dopo aver affermato che sì, il costui ha ragione se guardiamo all’oggi, dacché i giornali sono proprietà di potentati economici che si fanno dei bei cazzi loro, colui nomato wizzo affermava come un sol uomo nel mezzo del consesso:
«Avete mai visto un giornalista di Repubblica contro De Benedetti?, o uno della Stampa contro gli Agnelli?, e pensate che al manifesto, giornale cooperativa dove forse la libertà del singolo ha i margini più ampi, se uno, poniamo, volesse difendere anche un solo comma della legge 30, pensate troverebbe lo spazio per farlo?».

Non senza concludere, ficcatamente:
«La libertà di informazione si misura con l’ampiezza del numero delle fonti a disposizione del lettore. Dell’informazione che si spaccia per verità tout court è sempre bene diffidare».

Un qualcerto vibramento si notava nell’aria localizia pervia dell’opinione inusuale e cosìben esposta.

Il vostro quipresente, trovatosi non richiesto nel mezzo dell’animato questionare, e al solito non discordando pressoché con nessuno dei presenti e degli assenti, buttava lì colla sua spocchia che ben gli si conosce e il linguaggio ciclostilista da burocrate amante delle circolari, un consueto colpo cerchiobottista ammantato di sottile penetrazione analizzatoria (cosa avevato pensato?):
«Il problema non è la verità, wizzo, ma la possibilità da parte di ogni singolo operatore di esercitare l’indipendenza di giudizio (che non coincide con la verità, ovviamente, ma con la deontologia professionale – non riguarda il contenuto ma il metodo)».

Non avendosi obiettato, si procedeva spedito:
«L’alternativa a questa individuazione della responsabilità (molto borghese, in senso nobile, e forse per questo ideologica? In tal caso quella che illustro non sarebbe un’alternativa ma la “sua” verità) è la moltiplicazione delle dipendenze, la lottizzazione delle opinioni consentite. Che, occorre ammetterlo, è quello che in media succede in italia. In questo schema l’indipendenza di giudizio si esercita più precisamente attraverso la libertà di vendersi all’interesse che più ci aggrada, sperando o calcolando che coincida col nostro.
Ma questa moltiplicazione, si può esercitare in un solo modo, e precisamente quello noto in italia, dove vige la compenetrazione tra potere economico, sistema politico e operatori dell’informazione?».

Giunto a questo punto, io mi sentiva come fossi emesso a reti unificate, e rilasciai un vaticinio come si rilascia un peto:
«Ora, Ferrara fa sempre, in tutti i campi in cui si applica (la politica in primis) questo esercizio di cinismo, che fa passare per sincerità: “la realtà è schifosa, l’uomo è malvagio, l’interesse prevale – il proprio per sé, e quello del più forte in generale – chi non lo ammette è un ipocrita, ammetterlo è l’unica possibilità per tenere lo schifo almeno sotto controllo, per regolarlo, per bilancare gli interessi".
E fin qui, de gustibus, ognuno si elabora la metafisica che più gli corrisponde.
Il punto è che lui, come il giocatore delle tre carte, da questa presa d’atto deduce, in modo spurio (e interessato: la coerenza non gli manca) che QUINDI ciò che accade, accade come accade e non è in alcun modo modificabile.
È un ragionamento pigro e onnicomprensivo, che egli applica anche a campi in cui non si giustifica granché, se non con un teorema preventivo di scadente scuola hegeliana, per cui ciò che è reale è razionale (o irrazionale, che ce importa?)».

Ancora non finiva:
«Quindi, se in italia la pluralità dei giudizi si esercita tramite la lottizzazione economico-politica degli accessi alla “voce pubblica” – e non tramite prassi e regolamenti soggetti a sistemi di controllo terzi a garanzia dell’indipendenza di giudizio degli operatori, come pure accade altrove – questo è ciò che accade, è ciò che va riconosciuto, e quindi è ciò che va accettato. Accettarlo predispone all’accesso di tutti (o di chi rappresenta interessi sufficientemente articolati e potenti) alla lottizzazione, che è la sola garanzia “reale” della pluralità del giudizio.
Ferrara ha ragione contro chi ingenuamente pensa che l’interesse non esista (cioè con chi fa coincidere la verità con il proprio interesse, senza nemmeno riconoscerlo come tale), ha ragione contro il legalismo delle anime belle che immagina gli uomini forniti di eguale potere e eguale “capacità di resistenza” all’interesse altrui, ma ha torto sostenendo che, dati gli interessi esistenti in un ambiente dato, una forma cristallizzata di equilibri qualsivoglia, anche soffocante e vetusta, sia tout court insuperabile».

E qui la piazzata mi si esaurì. Rientrato in me come si rientra in un vestito ridotto dall’inopinato lavatricio a quattro taglie sotto, e sovrastato dal silenzio degli astanti che non mi prometteva niente di buono, arrancai guadagnando l’uscita frettamente. Domani è un altro giorno, mi dissi coltivando la speranza, assai lussureggiante di suo, di venir dimenticato.

diversamente puri

Luca riprende un articolo di Repubblica sulla questione del voto relativo alle missioni italiane all’estero, Afghanistan compreso. Il giornalista Rampoldi tra l’altro scrive, riferendosi ai dissidenti di sinistra che intendono votare contro il governo Prodi:

Abbiamo il sospetto che non pochi esponenti di questa sinistra radicale non siano affatto accecati dall’ideologia. Che insomma sappiamo bene quanto fasullo sia il loro Afghanistan: o comunque considerino secondaria la verità. Obbediscono ad un calcolo quasi privato, pre-politico. Cosa conviene dire, dove conviene posizionarsi, cosa vuol sentire il mio pubblico, il mio elettorato, i miei sovvenzionatori? Quale tesi mette in difficoltà i miei competitori? Quale opinione mi giova di più, mi distingue, mi rende più visibile?

Mi pare debole argomentare sulla presunta cattiva fede altrui, come fa Rampoldi.
O possiede il dono della fusione mentale vulcaniana (in questo caso rampoldiana) e ce lo dimostra, o lo stesso si potrebbe sospettare degli scopi della sua parte, uguali e contrari.

(Tra l’altro ci sono terreni nei quali la presenza di opinioni diverse è estremamente prevedibile, su cui non è prudente, politicamente parlando, pensare di possedere né la verità – sintomo lessicale: quello "accecato" e sempre l’altro – e purtroppo a volte nemmeno un’informazione sufficiente.

Per dire: tra non molto scoppierà il bubbone CPT, le cui condizioni sono purtroppo veramente pessime, a sentire varie fonti. Puntare a far passare una linea prudente, del tipo "ci vogliono ma vanno migliorati", accusando i "radical" che sosterranno la linea "chiusura adesso" di cattiva fede sarà oltremodo complicato per il centro dell’Unione, dato che molte ragioni sembrano essere invece dall’altra parte. Converrebbe allora prepararsi a una dialettica un po’ meno infantile di quella per cui le parti si rimbalzano un "io ho le informazioni migliori, io ho ragione, quindi tu sei in cattiva fede").

In questo caso specifico, credo sarebbe più efficace limitarsi ad argomentare sulla bizzarria politica di "votare secondo coscienza", quando tutta la tua coalizione la pensa diversamente, col risultato certo di ottenere con questo voto o uno spostamento del tuo governo su posizioni nel merito ancora più lontane dalle tue (per via del soccorso di pezzi dell’opposizione), o addirittura in prospettiva un altro governo, caduto questo, molto più restio a prendere anche solo in considerazione le tue istanze. Forse quando mantenersi coerenti ottiene il risultato di allontanare ancora di più l’obiettivo della propria coerenza, sarebbe il caso di dare una registrata al funzionamento del nesso mezzi-fini.

Può darsi che si manifesti qui anche la differenza tra chi ha un’opinione un po’ teatrale della politica (temo, questa sì, pre-politica), che servirebbe a testimoniare pubblicamente la propria coscienza, ritenuta sacra, e chi la ritiene invece uno strumento pragmatico per ottenere, nei limiti consentiti dall’etica pubblica, risultati reali(stici) ma, per così dire, "anonimi".
Quelle cose tipo l’eterogenesi dei fini, altrimenti dette l’inferno delle buone intenzioni. Ma non vorrei spingermi oltre, dato che l’eterogenesi colpisce tutti, proprio quando non te l’aspetti… Zac!

sei precario? parliamone

Luca e Leibniz riprendono un pezzo di Ichino sulla precarietà, comparso pochi giorni fa sul Corriere, citando questo passo:

Resta da chiedersi perché il precariato sia oggi percepito diffusamente come problema più grave rispetto al passato, visto che la statistica non ne conferma un aumento complessivo rilevante. È ben vero che, secondo gli ultimi dati forniti dalla Banca d’Italia, di coloro che sono passati dal non lavoro nel 2004 a un lavoro dipendente o autonomo nel 2005, il 40,5% l’ha trovato nella forma del contratto a termine, del lavoro interinale o del lavoro a progetto: percentuale che era andata lentamente crescendo negli ultimi anni. Ma se la quota complessiva di quei contratti di lavoro precario resta contenuta ben al di sotto del 20% del totale, questo significa che in due casi su tre (se non tre su quattro) essi si trasformano abbastanza rapidamente in lavoro a tempo indeterminato.

Io direi che la sintesi di Ichino è forse un po’ ottimistica, e come De Mita vorrei fare un ragionamendo.

Ovviamente, l’essere fisso del rapporto "entrate nei lavori flessibili-uscite nei lavori stabili", di per sé non dice nulla circa il tempo in cui quel passaggio avviene (potrebbero anche essere 10 anni!). Tutto sta a vedere cosa significa "abbastanza rapidamente". Il che, come ovvio, cambia molto le cose.

Ma, si dice, i disoccupati che nel 2004 non lavoravano e che nel 2005 hanno lavorato, quasi per metà hanno trovato lavoro con contratti flessibili: se non ci fosse passaggio "abbastanza rapido" a contratti stabili, la quota di contratti flessibili dovrebbe esplodere, invece non accade.

Posto che lavorare è in generale meglio che essere disoccupati (questo non va dimenticato nel valutare i contratti flessibili), occorre però guardare bene l’analisi.
Intanto, i dati della Banca d’Italia si riferiscono al 2005; direi che per prudenza occorrerebbe aspettare almeno i dati del 2006 circa il rapporto flessibili-stabili per vedere se davvero il turn over si è mantenuto simile. Basarsi sui dati del 2005 per affermarlo (Ichino: «tra il 2001 e il 2005 la quota di contratti a termine è rimasta stazionaria») non mi sembra proprio il massimo.
Ma poi occorrerebbe considerare i numeri reali. Non disponendo delle cifre, faccio un’obiezione di metodo, pronto a farmi smentire: quanti devono essere in un anno i nuovi lavoratori flessibili (o quanti anni devono passare) per cambiare decisamente il rapporto 85-15, posto che tutti i lavoratori con contratti stabili non si suicidano di colpo né vanno in pensione tutti assieme?
La percentuale di 40,5%  sopra citata è senz’altro alta (e significativa), ma non riguarda, si noti, "tutti i nuovi contratti", ma "i contratti di quelli che prima non lavoravano". Cioè, se io avevo un contratto flessibile nel 2004, e nel 2005 ho un altro contratto flessibile, non entro nel conto della Banca d’Italia. Quell’esplosione percentuale, è anche un’esplosione numerica? C’è davvero da aspettarsi un aumento drastico e immediato della quota generale dei contratti flessibili, oppure questa semplicemente accelererà un po’ la sua curva?

Se questa obiezione fosse plausibile, dire che "la quota complessiva rimane stabile" sarebbe almeno prematuro. Dire che "la precarietà" è un problema solo per un tempo "abbastanza rapido", sarebbe un po’ semplicistico, e non considererebbe il contesto, che è lui, non la precarietà, il vero problema.

Del resto – ma credo che su questo Ichino sarebbe del tutto d’accordo con me – proprio il fatto che la percezione della precarietà sia "settoriale", cioè non venga percepita se non dai giovani, in primo luogo segnala che si sono fatte negli ultimi anni riforme "di comodo"  – e questo è il "contesto problematico": invece di riformare i contratti di tutti, introducendo qualche criterio di flessibilità generale sopportabile perché "spalmato" e supportato da qualche nuovo istituto di welfare, come i redditi di disoccupazione o reinserimento o simili, si è preferito far pagare i costi della flessibilità a quelli che verranno, creando artatamente un serbatoio di ipo-garantiti contro un blocco di super-garantiti; allo stesso modo invece che riformare le pensioni di tutti, si è preferito far pagare il deficit a quelli che verranno, riducendogli i contributi – con curva di rientro prevedibilmente lunghissima. Motivo: chi c’è adesso, vota i governi di adesso, chi ci sarà quando la curva farà vedere i suoi effetti – pensioni da fame – voterà i governi di allora: cazzi loro (nel tavolo del consociativismo c’è sempre una sedia vuota, quella della lungimiranza, che notoriamente non vota).
 
E in secondo luogo spiega perché tale percezione superi la dimensione "oggettiva"  e appaia ad alcuni "un grave problema" (e ad altri provochi stupore: "ma perché si lamentano? Solo il 20% è precario, come sempre"): il fatto non è che ci sono "tanti" precari, è che sono (stati) tutti concentrati in un settore.
Cioè: proprio il fatto che l’80% della forza lavoro non si percepisca precaria (e non lo sia) aumenta la percezione di precarietà di quel 20%, e proprio perché esso non è "spalmato" su tutto il fronte del lavoro, ma concentrato su una categoria peraltro estrinseca: i giovani.

Lo stesso Ichino dice:
Ora, può essere che la quota dei «precari impigliati» rispetto al totale sia aumentata più di quanto sia aumentato complessivamente il lavoro precario; ma se questo è il problema, esso non nasce né dalla legge Treu né dalla legge Biagi: esso nasce invece dall’aumento delle disuguaglianze di produttività tra gli individui nella società postindustriale, cui le imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento. Questo problema può essere affrontato soltanto col rafforzare professionalmente i più deboli, o aiutarli a trovare la collocazione in cui possono rendere di più (ciò per cui una fase di maggiore mobilità all’inizio della carriera lavorativa è indispensabile); mentre aumentare il costo del loro lavoro rischia di condannarli alla disoccupazione.

"Abbastanza rapidamente" potrebbe significare in questi casi, per un laureato, che dopo la tesi egli inizia a lavorare e, se la sua qualifica non è molto ricercata, ha buone probabilità di farlo per un paio d’anni in nero (se lavora in una regione che lo permette, se no diventano di più), e poi potrebbe farne 5-7 di cocopro con contributi minimi.
Questo vuol dire in soldoni che fino oltre i 30 anni, se non ha la rendita dei genitori e se non ha scelto un settore lavorativo in cui si è ben pagati:
A) campa maluccio, lasciando metà dello stipendio in affitto;
B) butta nello sciaquone 10 anni ai fini pensionistici.
(Basta un rapido calcolo per vedere a che età andrà in pensione uno che inizia a pagare i contributi in modo decente a 30-33 anni).
Se moltiplichiamo questa vicenda, avremo una bella cifra di persone, di giovane età, con possibilità di spesa ridotta e altissimo tasso di frustrazione sociale.

Rimangono quindi due questioni:
1) Quanto è aumentata la quota dei "precari impigliati"? Qual è il numero di anni oltre il quale non si sta semplicemente "sondando il mercato per cercare la propria collocazione" (e pazienza, noblesse oblige, se in questo periodo di frivola e spensierata bohéme, si prende la metà del collega che in genere fa lo stesso lavoro e anzi spesso lavora meno, ma ha un contratto stabile, e soprattutto si percepiscono contributi pensionistici risibili e frazionati), ma più precisamente si passa da un contratto flessibile all’altro senza troppa convinzione?
Oltre che percentuale questa quota è tale da giustificare la percezione della precarietà come un problema sociale?

2) Come si fa a "rafforzare professionalmente i più deboli", cioè a impostare un moderno welfare universalistico tarato sul lavoro flessibile di tutti (che sensatamente non va abolito, ma supportato e fornito di limiti e garanzie) che preveda solidi sistemi di sostegno nei periodi di non lavoro e costruisca, assieme a scuole e università efficienti, cultura diffusa e disponibile, ricerca di buon livello, mercato abitativo non impraticabile, una "moderna" società delle opportunità, che invece di "assistere", cerca di portare il maggior numero possibile di persone in condizione di "esistere socialmente" e di cavarsela autonomamente? La risposta è semplice: per farlo si devono spendere soldi in questa direzione.
Il che ci richiama un’altra domanda, che è poi l’unica roba seria detta qui: come si fa a trovare questi soldi, se per il 65% il welfare italiano continua a essere familistico e assicurativo? La favola che in Italia si spende troppo in servizi è, appunto, una favola. Il 65% della spesa di welfare va in pensioni (contro il 40% di media europea). Bel problema.




miserie e fortune dell’operaio sociale

Giorni fa, l’avrete sentito, c’è stato il primo sciopero alle librerie Feltrinelli. La cosa mi pare interessante non tanto perché Feltrinelli sia di sinistra (uh?), ma perché è l’unica catena di vendita libraria italiana degna di questo nome, anche se infinitamente più piccola di omologhe straniere.

Ecco un significativo estratto del pezzo del Corriere:

«I nuovi assunti hanno turni massacranti – spiega Jonas -, la domenica hanno straordinari più bassi, vengono presi senza integrativo». Ma il punto non sono solo i soldi: «Lavorare qui, un tempo voleva dire avere una grande professionalità. E tutti, nel loro piccolo, si sentivano parte di un’azienda che fa cultura. Poi sono arrivati i manager dell’Esselunga, della Decathlon. La famiglia Feltrinelli s’è affidata a loro. Abbiamo chiesto un colloquio a Carlo, il figlio di Inge. S’è fatto vivo solo un mese fa, per lettera, proponendoci l’improponibile: niente soldi, niente orari, integrativo limitato ad alcuni lavoratori… Tanta durezza non ce l’aspettavamo».

Ha provato a esprimere un parere, diremmo dal punto di vista del consumatore, Massimo su Leftwing. Lettura interessante come al solito.

Anche Marco esprime una sensazione
«m’è venuto da pensare, istintivamente, che ci fosse qualcosa che non andava. Non tanto nello sciopero, figurarsi, ma nella pletora delle motivazioni addotte. Che somigliano tanto, per dire, a quelle che sento ogni giorno a scuola quando colleghi che non smuoverebbero di un millimetro il loro modo di concepire l’insegnamento berciano che, in virtù del sublime ruolo sociale che l’insegnamento dovrebbe ricoprire eccetera eccetera, sarebbero auspicabili stipendi triplicati e chissà quali altri benefit in termini di riconoscimento sociale in un florilegio di "signora mia"».

Da inesperto, direi che si deve ribaltare l’approccio: la battaglia per l’adeguamento del salario e delle condizioni di lavoro è in genere spinta, oltre che dalla necessità, dall’esigenza di rendere accettabile a un trentenne la frustrazione dovuta alle aspettative, prima caricate a molla da 20 anni di acculturazione medio-superiore, e poi frustrate causa mercato globale, vincoli di competitività e miseria del welfare nostrano in un lavoro di commesso sottopagato, precario e fungibile in una grande catena – di libri o di salsicce. Una battaglia che, in un giorno di depressione, diremmo che probabilmente non si può vincere per principio, non solo per la difficoltà di ottenere miglioramenti salariali – superabile – ma perché quel mix di motivazioni non allude a elementi oggettivi (non esiste "il libro" in quanto dato di natura, come ben spiega Massimo, e forse nemmeno il modo giusto per formare gli addetti alla sua vendita) ma a intepretazioni di sé e del proprio ruolo sociale. L’ideologia insomma vorrebbe che un conto sono i commessi di una catena low cost, Decathlon o Ikea, un conto è un libraio, e che cavolo (e magari un conto è un professore, vien da aggiungere seguendo Marco, o un giornalista, seguendo me stesso).
Invece le trasformazioni della struttura economica e del mercato sembrano mischiare parecchio le carte a questo proposito e smentire del tutto l’assunto.

Ciò spiega perché quella che è una "mera richiesta di soldi e garanzie" si travesta di motivazioni che appaiono dal di fuori pretestuose, ma che invece gli sono ben coessenziali, pena il precipizio della stima di sé.

Dilemmi del lavoro immateriale, si direbbe. Sulle cui avventure ecco un tortuoso pezzo del sempre ineffabile Slavoj Zizek (e qui non posso che invocare di nuovo l’intercessione di Massimo…)

lepre marzolina – 2

Poi c’è chi non gli vanno i dirigenti, i fassini, i rutelli, i dalemi, e con questi quasi perdevamo.

A parte che, in termini numerici, sono i dati migliori di sempre.
Ma comunque.

Io che ho ricominciato a votare da una decina d’anni, ho smesso col voto emotivo (e anche con quello ideologico: del resto non esiste in parlamento – e mai esisterà – un partito liberale di ultra-sinistra, quindi non scelgo in base alle mie presunte idee).

Piuttosto cerco voti utili (non vorrei dire razionali…). Voto "laicamente", cosciente che il singolo voto è piuttosto irrilevante, che puoi anche non votare e non succede proprio niente. Ma quindi puoi anche votare senza paura di tradire te stesso – che poi il sestessismo è alquanto sovrastimato come importanza – ma perché succeda effettivamente qualcosa.

Dato che pendo a mancina, e che il primo problema di un governo è stare in piedi, ho votato spero razionalmente quelli che imo non lo faranno mai cadere: ds di qui e ulivo di là. E mi sento piuttosto soddisfatto (sul futuro di questo governo, riconteggio permettendo, ho detto sotto).
(nb: con questo criterio, a ben vedere, anche rifonda andrebbe bene. Dubito proprio che faranno due volte lo stesso errore).

Ovvio che costoro non rispecchiano tutte le piccole idee in cui mi riconosco quando sono solo al chiaro di luna. Ma sono abbastanza grande per non pretenderlo. Ed essi sono a loro volta abbastanza grandi per avere in sé intere correnti che contano da sole – in termini reali, non di tattiche d’aula – più di qualche partitino testimoniale tutto intero, e correnti di tutti i tipi, persino laiche e moderne!

Imo l’idea che per fare politica occorre "entusiasmarsi" è fallace. Occorre tempo, molta (molta) pazienza, e se sei fortunato idee e capacità.
L’entusiasmo serve a chi non si interessa di politica per votare, ma è un’altra cosa.
E il tornaconto, sempre per la mia esperienza, non è la realizzazione dei propri obiettivi o opinioni che, se si è in uno spazio democratico, difficilmente è mai totale, a meno che non si aboliscano gli altri. Il tornaconto è il lavoro comune in sé. Le opinioni (che non sono le idee) sono anch’esse sovrastimate.

Certo, se si pensa che fare politica voglia dire votare, allora è dura quadrare il proprio personale cerchio. Che io sappia, "lo stato di cose presenti" non si muta col semplice voto. Tale mutamento è invece sempre in atto, a sentire il nostro vecchio capo. Sappiamo vederlo qui e adesso questo atto, questo movimento reale? Questa specificità di visione dovrebbe distinguere la sinistra dalla destra. (curioso che per molti invece essere di sinistra voglia dire precisamente "non vederlo").

E certo, i dirigenti del centrosinistra non sono esattamente una meraviglia, per essere gentili. Ma come si dice: è il mercato, bellezza.
Dubito impediscano a nessuno di essere più bravo di loro. Quindi?

(è tutto gia apparso qui)

lepre marzolina – 1

Io penso che tra quelli – a sinistra – che dicono che non gli va Prodi perché non è anticapitalistico e rivoluzionario e non prospetta il superamento dello sfruttamento mondiale, e quelli che non gli va sostanzialmente perché non è telegenico, è fisicamente goffo, o non è un grande tattico, i primi mi sembrano comunque ancora i meno comici.

(I secondi in genere tendono a preferirgli Veltroni. Sì, anch’io. Se si aggiunge che le differenze in termini di progetto politico tra i due sono inferiori allo zero).

Ora c’è la parte seria. Insomma, quella.

Da programma, il governo Prodi, riconteggio permettendo, sarà sostanzialmente neo-socialdemocratico: una mediazione, in campo economico-sociale, tra una linea meno timidamente blairiana – Margherita, alcuni settori dei DS – e una più classicamente socialdemocratica novecentista e fordista – Rifondazione.
Può non entusiasmare, anche se è piuttosto oggettivo che diversamente, in ogni altro modo, si sarebbe perso. E che se tale sintesi esiste, è solo perché Prodi l’ha perseguita (scarso come tattico, ma discreto stratega? A guardare i numeri dell’Ulivo, parrebbe).

Sarà, lo dico con categorie un po’ ambigue, più di sinistra del Prodi del ’96 – non a caso c’è un accordo che allora non c’era con Rifondazione – anche perché la distanza tra l’area più sinistraliberal e quella rifoncomunista in questi anni si è assottigliata (non da ultimo per via di alcuni piccoli avvenimenti esteri: guerre, crisi economica mondiale ecc).
Nel cervello non proprio brillantissimo dei primi comincia finalmente a diradarsi la confusa sovrapposizione tra liberismo di destra e posizioni new-labour o addirittura simil-danesi; nei secondi si sta affacciando timidamente il dubbio (dopo anni che qualcuno lo urla nelle loro orecchie) che, per usare un linguaggio da ciclostile, la "composizione tecnica sia mutata, assieme a quella politica" e forse tra welfare, statalizzazione dell’economia e piena occupazione il nesso non è poi così necessario né scritto nell’alto dei cieli.

Che dire: vedremo se la sintesi funzionerà, non tanto a livello politico – chi rompe il patto qui finisce accoltellato – quanto nelle cose.

(Non mi occupo qui di faccende che preoccupano molti, come i diritti civili ecc., che con il consueto snobismo ritengo folle si pensi debba occuparsene lo stato – in tal campo io sono per il completo laissez-faire – e che peraltro stanno a cuore ad almeno l’80% di quel 50% preso dall’Unione: non mi pare che ci fosse un’altra coalizione che li garantisse di più.)