Meritato dissenso


Le idee popolari sono giustamente popolari? E quelle non popolari sono giustamente non popolari?

Messa così la domanda lascia un po’ di sale. Giustamente rispetto a cosa?

Granieri ci scrive un post qui: con linguaggio semplice e divulgativo (che, come si discuteva tempo fa, nulla dice circa la validità di ciò che dice) parla di rete e blogpalla, sostenendo tra le altre cose che:

(in rete) le idee troveranno il consenso che naturalmente meritano.
Se a qualcuno piacciono, avranno link e visiilità. Se non piacciono a nessuno, evidentemente, no.

(la precisazione che sta parlando di rete e non di altro è importante).

Mantellini, qui, ne parla. Secondo me fraintende un po’, infatti risponde come se Granieri avesse detto:

le idee troveranno il consenso che naturalmente meritano, cioè se sono buone tanto consenso e se sono cattive poco.
(il che sarebbe francamente insostenibile)

Granieri risponde ancora qui, un po’ precisando e un po’ no. Poi tocca a me.

Giuseppe, la parte descrittiva dei tuoi articoli mi pare ricostruibile così:
abbiamo un "piano" su cui proliferano minoranze (più preciso che non "piccoli mondi" come tu li chiami: allude al principio di riduzione, cioè di maggioranza, nei media a risorse scarse) sovrapposte, instabili, impermanenti e variamente connesse. Che transitino informazioni si spiega già con la struttura: se ogni minoranza è in realtà l’intorno delle mie frequentazioni, ognuna di esse (le mie frequentazioni) può avere me come sua frequentazione oppure no e frequenterà probabilmente altri che io non frequento. Quindi minoranze non è sinonimo di community come si equivoca: non sono gruppi omogenei con propaggini all’esterno o incursioni dall’esterno (da tali gruppi, se fossero massimamente coesi, l’informazione non uscirebbe mai). Propriamente non sono affatto gruppi, ma è la figura multipiano continuamente sfalsata delle relazioni di ognuno che produce un numero indeterminato di intorni coincidenti in modo vario, dalla quasi sovrapposizione (io e te condividiamo le stesse relazioni e siamo condivisi dalle stesse relazioni, tranne ovviamente la nostra reciproca relazione) alla totale estraneità (non abbiamo relazioni in comune e non siamo contemporaneamente nelle relazioni di nessuno). Un po’ come mettere uno sopra l’altro dei quadrati trasparenti e muoverli ognuno di qualche grado in rotazione o lateralmente, salvo che tali quadrati possono essere all’occasione notevolmente elastici.


Questo principio è economico, cioè ci permette di spiegare come le informazioni si diffondano senza ricorrere a leggi come quella del "meritato successo" (le idee ottengono il consenso che meritano – ma sarebbe meglio dire che ottengono un consenso sensato, cioè la cui sensatezza è ricostruibile), che trovo ambigua e su cui ho molti dubbi. Provo a esporli.

Intanto non è chiaro se vada applicata a opinioni, idee progettuali, informazioni, iniziative o altro. Per ognuna ci si può aspettare comportamenti diversi e assimilarli è un errore.
Inoltre, se è intesa in senso forte, come forse ha inteso Mantellini, cioè se si assimila il meritato consenso alla validità "apriori", la tesi è autocontradditoria e falsa (il che era piuttosto intuitivo, del resto, anche in rete). Basta svolgere la domanda: "l’idea secondo cui le idee ottengono il consenso che meritano otterrà il consenso che merita, cioè se è valida molto consenso, se non lo è poco?" e verificare che non sono possibili risposte decisive (la dimostrazione è lunga, sperabilmente non l’ho sbagliata, ve la risparmio ma potete farla da voi).

Intendiamola invece senso "debole", cioè: "le idee ottengono consenso a causa di molti fattori diversi e solo a posteriori possiamo dire "valida" o meglio "funzionante" un’idea perché ha risposto a certe esigenze di certi gruppi anche lontane dalle nostre, ma non possiamo a priori prevederne il successo in base a sue caratteristiche apriori o tantomeno in base a una sua presunta validità assoluta e tantomeno alla sua validità "per noi". Una sorta di pragmatismo alla James applicato alla rete, con i suoi stessi limiti e contraddizioni, o sbaglio?

Essa è così più accettabile, e può forse servire da base all’analisi delle affinità. Tuttavia è anche pericolosa e molto esposta.


Da una parte dice troppo poco, limitandosi a una tautologia – le idee popolari piacciono a qualcuno, cioè sono popolari –  senza spiegare niente che già non sappiamo descrivendo la struttura del medium (le informazioni transitano).


Dall’altra parte dice troppo, anche in virtù della confusione tra informazioni, progetti e opinioni: parlare di "consenso meritato", o meglio sensato, a prescindere da una validità assoluta, che in questo contesto smette di vigere, imporrebbe di indagare sulle cause e le
finalità dei comportamenti, indagine per la quale non basterebbero le
risorse della sociologia e della psicologia, né di qualche filosofia
d’occasione.
Inoltre se, metti caso, l’opinione che tale tesi del consenso sia sbagliata ottiene meritato consenso, la tesi sarà da ripudiare, o no? Sì perché l’idea che sia sbagliata sta funzionando, ottiene consenso, no perché il fatto che quell’idea stia funzionando conferma che l’idea del meritato consenso è giusta. Ma giusta per chi? Se si rinuncia alla validità di una decisione in direzione della compresenza "tollerante" di tutte le decisioni possibili, non si può poi invocare quella validità per il discorso che parla di tolleranza. E del resto, se la nostra tesi vale solo per noi, come può descrivere qualcos’altro?


Infine proprio la struttura per minoranze, come si vede dall’ultimo
paradosso, imporrebbe di superare la distorsione ottica per cui si
continua a pensare a questo spazio come uno spazio di "opinione
pubblica" (nel senso storico del termine). Imporrebbe di pensarne  la rottura, e descrivere un movimento del tutto diverso da
quello proprio dell’opinione pubblica e del consenso "democratico" – che si nutre di
media scarsi e mira alla riduzione a uno cioè alla maggioranza, e ha
un rapporto con la nozione di vero del tutto diverso. A dire il vero
ho già esposto queste idee tempo fa, senza alcun successo di critica o
di pubblico, quindi me le tengo per me. Così tra qualche tempo potrò
dirmi da solo: io lo sapevo prima (le piccole soddisfazioni
dell’impiegato…).

Il nero muove e perde in due mosse


2. Scribacchiare


Come scrivete quando scrivete?
Ci si chiedeva. A un certo punto, in un preciso momento.


1.
Quello che scriviamo qui dentro è, o deve essere autentico?


L’autenticità è un mito bizzarro. “Sii spontaneo” è come saprete l’esempio perfetto di doppio legame, che se rivolto a se stessi prelude al disturbo mentale. Pretendi una risposta che rendi impossibile con la tua pretesa. Piuttosto bisognerebbe rispondere alla domanda: come si fa a non essere autentici? Come si può non essere ad esempio “autentici mentitori”? Essere falsi mentitori infatti vuol dire solo essere mentitori scadenti, cioè essere autentici scadenti mentitori.


Un’espressione elaborata cerca di ridurre il livello di involontarietà e inconsapevolezza, cioè le cose che di noi mostriamo senza volerlo aumentando quelle che mostriamo consapevolmente. E’ la differenza tra fare gaffe ed essere brillanti in società. Questo vale nella scrittura di una lettera commerciale, in cui usando un modello ereditato si suppone di limitare i danni. E’ un discrimine scivoloso, poiché tra l’essere brillante e l’apparire un frivolo imbecille passa poco, praticamente nulla. Anzi, nulla.


L’ambizione di ridurre l’invontarietà e quindi darsi un tono pare facilmente ribaltarsi nel suo contrario, tanto che si pensa persino di prevenire il danno assorbendo l’ironia, e nella dissimulazione si anticipa la critica. Un giochetto che non riesce, per colmo di ironia.


La scrittura di valore sarebbe allora quella che, senza porsi il problema di comunicare, adeguatamente ripiegata sulla propria fonte, parla di sé parlando d’altro.

Infatti l’involontarietà non si elimina mai, perché nessuno può avere controllo su tutto, anzi il fatto è che il punto da cui si guarda è proprio quello che non si riesce a vedere. “Io sono quello che tra tutti non incontrerò mai”.


2.
Quindi scrivere in questo modo rapsodico e frettoloso ci rende più spontanei e meno controllati?


Il “tempo che ci si mette” a dire il vero non è una variabile significativa per giudicare della cosiddetta spontaneità della scrittura: ci si può mettere un minuto a scrivere di getto un oggetto in realtà controllatissimo (perché frutto di un orientamento perfetto e preventivo di tutto il “corpo scrivente” che noi siamo, rispetto al suo bersaglio) e due anni per far colare dalle dita un brodo insulso e “spontaneamente” irriflesso.


Poi “spontaneo” allude alla possibilità di dire meglio “ciò che si è”.


M
a si dovrebbe prima essere d’accordo su cos’è il “cosa si è”, faccenda non semplice, perché qui ogni definizione è colma di conseguenze. Ad esempio, diverso è se “ciò che si è” è un “qualcosa” che se ne sta nascosto dentro di noi, nell’umida profondità dei nostri processi interiori; magari lo si può scoprire scavando, ammesso che disponiamo di una vanga così sensibile da smuovere i pensieri o l’assenza di pensieri, e riportatolo alla luce lo potremo anche vedere e quindi dire, rivelare, mostrare, come la pepita che non si sa in che modo, brillava anche prima di ricevere luce.


Ma altro accadrebbe se il “cosa si è” fosse piuttosto un “non qualcosa”, una concordanza di eventi, un dispositivo laterale e ulteriore che si mostra naturalmente qualsiasi cosa facciamo e allo stesso modo, una modulazione corporea, sempre in piena luce e quindi oscura, una piega interna della nostra gestualità, ciò per cui si dice che i fratelli hanno la stessa espressione, lo “stile”.


E qui dovremmo ancora discutere di cosa accade a una modulazione quando accade nella lingua, come il corpo divenga un segno di se stesso al quadrato, una cosa cui si accede attraverso “tecniche”.


3.
Scrivere ci impone di essere “comprensibili e cristallini”?


Questo del “comprensibile e cristallino” può essere un fatto di stile personale, e quindi niente da dire (Uh? Niente da dire su cosa sia lo stile? E che scrivi a fare?), oppure al contrario può trattarsi di un calcolo in rapporto all’obiettivo.


Se scrivo su commissione per un giornale mi conviene di certo esserlo, o non mi pagheranno affatto perché se no, dicono bene, “il lettore non capisce” – il lettore è stupido per definizione, secondo giornalisti e beninformati. Questo infatti si chiama “rispetto del lettore”. Curioso.

Oh be’, chiunque qui capisce che il rispetto principale che determina gli altri rispetti è il rispetto per il profitto: se scrivo in modo elementare, sarà maggiore il numero di persone che può comprendermi; se scrivo in modo standard e senza stile, sarà minore il numero di persone che può rimanere legittimamente infastidito dal mio stile perché non si accorda con i suoi gusti. In entrambi i casi il risultato è un numero maggiore di lettori e quindi di profitti. La figura a tre lati su ognuno dei quali stanno rispettivamente opinione pubblica-universalità dell’informazione-libero mercato, è costruita tessendo legami molto solidi tra i suoi vertici**.


Del resto se voglio essere molto letto, per i motivi più vari, che sia umano desiderio di fama o disumana ambizione a che il mio verbo giunga ovunque, cercherò senz’altro di essere rapidamente compreso, inseguendo sintesi e chiarezza, acutezza e spirito.


Se poi sto lottando con un altro perché un terzo si convinca che la mia strategia è la migliore, per ottenere la sua attenzione e il suo assenso dovrò essere efficace, diretto, limpido, convincente.


La scrittura è la guerra condotta con altri mezzi.


Ma se lavoro in un ufficio e devo mandare una lettera interlocutoria a un fornitore nella quale menare il can per l’aia, essere cristallini è un difetto. Tortuosi e inconcludenti come una palude.


Ugualmente questione di stile si può dire anche dell’essere “comprensibili e barocchi”. Non sono due cose opposte. E non dipendono granché dal mezzo usato. Persino l’essere circolari, non immediati, la perizia nello sviare il lettore vendendogli fischi per fiaschi, non dicendo “tutto quello che si pensa” (come se fosse mai possibile, anzi desiderabile un tale livello di sadica sincerità) può essere, credo, segno di maestria, o verbosa applicazione della credenza per cui comunicare è soltanto fraintendersi allo stesso istante, nascondendo ciò che per sua natura sta alla luce. Mentire, dicendo “c’era una volta” mentre non c’è mai stato.


E scrivere diventa una forma di piacere senza scopo, immanente al corpo e alle sue dimensioni ed esplosioni, nulla più.


In altri casi invece rendersi incomprensibili è solo bassa astuzia – il politico che non sappia farlo non ha molto futuro. Nella maggior parte dei casi, purtroppo, è sintomo solo di sciatteria e di spontaneità.


4.
Come vorremmo scrivere?


Ma forse, come scriviamo in ogni caso. Si dovrebbe essere consapevoli che, o provare a scrivere come se, la scrittura fosse una forma di meditazione, un esercizio “spirituale”, tanto più paradossale perché accade in assenza completa di spirito, nella carnalità del segnare ed essere segnati (attraversati e destinati da rimandi); esercizio che richiede ed è una somma di tecniche, la maggior parte delle quali ahinoi inconsapevoli. Forse l’esercizio consiste nel ridurre la quota di inconsapevolezza. Credo capiti a molti di non sapere cosa si pensa finché non ci si mette a passeggiare su e giù per la stanza. O finché non ci si mette a scrivere.

Il che a dire il vero vale sia che si scrivano barzellette che lunghi tomi, purché sia roba buona.


Temere che questo ci faccia sfuggire il reale appare un chiaro errore. L’assenza è il modo di esser presente del reale nella scrittura. In nessun romanzo realista è annotato ogni singolo respiro del protagonista, o il numero delle sue soste al bagno o la composizione di ogni suo pasto. La scrittura non è uno specchio. E pensare di sapere già cosa sia “reale” è quantomeno il sintomo di una sfacciata incoscienza.


5.
E’ diverso scrivere qui o su un altro mezzo?


La presenza di differenze nello scrivere per la carta o in rete è questione complicata e irrilevante che comunque credo appare impossibile generalizzare. Ciò che alcuni autori descrivono come “superamento della differenza tra oralità e scrittura” che accade nella scrittura elettronica non è riferibile tanto al risultato o residuo, o scarto – lo scritto, che resta per lo più invariato tranne differenze tutto sommato accessorie dentro un’uniformità di intenzioni – quanto a certe prassi di produzione e fruizione reciproca degli atti di scrittura e nella natura dei contesti in cui accadono. Insomma la differenza dello scrivere in rete va cercata nell’essere in rete, non nello scrivere. Il che era abbastanza ovvio già dalla domanda.


Infine:

xx. E tu, cioè, io, come scrivo?






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noterella

** Dove vi è circolazione di informazione senza scambio monetario, infatti, il meccanismo è diverso è prescinde dalla dimensione pubblica e universale: ogni stile e particolarità, ogni minoranza ha la sua chance, ogni lago ha i suoi pesci (il che non è bene o male, accade, e non è nemmeno una novità, se guardate bene il modo in cui di solito muovete la bocca). Ogni lago, lì, è vicino o lontano ad altri laghi e ad altri ancora è più o meno collegato da una rete per lo più non ricostruibile di canali in superficie e in profondità, a dar luogo a una figura discontinua la cui geometria non è rintracciabile perché si sviluppa secondo molteplici piani, molteplici appartenenze, molteplici livelli di notorietà e segretezza. E il fatto che alcuni laghi siano più grossi di altri, o perché dotati di fonti migliori, o più capaci di attirare piogge dell’esterno o perché dotati di un clima ideale per far svernare le oche e altri animali dotati di istinto ferreo ma non altrettanto fervido intelletto, non deve ingannare sulla figura generale, perché per quanto grande sia un lago, è comunque infinitamente più piccolo della somma degli altri laghi. Non si ricostruisce mai una situazione di verticalità e visibilità assoluta e universale, propria di un sistema in cui le risorse siano scarse. In un sistema verticale l’acqua dei laghi cadrebbe tutta in basso, bagnando il pavimento, con gran danno dei tappeti e del parquet.

La chiacchiera senza “fine”


Lorenza confeziona una critica dell’andazzo dominante qui dentro, nella blogpalla. In sintesi: superficialità al potere.


I frutti del mondoblog somigliano sempre più spesso ai frutti artificiali e plastificati della comunicazione di massa. Stereotipi, luoghi comuni, esperienze supposte “di vita” omologate e seriali. Spiritosaggini scontate, non raramente vere e proprie volgarità. Considerazioni banali.

Ma ecco il centro del ragionamento: è una “rivoluzione tradita”, una blogutopia andata a remengo:

Meravigliosa utopia, il mondo blog: finalmente un’autentica possibilità di comunicazione dal basso. Interattività autentica, relazione, rete di informazioni e conoscenze. Nessuna censura. Nessun impedimento alla libera espressione del vissuto individuale. Non piu’ utenti – consumatori, target passivi di pubblicità e propaganda: piuttosto persone autonome che esprimono, che si esprimono. Per una volta, senza filtri. Ebbene: io ci ho creduto.
(…)
temo che la presunta rivoluzione del blog, questa sorta di “democrazia comunicativa” dal basso, sia in realtà una tempesta virtuale in un virtuale bicchier d’acqua.


Poter dire “non mi piace” di fronte a qualcosa che si legge è ovviamente un diritto, se fosse quello il punto non staremmo nemmeno qui a parlarne. Il pezzo intero contiene infatti giudizi molto duri su specifici blog, ma la questione mi pare piuttosto quella che ho riportato nella mia sintesi: l’utopia fallita.

A scanso di equivoci: una voce discordante è sempre meglio di un unico coro, perché mette in moto qualche rotella (nel mio piccolo ci provo qui). Quindi non tento di criticare la critica dato che, se rileggo il mio blog, non posso certo dire che Lorenza non abbia ragione! Ce l’ha. Però.
Ecco, mi sento di criticare il suo principio ispiratore, piuttosto.

È vero, i blog a volte tirano fuori parti disdicevoli di noi stessi (il “mostro”, dico io). Vanità e vuoto.
C’è chi le censura e tende a mostrarsi il più presentabile possibile (non accorgendosi che proprio quella è la sua parte disdicevole… mi stanno fischiando le orecchie!), chi ne approfitta e cerca di dar voce a queste parti nascoste, con esiti variabili, chi non se ne accorge e diventa un po’ patetico. Ma teneramente patetico, secondo me; non avvertire tenerezza verso il fallimento altrui significa non avere empatia, cioè non riconoscere in sé l’identico fenomeno: in sostanza è un peccato di superbia. Il fallimento è una dimensione da cui nessuno si può liberare, se non altro per evidenti limiti biologici. Partire dal proprio, ecco un compito per un blog che si rispetti.

E poi, poi ci sono quelli bravi (ma quelli lo sarebbero dovunque). Loro vedono senza vedere e, ahimé, sono rari.

Però, se i blog rivelano a volte parti inconsapevolmente disdicevoli di noi stessi, significherà pure che queste parti ci sono. Dire che molti blog sono pomposi, imbarazzanti, involuti, infantili, vanesi, vuoti, ecc. ecc. non significa altro che dire: molte persone (io dico tutte, in determinate circostanze) sono pompose, imbarazzanti, involute, infantili, vanesie, vuote ecc. Non mi pare questa grande scoperta. Cioè, io non ci dedicherei un post, ecco. Né si può pensare di sterminarle tutte: il sogno di purezza non può che portare alla fine, per coerenza logica, alla soppressione (anche) di sé.


Ora: secondo me, i blog non “dovrebbero essere” una cosa piuttosto che un’altra, né “potrebbero”. E’ una visione troppo normativa: come si fa a pretendere di normare i comportamenti altrui in una cosa tanto personale come la scrittura? O rammaricarsi se poi ognuno si comporta in modo che per noi è sciatto? Qualcuno ha detto che doveva essere diverso da così? È un blog, mica un trapianto di cervello!

I blog sono uno strumento e ognuno ne fa quello che vuole? Non è vero: al massimo ne fa quello che riesce. Utilizzare criteri morali – è bene fare così, è meglio non fare cosà – in questo caso è fuorviante e rischioso (questa è anche un’autocritica n.b.). Si dà l’idea che ci sia un “modo giusto” la cui verità precede i comportamenti degli attori, e chi non lo mette in opera sbaglia.
Ma, secondo me, è esattamente il contrario l’esperimento – e non la rivoluzione – che la rete mette in piedi: libertà, accesso, agibilità, responsabilità (perché c’è, basta vedere cosa succede a chi si comporta scorrettamente e viene di fatto bandito o esecrato, cioè perde credibilità), tolleranza delle diversità (non tolleranza nei comportamenti, tolleranza tecnologica: non si può sopprimere una voce che non ci piace – tranne in Cina), costruzione di “micro-comunità” di relazione basate su affinità di interesse – comunità a loro volta tecnologicamente non richiudibili ma sfrangiate, a geometria variabile e di fatto permeabili ad altre relazioni.

Quella che tu chiami “rivoluzione (tradita) dei blog”, secondo me, non riguarda i contenuti che ognuno di noi può cavare dal cilindro – e se non ci sono, c’è poco da cavare, piuttosto la forma della loro produzione e circolazione.

Il fatto che le cose più banali e quelle più interessanti convivano a un passo di clic significa che l’esperimento – quell’esperimento, nei suoi limiti, non un altro – funziona, non il contrario.
Se poi si vuole sostenere che ritrovare, affiancati e disponibili, “neonazisti e amanti della barbie”, esistenzialisti da strapazzo e coltissimi neokantiani, poet-astri e fan di biagio antonacci, non fa che aumentare l’entropia generale e farci avvicinare allo stato di vuoto, è una posizione filosofica rispettabile (ma poi è così poco desiderabile il vuoto? Io il “pieno” lo temo…). Ma qui la rete non c’entra, tutta ‘sta gente c’era anche prima.

Questa “cosa” qui, mi pare, non “va” necessariamente da nessuna parte, non ha un “fine”, nemmeno un “buon fine”. Cioè: non è un’utopia, ossia la pretesa di far prevalere in qualche modo comportamenti virtuosi. Non esclude affatto il conflitto o lo scazzo. Semplicemente il conflitto si autoregola, il che non è bene né male. E non è nemmeno un’immagine idilliaca del luogo in cui tutti sono colti, buoni, gentili perché si scambiano conoscenze. Un simile sogno è utopistico nel senso più deteriore delle utopie.

Scambiarsi liberamente conoscenze – o minchiate – non rende mica più intelligenti o virtuosi. Rende più liberi. Cioè migliora “l’agio”, il terreno in cui si sviluppano le relazioni sociali. Se poi si vuole aggiungere “inutilmente liberi”, sottintendendo che la libertà può essere un sogno vuoto, è una posizione filosofica rispettabile. Ma qui i blog non c’entrano. Non sono così potenti.

E poi, pensate, secondo un tizio, vissuto lontano da qui, “il banale è il sublime”:
«Perfezione non è pregare mentre tagli le patate. Perfezione è tagliare le patate, e nel farlo non fare altro». Addirittura un altro tizio, geograficamente più vicino, ha detto: «Per il puro niente è impuro». Altri tempi.

Conversare e segnalare


È venerdì 17, di conseguenza vi tocca la sfiga di un nuovo oziosissimo post.


Su Quintostato un utile articolo di Bernardo Parrella presenta il libro di Dan Gillmor, giornalista e blogger: We the Media: Grassroots Journalism by the People, for the People.

Il libro, come cita Parrella, parte dal presupposto che “i giornalisti di base stanno smantellando il monopolio dei Big Media sull’informazione, trasformandolo da una lecture in una conversazione”.
Al di là del tono trionfalistico e pugnace forse un po’ fuori luogo, la notazione sul primato della conversazione nel “giornalismo in rete” mi pare azzeccata. Non avendo letto il libro non so dire quali conseguenze ne siano tratte dall’autore, ma mi pare comunque un punto di partenza interessante (per sapere che conseguenze ne traggo io, nel mio piccolo, potete sorbirvi i pipponi “Da 1 a 6” qui sotto, a vostro rischio e pericolo).

Credo sia giusta anche l’affermazione secondo cui il rapporto tra big media e media diffusi (blog, webzine ecc) non può sensatamente essere di conflitto, ma al massimo di sana concorrenza, e soprattutto di simbiosi e di utilizzo a partire da piani differenti. Qualsiasi blogger sano di mente sa che senza giornali e senza altre fonti istituzionali e non on-line, metà della blogpalla diventa afasica.

Comprendo poco invece – ma forse dal libro si capirà – come il supposto rischio della limitazione delle fonti e della polarizzazione delle opinioni paventato da Gillmor (“la diffusa tendenza a leggere soltanto quel che c’interessa o su cui siamo d’accordo”) possa venir imputato tout court alla rete, che invece amplia l’offerta: è banale notare che si aprono blog pro e blog contro qualsiasi cosa.
Se poi accade che un blogger legga e proponga solo certe fonti, è piuttosto probabile che lo facesse anche prima di aprire un blog, quindi cosa c’entra il blog? E poi, non è forse un suo diritto? Infine, dove sta il danno?

Invece è vero che scrivendo in rete, questo blogger coi paraocchi amplia di fatto l’offerta di opinioni differenti per i suoi potenziali lettori. Al punto che, considerato il fenomeno nel suo complesso e nella sua natura sterminata, c’è da chiedersi se non venga messo in discussione proprio il meccanismo di “conflitto delle opinioni” e la natura di ciò che definiamo opinione, che come sappiamo sono legati a un regime di scarsità informativa ed espressiva governato dalla scrittura e dalla stampa, oggi forse non smentito o distrutto, ma di certo molto allentato dalle possibilità fornite dai cosiddetti we-media.

Dunque, da una parte il blogger monodirezionato convoglierà su di sé l’attenzione di chi gli è affine, come è naturale. Ma d’altro canto potrà divenire oggetto di analisi da parte di lettori non affini e soprattutto di qualche bravo blogger che lo userà come fonte di quella “fazione”.

È importante infatti notare che il “blogger militante”, benché letto, non sarà mai considerato autorevole presso un pubblico più vasto rispetto ai suoi affini; l’autorevolezza infatti, una delle monete più pregiate della blogpalla, si ottiene con l’equilibrio tra l’esposizione delle proprie idee e il rispetto – che deriva dalla conoscenza – di quelle altrui. Il che non è una questione idealistica, ma pratica al limite dell’utilitarismo e dell’immoralità: se cito correttamente, linko e discuto senza faziosità non solo le mie fonti ma anche quelle dei miei avversari, fornisco di fatto un numero maggiore di informazioni a chi mi legge, quindi sono più utile a chi le cerca, quindi sono più letto, quindi sono più linkato.

(Per coloro il cui ego necessita di continue iniezioni di autostima, vanitosi o insicuri che siano, questa è una vera manna dal cielo. Ci si può anche atteggiare a padri nobili e vaticinare super partes, che tanto ti perdonano tutto…).

Poi c’è chi dice che l’opinare sia un’attività sovrastimata, ma questo è un altro discorso…

Trovo anche curioso che vengano accostate 1) scarsa credibilità e 2) autoreferenzialità legata alla “fama” (la presenza su technorati), come possibili rischi del “giornalismo dal basso”, senza notare che proprio la relativa notorietà – i link in ingresso – unita all’interattività del mezzo – ciò per cui qualunque lettore può correggere una fonte o un blog e qualsiasi blog può diffondere tale correzione – favoriscano, senza ovviamente renderlo perfetto, il meccanismo di controllo reciproco che regge non solo i blog, ma in fondo internet stessa in quanto struttura reticolare.
Come si dice: c’è sempre uno là fuori che ne sa più di te, il che è tra l’altro anche il presupposto logico del giornalismo, no? Il fatto che questo qualcuno abbia accesso alla tua pagina può fare la differenza: se notizia e smentita o precisazione possono essere presenti nella stessa pagina o in pagine diverse ma discorsivamente collegate tramite link, e se tale presenza può venir segnalata ovunque, questa è il linea teorica una garanzia di maggiore credibilità, forse non della singola fonte ma del tessuto in cui è inserita (è anche una conferma del primato della conversazione, ovviamente). Il fatto che questo non sempre accada o che spesso sia difficile tenere traccia delle conversazioni, è segno che siamo tra umani, quindi niente funziona mai come dovrebbe, per la miseria…


Ed è interessante notare come il controllo delle fonti in vigore nel miglior giornalismo non sia del tutto dissimile, a me pare, da questo medesimo meccanismo – tu mi dici, io verifico presso un terzo che ne può sapere di più – qui disseminato tra più soggetti, là contratto in un unico gesto reso possibile dalla professionalità del giornalista e dalle norme cui è soggetto, col limite tecnologico per la stampa di non poter accettare smentite o precisazioni in “tempo reale” provenienti da chi legge.

Moderne pastorali


Lunga passeggiata sul bordo (4 di 6)

(Dove si parla del Bronx, di autostrade e velocità, di Mussolini, del perché l’idillio è falso e di altri nodi al pettine).

“Che tipo di moto ne risulta?”


Lo sapevate che il Bronx una volta era un quartiere piacevole e interessante? Prima di diventare un paradigma, un modo di dire. “Sparatoria nel bronx del Gratosoglio”, come si titola in cronaca. Distese di edifici mezzo diroccati, dati alla fiamme da speculatori, disagio sociale e immondizia: l’immagine classica del Bronx di fine secolo.

Nel suo L’esperienza della modernità (Il Mulino), Marshall Berman, architetto e urbanista statunitense, racconta, in un dolente capitolo, come il Bronx venne devastato a partire dagli anni Cinquanta dalla costruzione della superautostrada che lo attraversa. La sua avanzata rase al suolo migliaia di edifici, sventrando il quartiere e avviandolo al suo destino di desertificazione e invivibilità. Tutto questo per assecondare il sogno dei talebani della modernizzazione.

Berman spiega, parlando del disegno delle città e della sua evoluzione, come il paradigma moderno per eccellenza, la velocità, non vada inteso in astratto, ma vada commisurato alle possibilità umane di attraversamento e di allontanamento dai luoghi chiusi, e dal passato, cioè alla possibilità stessa di libertà individuale.

La strada, il viale, il boulevard ottocentesco, dice Berman, rompe la vita chiusa e soffocante del quartiere medievale e delle sue segmentazioni di classe e di casta e permette la mescolanza e la comunicazione tra forme di vita, che caratterizza l’esplosione e la ricchezza contraddittoria della città moderna; all’altro lato l’autostrada urbana, lo svincolo, la strada-per-la-velocità è invece il manifesto di quella lacerazione della città teorizzata nel Novecento da iper-modernisti come Le Corbusier e messa in atto nel Secondo Dopoguerra. Lacerazione finalizzata a spazzare via anche gli ultimi residui di passato e a portare a compimento il moderno e la sua promessa (senza intendere che l’essenza del moderno è il suo essere incompiuto, in tensione, e ogni sua chiusura denuncia un rimosso pericoloso). “La città deve essere distrutta”, dicevano.

Attraversamento veloce, rottura dei microcircoli ridondanti e inconcludenti, direzionalità, flusso, mobilità, spostamento, tensione: sono i criteri di un nuovo idillio che trapela nella mistica violenta dell’acciaio e del cemento.

Come potete capire il tema dell’idillio non mi lascia indifferente. Berman ritiene che la modernità, nata dal tentativo di superare l’idillio pastorale classico e la sua menzogna, scoperchiando le piramidali ingiustizie e gli abusi nascosti dal suo racconto edificante, tenda sovente a produrre per paradosso nuovi idilli, altrettanto falsi come ogni idillio, ogni pastorale non può che essere. Così la mistica ipermoderna della vista panoramica, della disarticolazione del borgo e della sua vita minuta, sonnolenta e spesso illiberale (ogni villaggio produce il suo matto, cioè i suoi sistemi di ruoli rigidi) a favore delle libertà pura del movimento e della potenza, si risolve anch’essa in un idillio, una falsa pastorale, un peana di cemento che nasconde una verità di speculazione e devastazione (il Bronx contemporaneo).

Se siete mai passati dal MART di Rovereto, curioso museo d’arte abbandonato tra le valli, avrete forse ammirato, in una delle prime sale, una piccola opera. È Profilo continuo di Renato Bertelli
Da lontano la piccola scultura, nera e liscia, sembra rappresentare due volti che guardano in direzioni opposte, saldati assieme in un unico cranio levigato privo di particolari, leggermente tremolante. Poi avvicinandosi ci si accorge con stupore che i due volti si muovono con noi, seguendoci da qualsiasi lato li si guardi, e il tremolio si trasforma in una netta impressione di rotazione rapidissima: un unico volto stilizzato, in pietra nera, che ruota velocissimo sul proprio asse dando l’apparenza di guardare in ogni direzione. E comincia ad inquietare l’insolita somiglianza tra quel profilo e quello di Mussolini. Ma avvicinandosi ancora, a pochi passi, ci si accorge della trovata: non c’è niente che ruota, e non c’è alcun profilo: si tratta di un blocco nero sagomato come un vaso, le cui curve viste di lato riproducono quelle di un volto, con fronte, naso e mento.

L’impressione ricavata è decisamente mistica: la velocità pura del futurismo, il suo disprezzo per le chiusure, raggrumati in una forma chiusa che nell’immobilità dà l’impressione del movimento infinito, dentro un’aura di pura potenza, che trapela dal colore nero del monolite e dalla inquietante sagoma del duce.
Credo che il delirio iper-modernista dell’acciaio e del cemento per cui sventrarono il Bronx e mille altre città nel mondo, distruggendo non solo il provincialismo del borgo ma anche la modernità del viale, sia ben espressa da questo idillio, da questa mistica della velocità. L’essere “in molti luoghi contemporaneamente”, per moto velocissimo, che ci libera dalle catene dei ruoli tradizionali e dei pregiudizi, contiene il proprio idillio, diventando la maschera che cela violenza pura. Singolare e tipica dialettica del moderno, secondo Berman, in cui una cosa è sempre anche l’altra, sul bilico.

A questo idillio moderno egli oppone, per tutto il suo libro, una diversa linea di modernità, non opposta ma intrecciata alla precedente: essa cerca l’impossibile equilibrio tra le spinte liberatorie e desacralizzanti dei desideri collettivi e individuali che tolgono di mezzo scettri eterni e fasulle investiture divine, e le ricadute devastanti e distruttive di tali spinte, che spazzano via natura, luoghi, idee, organizzazioni sociali, intere economie. Dietro la spinta della modernità “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, come affermava Marx e come Berman ripete. Egli rivendica la possibilità di stare dentro la contraddizione, senza pensare di poterne abolire d’ufficio uno dei lati, senza proclamare impossibili “nuove umanità” e cercando, insomma, di limitarne i danni cogliendone i frutti. Se ciò sia possibile non è affar mio dirlo. E anche le ricette di Berman lasciano in definitiva a bocca asciutta.

Egli spiega come la devastazione del Bronx non fu dovuta solo all’autostrada che ne rase al suolo il cuore, ma anche al fatto che i suoi abitanti non si opposero alla sua costruzione. In definitiva, anche per chi ci abitava, il Bronx era il luogo “da cui andare via” per trovare altro, per costruire la propria vita altrove, per vivere altrove esperienze appassionanti, cercare altrove un’esistenza piena e migliore. La stessa motivazione, in fondo, accomunava le ruspe che distruggevano il Bronx e la mentalità di chi ci abitava e pure ne piangeva attonita la distruzione: il mito dell’andare via, dell’oltrepassare, del rompere i vincoli, dell’attraversare le barriere, del realizzare se stessi in un’esistenza dinamica, in evoluzione, mobile, instabile, veloce. Della modernità stessa, insomma: il tempo dell’altrove senza dove.

Solo anni dopo, con le riflessione urbanistiche degli anni Sessanta e Settanta, quella visione cominciò ad essere contestata dall’interno, in direzione di una maggiore attenzione ai ritmi e alle possibilità della vita minuta, la vita di intorno, la strada, il quartiere, e alla cura di non a distruggere d’imperio i suoi limiti, ma migliorarne la vivibilità, la fluidità, l’agio. E il lettore desume qui la via che Berman propone, senza perciò avere il dovere di aderirvi: stare nella modernità senza farne una pastorale, coscienti del suo potenziale nichilismo, ma anche della sua imprescindibile spinta alla liberazione dalla schiavitù e dal comando.

Magari non è una pastorale, ma ha molto dell’eroica. Che sia meglio è tutto da vedere.

Cosa impariamo da questa digressione? La nostra domanda chiedeva, molto limitatamente, quale tipo di moto contraddistingua lo spazio della rete, nel tempo del deperimento dell’opinione pubblica e del suo moto lineare. Ci è utile aver parlato del Bronx? Forse sì, se pensiamo a come la metafora del quartiere, o quella della città, sia stata proposta più volte parlando della rete (il “quartiere” di cui parla Eloisa, la parte abitata della rete” di cui parla Giuseppe).
E appare inaspettata la risposta “metaforica” a una seconda domanda, quasi inevitabile: come salvare la dimensione relazionale minuta, i moti di intorno e stanziali del villaggio, il suo agio e la sua calma, senza tenersi anche la dimensione liberticida di immobilità e l’odore di muffa e di stereotipi? Come salvare la direzionalità, il moto rettilineo che libera, la via di fuga che strappa i luoghi chiusi e produce nuova relazione, nuovi incroci, e fa collidere piani e sezioni prima separate da recinti (il viale moderno, meta di tutte le classi sociali e loro luogo di esplosione) senza tenersi anche la sequela di devastazione, di smottamento ambientale e umano, di tragedia?

Metaforicamente parlando, la rete è l’universo dei quartieri che ognuno si crea da sé. Strani quartieri perché gli abitanti, le case, le strade, le piazze di ognuno possono stare in qualsiasi angolo della terra e tuttavia restano presenti nello stesso non-luogo. E ogni giorno che passa, nel suo “moto sul posto”, ogni quartiere ne incrocia altri, altre case, altri abitanti, facendosi e disfacendosi ma conservando, pur nella proiezione planetaria, il suo agio, la sua familiarità, l’aria di chiacchiera minuta. La velocità infinita, il “tempo reale”, che si traduce in stanzialità. Curioso rovescio di quella immobilità vista prima, che misticheggiava la velocità.

La metafora abitativa spiega forse la rete: la rete a sua volta pare essere metafora di altro.
Che questo strano mix di antico e moderno sia un avanzamento rispetto alla insana attitudine al dramma tipico della modernità, è ancora da valutare. Che sia applicabile, o magari sia già in funzione, fuori di qui, è ugualmente dubbio. Che sia stata fornita la risposta che aspettavamo circa il “moto”, è la contestabile opinione di chi scrive.

Dov’è finita l’opinione pubblica?

Ascesa e sosta (3 di 6)


Se non vi sono poche e limitate fazioni che cercano di andare e far andare in una direzione ognuna, ma un numero indeterminato e sterminato di posizioni che vanno per la propria tangente in direzioni infinite e, soprattutto, in rapporti di tipo infinito tra loro, che tipo di moto ne risulta?


(Coraggio, siamo alla boa di mezzo, che viene doppiata per intero qui)

D’altro canto, l’opinione pubblica

Prologo (1 di 6)

Poche cose sono divertenti come l’idea che parlando (parlando: scrivendo!) di cose serie e importanti, si diventi ipso facto importanti e profondi (per contatto, si suppone). Ciò spiega la gravità, e il dito accusatore alzato. Ci si prova anche coi baffi finti, ma lì non ci casca nessuno.

(Che dire: possiamo parlare di dio o della cacca, ma probabilmente non diventiamo né l’uno né l’altra, restiamo i fessi che siamo. Quello sì, sarebbe un buon inizio. E’ l’inizio di ogni blogger che si rispetti?).

Sereni sdoppiamenti


(con riferimenti inesistenti)

Dopo un lungo periodo di dura gavetta collettiva, forse i weblog qui da noi sono entrati in una fase di “normale utilizzo” della tecnologia.
Ma non usare il “noi”, che generalizzare è sciocco.
Allora dici: almeno per
chi ci ha fatto l’abitudine ed è passato quasi indenne attraverso
innumerevoli crisi e ritorni di passione, scottature e ustioni, dubbi amletici
o amnesici, slanci incoscienti, pause, nausee e riavvii, per costoro l’avere
un weblog, una proprio “presenza semipubblica” è diventato un po’
come usare il telefonino. C’è, è scontato, lo usi e stop. O
magari non lo usi perché te lo dimentichi o non ti serve. O decidi
di non usarlo più, per i tuoi motivi, ma senza enfasi. O ti compri
quello nuovo, quello col T9 che frigge anche le uova, visto che niente è
più immaginario di un bisogno naturale.

Non che questa mutata condizione debba indicare che questo uso, questo abito
di tecnologia non abbia cambiato, ristrutturato l’edificio della percezione
di sé, del rapporto con l’immagine altrui, e tante altre cose interne
all’uso relazionale della scrittura che scivola su questo inedito green di
connettività distribuita e acefala. O, cosa più verificabile,
che non abbia cambiato radicalmente e arricchito enormemente l‘uso personale
della rete, almeno di chi ha un weblog. Anzi, li ha cambiati assai. Ma, come
diceva qualcuno, forse il mutamento è tanto più percepibile
quanto più non è consumato, quando lo guardi da fuori o almeno
con un piede fuori. Quando invece è operativo, come ogni tecnologia
che incida nella carne personale e collettiva, dalla scrittura alfabetica
alla strada asfaltata, agli occhiali da vista, diventa rapidamente invisibile.
La visibilità non è visibile, si dice, solo le cose visibili
lo sono.

Forse la fase di “scuoiamento”
prodotto su ognuno singolarmente e su tutti relazionalmente è, si
spera, in via di superamento, come una ferita che si rimargina o un osso
cui sia stata applicata una dolorosa trazione che ora, dopo un lungo periodo,
viene smessa e l’osso rimane lì dove l’hai spostato. E se nei primi
giorni i movimenti sono prudenti e difficoltosi, e temi ancora le fitte e
le lame di gesti imprudenti che ti colpivano fino a poco fa, lentamente e
inavvertitamente impari a fare quasi le stesse cose di prima e in
più ne fai di altre nuove. Quali, ancora, mica lo sai. Il circolo
magico tra autore, attore e personaggio della tua pagina ancora non si è
sciolto. Continui a ritenere utile che il mostro di bassezza che qui scrive
probabilmente per vanità continui a farlo e così, forse, si
sciolga come la citrosodina nell’acqua da rubinetto degli sguardi reciproci
e plurali. Ma non sai perché lo pensi. Perché il banale è il sublime, come dice il santone indiano di turno, quello che predica nella corsia dei surgelati? Ti senti liquido o bollicina?

Nel frattempo hai imparato
a non dare troppa importanza alla dimensione individuale dell’opinione idiosincratica
e alle sue bizzarre aporie televisive, che qui non hanno corso e significato,
pur nella loro emersione eruttiva e fisiologica; stai perdendo la paranoia
del controllo di ciò che accade o puoi far accadere; fai spallucce
– o ci provi – ai piedini sbattuti e i ditini sollevati; l’hai smessa con
la frenesia di dire sempre la tua, manco fosse rilevante, o importante ciò
che è “tuo” o “mio” in un posto come questo; continui a essere grato
a chi ti regala un passaggio sull’ottovolante dell’informazione – che non
è per forza la notizia – e dello sguardo inedito; usi e muovi il tuo
corpo scritto con maggiore rispetto per il silenzio e l’immobilità,
da cui a volte e per errore nascono parole e gesti sensati di per sé,
e anche “malgrado te”.

E se poi tu fossi me,
ne sarei lieto. Non dovrei stare qui a fare imitazioni (liceali, noblesse
oblige) di quello che hai già pomposamente stradetto e pontificato.