il capostipite cerimonioso

«

La natura inanimata è del tutto cerimoniosa e rituale. Vedi le nubi? Pioverà. Anche gli animali, anche gli animali sono assai cerimoniosi e rituali. Guarda l’orrendo piccione come immancabilmente ruota su se stesso, danza, gonfia le penne di fronte alla femmina ritrosa. E la lepre isterica si acquatta quando la volpe trotta lontana, ma se giunge al bordo del perimetro invisibile oltre il quale la fuga è troppo ardita, si alza dritta, immobile e lancia la sua sfida. È un calcolo impossibile di velocità, traiettorie, asperità del terreno, eppure soddisfa entrambe, così che ognuna riprende la sua strada desistendo dallo scatto. Ma puoi star certo che, se è lepre, in quell’istante esatto si alzerà. Un’astuzia infallibile, o piuttosto un colare di gocce dell’umore giusto giù nel nervo dorsale. Oppure, una cerimonia inconsapevole recitata da automi, il solo autore: il palcoscenico.

Gli uomini antichi, infine (e all’inizio), erano così cerimoniosi e amanti dei rituali da inventarseli dal nulla, la cerimoniosità e i rituali, inventando così anche se stessi. I primi tra loro che trovarono opportuno dare un nome alla propria stirpe lo fecero con suoni perduti per sempre, ma il cui senso, senza dubbio, era: "coloro che di ogni gesto fanno cerimonia". E intesero in modo così serio e impegnativo questo curioso e sorgivo raddoppio di mondo, codesti millenari fondatori, da immaginarne l’origine a ritroso, nell’antico passato degli animali e della natura, di cui impararono a simulare l’aspetto e i gesti, ornandosi di penne il capo e di colori il corpo e inscenandone le potenze e le carni, la vita, la passione, la morte che, da quel bordo sacro di palcoscenico, ora vedevano scorrere impetuose. Imparando a voltarsi indietro, sporgendosi dal bordo, crearono il circolo qui evocato, che si potrebbe descrivere infine come una differenza costruita sulla nostalgia di un’identità che non c’è mai stata. Crearono, cioè, colui che si volta e ciò che guarda, e la distanza che tra loro ogni volta nuovamente si apre.

Fu dall’antica radice della cerimoniosità e dei rituali che lentamente si separarono, procedendo in diverse direzioni, tre distinti ma imparentati rami: la religione, il teatro, il potere temporale. E da questi rami fiorì, in fronde ricche e intricate, quel che ne consegue: la poesia e il canto, le saghe e i tribunali, i preti e la delizia delle sublimi torture, i filosofi, quelli torturanti e quelli torturati, da lì vennero la regina e il principe consorte con la loro corte di giullari, dame di compagnia e gentiluomini forbiti e spiritosi, vennero i letterati di corte e quelli da giardino e ancora gli architetti, gli agrimensori, gli avventurieri, i cardinali, le spie, i magnaccia e le puttane, i lacché e i loro padroni, i servi, i ribelli e infine cani, maiali, topi, scarafaggi e popolo minuto ossia, a farla breve, tutto quanto. Venne quel che si può vedere ruotando lo sguardo in ogni direzione, ogni cosa costruita di materiale aereo, apparente, in special modo quel che è giudicato più resistente e alieno: di invisibili rapporti, di diagrammi, spinte, controspinte e passi di danza.

Così, facendo cerimonia di sé o meglio della propria millantata origine, facendosi piega del proprio essere piega e poiché ogni rituale è un ritornare dove non si è mai stati, la cerimoniosità procedette per moltiplicazione, una cellula dall’altra colonizzando tutto quanto. E più procedeva, più impallidiva, si scioglieva, svaporava e infine regnava indefinita, come una nube così diffusa da risultare impercettibile nell’azzurro del cielo, ogni rituale succedendo all’altro, ogni abolizione o estinzione per inedia o per fucilazione mettendo capo a un rituale più invisibile, rarefatto e segretamente espanso. Sbaglierebbe allora chi vedesse nella cerimoniosità e nei rituali l’origine della differenza umana. Ma sarebbe in errore chi li intendesse come barbarie da cui fuggire, la gabbia in cui sempre soffoca lo spirito dei tempi. Perché se è vero che sono la fonte dell’incivilimento e in essi ci distinguiamo dalla bestia cui pure li attribuiamo, è vero insieme che l’incivilimento coincide con la battaglia costante e progressiva contro gli antichi rituali, ed è vero infine che tale battaglia coincide con la sempre più vasta e sottile diffusione dei rituali nuovi. Vista da qui la differenza umana, se mai si può afferrarne la figura, è solo un paradosso, una fragile curva piegata intorno a un asse che ad ogni giro si scosta un poco oltre, il moto di un’elica, un viticcio attorcigliato, il ritornare costante sui propri passi aprendo strade mai prima visitate.
»

Giulio Bartolomeo Argano, La leggenda del capostipite, Rowohlt, Stuttgart, 2012, pagg. 2-3.

se non puoi zittirli, uccidili

«(…)

Appare logico, dopo un’iniziale impressione di saturazione e di rumor bianco, che all’aumento degli autori-attori aumenti la probabilità che tra questi ce ne siano alcuni che incontrano il gusto del singolo (e il gusto di ognuno singolarmente preso). Ritenere che diventi più difficile trovarli è una distorsione operata dalla sopravvivenza di un modello di medium ad accesso scarso, funzionante attraverso il principio di massima visibilità potenziale e la tendenziale reductio ad unum dell’audience, mentre questo funziona col principio della proliferazione interminata e in-descrivibile di isole di affinità. Che per il singolo sia impossibile, qui, conoscere tutto o anche un’approssimazione vaga al tutto è nella natura dello strumento, dato che il principio che vige è l’opposto: per chiunque è possibile trovare qualche forma di udienza e di ascolto affine, solo potenzialmente raggiungibile da tutti. C’è un elemento di oblio inaggirabile in questo archivio di memoria, in cui perdere quasi tutto e perdersi in prima persona è il presupposto per trovare qualcosa.

(…)

Si sta cioè passando da un sistema di comunicazione ad accesso limitato e forte validazione (che non sempre coincide con verifica) a un sistema misto di info-relazione, con accesso molto più aperto e livelli di validazioni assai variabili. Dove non c’è alcuna forma di verifica e la validazione è improvvisata, è tautologico che vi sia maggiore possibilità di errore, come accade in qualsiasi conversazione sulla pubblica via dove ognuno dica quello che gli pare e solo a volte qualcuno tra i presenti abbia la competenza per correggerlo. Nel sistema della scrittura in rete questa possibilità di correzione aumenta un po’ perché la presenza è asincrona e vi è un minor rischio nell’esercitare la critica, ma non aumenta poi di molto, almeno finché si pensa – in modo un po’ astratto – tale sistema come separato dal resto.

Ci si sbaglia però pensando che l’interesse puramente informativo di queste scritture sia quello di fonti, o che l’informazione coincida con un set prestabilito di argomenti (quelli "seri");  al contrario l’utilità relativa di queste pagine emerge proprio nei casi in cui si adoperano a costruire e mettere a disposizione dei percorsi – anche del tutto consegnati all’interesse individuale – attingendo con giudizio e competenza almeno amatoriale allo sterminato campo delle fonti più o meno validate, di cui fanno una personale selezione presentandole a un pubblico potenziale di non addetti desiderosi di saperne di più ma impossibilitati, com’è ovvio, a occuparsi di tutto. Semmai il punto è se esistano sistemi di selezione collettiva di tali percorsi tra i più e i meno meritevoli e laddove esistano se siano affidabili (il ricorso ad esempio allo strumento della rozza classifica di popolarità appare tra i più dubbi).

(…)

Come si sa, delle conversazioni è interessante proprio l’aspetto non verificato, che solo permette di avere un accesso diretto a forme di sentire più o meno diffuse: l’elemento di interesse preletterario  della scrittura in rete come spaccato e racconto della "giornata sociale" di una moltitudine di sguardi, più volte descritto, nasce da qui. Per questo inoltre la scrittura in rete è emersa come strumento dotato di una sua forza originale proprio in quei settori – tipicamente "politici" in senso antropologico – che riguardano la formazione dell’opinione e il "sensus", in parte contribuendo assieme ad altri fattori al deperimento del concetto stesso di opinione pubblica (tale concetto è infatti inscindibile da una condizione di scarsità di accesso  e tendenziale costruzione di blocchi massivi di attenzione, del tutto spiazzati dal fenomeno della proliferazione tribale di "intorni di affinità" o code lunghe).

(…)

Il fatto che in un sistema misto si assista a una maggiore aderenza tra parlante e argomento è alla base, da un punto puramente descrittivo, da una parte della possibilità stessa di costruire intrecci di affinità, dall’altra del possibile emergere, dato il contesto ampiamente orale-gestuale, e in casi fortunati, delle singolarità in quanto monstruum idiosincratico, con possibili effetti autoriflessivi di limitazione dell’io, riconoscimento dell’altro-in-sé e inglobamento delle tendenze narcisiste in un quadro più adulto (l’emergere ricorrente di domande autoreferenziali circa "ciò che facciamo qui" ne è testimonianza laterale).

(…)

Va detto che la trasformazione anche profonda di un sistema è difficile da valutare con un semplice giudizio di valore (meglio-peggio), sia perché quest’ultimo è soggettivo, sia perché la situazione apre possibilità nuove ma assieme anche rischi inediti (in qualche caso anche terribili). Dire è bene o è male è quasi inevitabile, ma farlo una volta per tutte è gratuito.

È infatti difficile, a titolo di esempio, pensare come piacevole un luogo dove le semplici conversazioni siano sottoposte a validazione oppure ognuno possa aprir bocca solo per dire cose verificate (peraltro si pone il problema di chi o cosa e in quali campi e come si stabilisce la verità: non esistono esempi se non limitatissimi e settoriali di autorità scientifiche preposte al controllo dei media, mentre è costume che tale controllo sia sottoposto ad ampi vincoli di tipo per lo più socio-politico).

E d’altro canto, se il nuovo sistema può essere descritto come più libero, va osservato che nessuna libertà va intesa in senso assoluto ma è sempre relativa a un campo: il fatto che tutti possano scrivere e farsi leggere più facilmente rispetto a una situazione di disciplinamento rigido, può fare tranquillamente capo a un campo di controllo che incita alla presa di parola come elemento di inclusione in un ordine discorsivo già completamente pregiudicato nei suoi termini e nelle sue forme (il che sposta la modalità del comando illiberale ma non lo rompe): il topo in gabbia che corre per tutto il giorno nella ruota si muove molto di più della pigra tartaruga nella gabbia a fianco, ma non è per questo più libero.»

Sir Julius Bartholomy Windlass, brani tratti da "Tribe and speech", Oxford Press, 2012, pag 1743-1755

il titolo non conta

Davide ha scritto un romanzo breve e l’ha mandato al concorso bandito da Scrittomisto. L’ho letto e mi pare – senza offesa per i presenti – che si distacchi dal genere di materiali che in genere Scrittomisto pubblica o al limite pubblicherà (che sono godibili, ma di norma difficilmente definibili come "opere" compatte e pensate, dato che risentono dell’origine bloggesca, malgrado alcuni tentativi di acrobazia encomiabili. Questa parte del post è un’excusatio non petita). Il suo è proprio un romanzo, e a mio parere è anche buono. Del resto non sono un critico, quindi per avere un parere autorevole ho fatto una ricerca nella biblioteca delle opere del futuro e ho trovato, manco a dirlo, una recensione dell’ineffabile e noto critico G. B. Argano. Ve ne riporto uno stralcio, declinando la responsabilità (per leggere la prosa di Argano ci vuole il contachilometri e una mappa 1:1 della Lituania, ammesso che sappia quello che scrive..).

«
(…) Seducente in particolare la gestione del tempo del racconto – l’intreccio rende una storia appena accennata e del tutto prosaica, ordinaria, come per celare eventuali nodi emotivi e drammatici sotto traccia – gestito in gran parte da una curiosa slogatura e riarticolazione dei tempi e dal loro moto pendolare, un andamento che a volte pare a spirale, a curva che persino ritorna sugli stessi fatti, a volte diventa frattale e divagante per cui da fatto nasce fatto apparentemente senza un piano (e dare l’apparenza dell’assenza è la cosa più difficile ché invece il piano c’è, e pare solido, e infatti da una divagazione ci ritroviamo ad anello deposti su un’azione e un tempo che avevamo già visti e che ci vengono ripetuti con piccole variazioni, apparenti avanzamenti, quasi un’insistenza dettata da incertezza o da leggero franare o tremolare avanti-indietro alzheimeriano della competenza del linguaggio); in questo della fabula si rispecchia attentamente il livello dello stile, del linguaggio appunto, stretto tra un’anonimità colloquiale ricostruita, con quale concessione di troppo all’argot, e un perplesso "noi" narrante che mentre si allarga in anse di racconto meticoloso e apparentente gratuito, quasi assurdo (perché a Lapo accade questo e non quest’altro? Perché ora ci viene raccontato quel ricordo e non un altro? Sia Lapo che il noi narrante non sembrano saperlo bene, come se un fatto in fondo equivalesse a un altro – di nuovo un celare il piano) mentre fa quello, si fa via via più incerto – verso la metà del racconto il picco – quasi sbaglia e si corregge, non sa bene, si ripete, cambia parola non perché sia più esatta ma come per provare l’incastro di due pezzi che si sa comunque impossibile, il che non crea enfasi ma un leggero stordimento, quasi un principio di afasia mascherata nel contrario, nel bavardage, nell’automatismo rotto.

Di più, eminenti lettori, qui non possiamo dire: ci giunse dell’opera una copia smozzicata dal figlio infante del nostro vicino di casa che ne versò rigurgito sul finale. Anche il compito del critico, pur se porta onori, non manca di assaporare l’amaro calice dalle fatiche e dalle sorti incerte.
»

tratto da: G.B. Argano, Antichi narratori di domani, Calzanti Ed., Pianosa, 2007, pag. 3647

professori coraggiosi

«Nel convegno svoltosi a Cerisy sulla paraletteratura, termine che veniva per la maggior parte a designare il romanzo popolare e i suoi derivati, è stata data della paraletteratura una definizione atta a discriminarla nei confronti della Letteratura con la "L" maiuscola: "ciò che è paraletterario contiene a un dipresso tutti gli elementi e costituirebbero la letteratura, salvo l’inquietudine rispetto alla propria significazione, salvo la messa in causa del proprio linguaggio"».

U. Eco, Superuomo di massa, Bompiani, 1976, pag. 73

«A parte il tono ironico del qui impareggiabile Eco che cita assumendo la definizione e insieme la sfotte; questa messa in causa del proprio linguaggio, o coscienza propria del narratore dell’ambiente letterario e extraletterario in cui opera e del rapporto tra i suoi testi e quegli ambienti (che punta all’infinito a colmare l’incoscienza strutturale dello sguardo, cioè il fatto che nessuno può vedere da fuori la propria collocazione nel mondo), è ciò che ho fin qui chiamato "il linguaggio al quadrato proprio dell’operazione letteraria", ovvero "lingua che parla di sé parlando d’altro": è un’autoreferenzialità del linguaggio – mi si perdoni l’obbrobrio –  sganciato a metà dai suoi obblighi referenziali, che non si mostra mai nel testo che noi leggiamo (il quale per l’appunto "parla d’altro", salvi rarissimi casi di auto-tematizzazione raffinata ed efficiente assieme, pensiamo al Borges delle Ficciones, non certo alla sua tardo-calviniana versione kitch), ma che tuttavia ne pervade tutti gli spazi, i vuoti o assenze, i fratti bianchi tra lettera e lettera, parola e parola, frase e frase, paragrafo e paragrafo, capitolo e capitolo nel cadere della volta mezzo vuota a fronte della numerazione in bianca, e continueremmo se l’enumeratio non giungesse al fine dello stucco, essendo tale moltiplicazione geometrica di sé, tale "quadrato" la misura dell’angolo di mira in cui tutta la macchina testuale è rivolta ed esplode i suoi colpi, se è capace di farli esplodere, e assieme ciò grazie a cui essa può essere infinitamente guardata da fuori poiché restituisce, come un guanto rivoltato, il contenuto di quella forma, di quella collocazione, ma altrettanto sodo, solido, infinitamente sfuggente.
Quel che a Cerisy definivano cerimoniosamente paraletteratura non però sfugge del tutto a questa condizione: solo qui è all’opera un plus che deriva dalla sua natura industriale e dal legame stretto col mercato – non che l’opera preindustriale sia priva di legami e debiti esterni, anzi ne è pervasa (la storia letteraria, le correnti, le poetiche del tempo, e perfino la condizione sociale e le ambizioni individuali dell’autore, che possono ben essere considerati eventi "esterni"), ma sono filtrati da un’ottica singolare e idiosincratica, eventualità che non avviene nella mediazione mercantile e nel funzionamento del gusto come macchina desiderante o inibente. Così che decadono molti degli elementi autoriali (se intendiamo l’autore all’individuale), l’uso della tradizione e dei suoi luoghi è estremamente più scoperto, l’apporto inventivo più limitato e spesso di tipo combinatorio; ma la coscienza di sé del linguaggio e la sua capacità di far rilucere l’ideologia e la collocazione non è diminuita: solo non avviene più per trasparenza della singola opera, che perde importanza, ma per accumulo di reperti, di casi, di versioni, per selezione al modo della ripetizione dei format. A motivo di ciò cala anche l’apparentemente misteriosa capacità del reperto di "riferire" all’infinito, cioè di parlare dicendo cose appena diverse a genti mutate nel corso del tempo, il suo non esser trascrivibile in riassunto o formula, anche se di converso aumenta il suo mero valore documentario, la sua stessità obitoriale».

G.B. Argano, Specchio riflesso, Precipita nell’oblio, Carate Brianza, 2003, pag. 1793.

tags: Umberto Eco, letteratura di massa

Communication is boring



Otto poesie di G. Newbee tradotte da G. B. Argano con un’acuta prefazione e note ai testi dello stesso Argano.

Versione originale courtesy © B. Sergey & P. Larry



PREFAZIONE

Tre validi motivi per non farsi vedere in giro

di G. B. Argano

Come forse sanno, rendere pubbliche le proprie prove diciamo così poetiche è sempre una decisione imbarazzante cui l’autore giunge dopo ripensamenti lunghi e svariati e tortuosi tentennamenti, e questo per via di un grumo inesploso e duro di muti motivi: intanto la poesia è di natura simile alle vergogne di cui cantavano gli antichi così che mostrarla rivela una certa malcelata e spesso non riconciliata tendenza all’esibizionismo, quel languore domenicale e semideserto di giardinetti e impermeabile trattenuto a stento: fecondità del verbo e oscenità della lingua, chiasma misterico e vile di nominazione e seme.
Ma poi, va detto piatto, perché pur essendo il valore letterario un punto di indimostrabilità, il disvalore salta agli occhi!


Infine, niente partecipa di un insano desiderio di Letterario Alto e insieme di desueto come la lirica – e le due tensioni in cozzo danno luogo alla somma zero del grottesco di cui si è detto sopra, per via dell’imitazione dell’inessenziale e dei modi occasionali scambiati per sostanza, per abundantiam dell’irrilevante creduto "bello", dei formali birignao, dell’affettazione nobiliare da declamatore in mutande. La lirica, territorio da cui occorrerebbe astenersi per decreto legge!




Molti, quasi tutti quelli saggi, decidono infatti di aggirare il pericolo mortale, che costituisce da mezzo secolo almeno l’atto di morte pubblica della poesia, percorrendo la strada dell’intertesto e il tono parodico; qualcuno cerca di trarsi in salvo per via del programmatico che sia storico, epico, o moral-sardonico o anche di quella satira che non si dà a vedere dietro la maschera dei corpi disfatti o della turpitudine deliberata e fredda (e un po’ blasé, per non dire telefonata), o dell’apocalittico, o del demonico. Pochi ormai ne fanno una questione di significante (magari splendidamente). Tutti quelli che non distinguono saggezza da stupidità non si pongono nemmeno il problema e cedono all’istinto, al sentimento o all’ideologico atteggiamento che più loro conviene.



Ma veniamo allora alla strada percorsa da G. Newbee, poeta inglese degli anni ’70 poco noto al pubblico italiano, di cui si commentano oggi queste riscoperte tardive e risapute: una plaquette di otto poesie intitolata La comunicazione è una palla. Ne possiamo gustare una traduzione a fronte a nostra cura, per la quale ci dichiariamo largamente debitori ai curatori inglesi delle opere del nostro, B. Sergey e P. Larry e che vuole rimediare all’onta della pessima versione italiana degli stessi anni ’70 con cui questi testi furono già resi noti, colma di suo di astruserie, trombonismi formali e arcaismi del gusto di allora che non vogliamo qui nemmeno approfondire** ma che ne hanno depotenziato terribilmente il messaggio politico, invece così dirompente e chiaro.

La strada di Newbee (e intendiamo riferirci qui al solo livello formale, ché per i contenuti rimandiamo alle note), non è quella della carne né quella del pesce, non vi è ascesi né discesa, imitatio christi o diaboli, se non nel senso di quello che pare un minuto delirio del limite, dell’approssimazione meticolosa al modello desueto, della maniera, in cui l’originale imita la copia o addirittura copia se stesso. Con l’occhio del poi si può dire che la scelta è caduta su un percorso che non poteva che fallire, così che ci si risparmi gli sforzi inutili o di parare i colpi e nessuno si accolli il tracollo chiaro. Si dà il caso di trattenere un tono sapendo che la voce è senza fiato, fermarsi sull’orlo del precipizio quando è già pronto il precipitato, suonare l’aida col piffero sbagliato.



Dunque se nelle lettere occorre rifuggire la moderazione l’eccezione è che se ne faccia programma, così che diventi una moderazione sfrenata; poiché il suo significato è sempre e per fortuna al di là di sé. (gba)



** (Si tratta della versione dell’Arcuri, [pdf] studioso di fonti letterarie inglesi con cui l’Argano è in pluridecennale, costante e astiosa polemica)

*** 

This morning I have dreamed a dog

bit a pigeon, for badness

I do not suppose, for distraction

that bang of wings around the head

had annoyed it.  That one, sealed with lead

on the pavement ran around, then churned the phantom limb

between the grass of a ferocious green with the spout

tore some bite, bones

the impassible look and a pain

that you supposed from the gestures.

The plumed wing lay all open, near one.



Passing this morning the rose

of it fishes in flower was an error

under the scrap iron neglectful.
Ma stamattina che ho sognato? un cane

digitale! un piccione! di cattiveria

non dietrologizzo, ma di-strazione

se lo spara-ali a giro capa

l’avesse affastellato. Quand’uno sia sigillato con cavo

sul pavimentato e corre attorno, a seguire sbatte il membro

fantasma sull’erba ferace e già verde il cornuto

ne strappa una fetta, l’ossa

lo stile compassato e una pena

dacché i gestori vi hanno dietro-infilato. 

Spiumata e laica tutt’aperta l’ala, uno sta vicino. 



Passare stamattina la rosa

e i pesci in fiore, ah fu l’errore

sotto il ferro di scarto neghittoso.

(Probabile allusione politica all’attuale matrimonio radicali/socialisti, fitta di metafore oscure tratte dal regno animale e vegetale e di chiari giudizi di marca "sessuale". Newbee non pare contrario a questo matrimonio, ma alla fine adombra un enigmatico "errore". Quale? Il poeta non ha voluto dircelo. Come potesse prevedere tutto ciò negli anni ’70 è un mistero. gba)



***

It depends on the disposition of the glasses

in the handle of the shelf

from the sequence of pucked backs

of the yellows abandons to you in row

from the reliquary crystalline that conserve

the immaculate emains of the plates overlapped

in the penumbra, the zealous china

of the cups from the



and you could continue with the speaking

and dumb objects, the antisocial solitary things,

than beam in the abandonment and the hands

to use that they have decided to them

in beautiful order, hands

to you vanished of which piece of real estate

it remains the ghost of this interrupted work
Mah, dipende: la disposizione dei bicchieri

nella maniglia della mensola?

Dalla sequenza delle parti posteriori sgualcite

degli abbandoni di colori gialli nella fila,

o dalla teca cristallina che conserva le salme

immaculate delle piastre coincise

nella penumbra (la cina

zelota e vincente), dalla



e potreste continuare col parlare e gli oggetti

muti! le cose antisociali solitarie

irraggiano nell’abbandono e le mani

da usare hanno deciso

a loro modo l’Ordine Bello,

mani che a voi tacciono

di quale parte del bene immobile

rimanga il fantasma, questo lavoro interrot

(Astuto gioco verbale in stile "giallo" classico: chi ha deciso che un altro Ordine Mondiale non è possibile? Dove si nasconde il colpevole? Chi brinda di nascosto? La facciata di progresso nasconde i morti e i feriti che provoca, le rivolte di chi viene solo usato come un oggetto non sembrano essersi fermate, interrotte sul più bello. E intanto la Cina avanza… gba)



***


You adhere to the facts

the ghosts exit from your head

strain from the stoned look

go in the world, children alone

dispersed, undercover

unaware of your head-remote control



you adhere yourself to the facts

crosses the look from part to part

you bundle up yourself

within those patch emissaries

of a pacified version, broken

innocent in its scream-toy



you adhere yourself to the facts

slips, landslide, remove you from the hill

of the phrases coiled

crosses them to been astounded driven in head,

true turned upside down

as a latex-tank



you adhere yourself to the facts

but the infinite facts go up to spiral

iridescent projections

of you that they are exposed

insapute, created

given pain and dispersed in the empty-world



you adhere yourself to the facts

you withhold the open matter a torn,

bloomed moment and crosses

the earth for true

the prismatic object of your unconfined comparison
Vi aderite ai fatti

ch’i fantasmi rimuovono dal vostro sforzato capo

dallo sguardo di impietrito

vanno nel mondo, bambini assoli

dispersi, inconfessati

ignari del vostro controllo testa-a distanza



vi aderite alle traversie di fatti

lo sguardo dalla parte alla parte

impacchettate su lei l’interno

di quell’emissari di sudari d’una versione edulcorata,

smembrata non colpevole

nel relativo urla-giocattolo



vi aderite agli slittamenti di fatti,

denudati, la frana ti schioda dalla collina

delle frasi arrotolate

le attraversate allo sbalordito

guidato in testa,

inverato girato inverso a un lattice-serbatoio



voi si aderisce ai fatti

ma i fatti infiniti vanno fino alle proiezioni a spirale

di iridescenti voi che sono  

insapute esposte,

dato dolore e generato

e disperso nel vuoto-mondo



vi aderite ai fatti che ritenete

la materia aperta, strappato al momento

ed alle traversie fiorite la terra

per allineare l’oggetto del trascolorante vostro confronto sconfinato

(Come commentare un simile visionario esempio di libere associazioni senza alcun significato, quasi uno stream of consciousness ipermoderno che rivela in modo così lacerante l’insensato destino di incomunicabilità dell’uomo moderno? Il critico deve farsi da parte, umilmente… gba)



***


Your answer falls from the mouth as frosted legs

of bug; inject in the vein

and the meticulous net of the channels it transports

it until the border, to the tip of the fingers raised.

Here the surprised traveller greets it,

fair that takes a walk behind the slabs of the body.
La vostra risposta cade dalla bocca come piedini

glassati dell’insetto; iniettate in vena

e la Rete meticolosa multicanale la trasporta

fino al bordo, alla punta delle barrette alzate. 

Qui il viaggiatore sorpreso vi accoglie,

fa una passeggiata in fiera dietro le lastre del corpo.

(Il poeta impegnato non teme le nuove tecnologie. Scrittori meno accorti eticamente si fanno cascare la mascella davanti alle infinite vie della rete telematica e dei corpi virtuali, ma occorre saper cavalcare la tigre: è solo un luna park. Incredibile come Newbee potesse prevedere l’avvento di internet, molti anni prima della sua invenzione. gba)



***


From a distance of years

breaths still all my air

asthmatic me leave, without breath



the chains is between the stomach

and the sternum, of eternal matter

like one promised previous.



The memory fructifies and it is expanded;

every memory for bloom

fills up all the screen



but when the two halves are separated

become a glare, driven in a methodical

one that cannot put together.



The present tremble on the surface

of without shape, slips around to the grain

like mother-of-pearl mucus coils:



in means to the nothing self-moving

a fish wriggles and hole of a jump

the metal, then returns in the dark.
Dalla distanza degli aliti di anni

ancora tutta l’mia aria

asmatica me lasci, senza alito



le catene è fra lo stomaco

et lo sterno, della materia eterna

come una precedente promessa. 



La memoria fructifica ed è espansa; 

ogni memoria per la gemmazione

riempie in sé tutto lo schermo



ma quando le due metà sono separate

si transforma in una luce vivida, guidata

et metodica che non può ricomporsi. 



Il tremolo attuale va sulla superficie

senza di figura, slittamenti intorno al grano

come il muco arrotola la perla: 



nel mezzo al niente auto-spostato

un pesce si contorce e fora di un salto

il metallo, quindi rinvia nel buio.

(Quasi una profetica guida per i rivoluzionari di domani scritta con un linguaggio arcaicizzante, come fosse un messaggio cifrato: il peso dell’oppressione che disgrega viene da lontano, ma unire ciò che è separato condurrà a un tesoro inestimabile, lo si può già vedere nelle cose. Nessuna gabbia d’acciaio vi fermerà, dice il poeta: essa protegge il nulla. gba)



***

They believe to say the truth

the armed ghost that fills up

the reliquiary of the skull, and while the grain

the error on the language rolls

is bundled up in sticky mucus coils

and of sputum in the opal white man, extended,

and on slowly inexorable the whitish

plain it reveals its pearly slag

essence very made


Credono per dire la verità,

Armata fantasma che riempie

le teste e ne fa tombe mentre il grano

sbagliato sui rulli di lingua

è impacchettato, in su nel muco di vischiose

si arrotola e di espettorato nell’uomo bianco opalino, esteso

lentamente e su! inesorabile la pianura lattiginosa rivela

la relativa essenza, perla

di scorie strafatte

(Religione e denaro comandano il mondo, riducendolo a distesa di tombe e spazzatura. Ma sono solo zombi. Un lamento dolente, con accenti di disgusto quasi inconsolabili. gba)



***


The sufficient indication



The Andean face remains immovable

the parting is one hurt without motive.

The two girls animated from feelings

in fight. The mothers

the boys. You close the eyes.

Noise white man.

Only the things that

each one are singularly taken.

Your launch, projected body

silent.

Decided renunciation.
L’indicazione sufficiente



La faccia andina rimane immobile

la scriminatura è un ferito senza motivo. 

Le due ragazze animate dalle sensibilità

nella lotta.  Le madri

i ragazzi.  Chiudete gli occhi. 

Uomo bianco rumoreggia. 

Soltanto le cose

ognuna singolarmente va presa.

Il vostro lancio, corpo proiettato

silenzioso. 

Rinuncia decisa.

(Nel fuoco della lotta, occorre rifarsi alla saggezza dei popoli antichi distrutti dalla follia genocida dell’uomo bianco. Uomini e donne, scagliate la vostra bomba e riprendetevi tutto: il nemico cederà di schianto. Un grido di battaglia in un asciutto stile "giap" che bilancia il pessimismo del testo precedente. gba)



***


Night to the Hide Park Corner



Is the things most important

that they will go lost, in my small

unchaste the left orchid to die

of starvation on the balcony

the rashnesses from more in average

remained unsolved, exacerbate

ah the socks unpaired, pied

to follow on hailstorms

the perpetual little rain of thoughts

never thinks to you but that it would have

intentional also subleases to you, the moody

firmnesses, the indecisioni taken to majority

the hairy grub that does not satiate

the proud one maiden

(uh if the beautiful stay elsewhere

my language is died)

if us tasks that bleakness

of we trace like pot plant

under my shower does not remain.

Is not more fashionable the tail titles them?
La notte all’angolo del parco del pellame



È le cose più importanti

che andranno persi, nel mio piccolo

l’orchidea impura di sinistra al dado

di inedia sul balcone

chè gli avventati da più nella media

sono rimasto non risolti, esacerbano

ah i calzini spaiati, pezzati

per seguire sulla grandinata

la pioggia piccola perpetua dei pensieri

mai pensate a voi mai che abbia avuta l’intenzione

inoltre non subaffitta a voi,

gli stabili mutevoli, l’indecisione presa alla maggioranza

il cibo peloso che non nutre

quello fiero ma nubile

(uh se il soggiorno è bello altrove

la mia lingua è morto)

se le nostre mansioni
che segue come la pianta


sotto il mio acquazzone non rimane. 

Non è più alla moda la coda intitolata?

(Uno dei testi più enigmatici del poeta albionico, su cui molti commentatori hanno avanzato congetture. Probabilmente viene descritto il mondo delle eterne lotte intestine nella sinistra, tanto bizantine quanto incomprensibili e frustranti per l’osservatore. Ma, sembra dire alla fine Newbee, sarebbe ora di finirla. gba).

Argano’s adventures


Il critico B. G. Argano (del cui cognome non è chiara la pronuncia: argàno, àrgano o arganò?) compie frequenti viaggi in ogni angolo del pianeta per diffondere perle della sua smisurata cultura artistica. Ecco un sintetico reportage fotografico sulle sue ultime avventure

1
2
3
4

(un particolare ringraziamento a Emma per le foto).

KONZEPTUAL – Detto Marco Pannella

«

Metabolismo come arte: è questo il titolo della retrospettiva permanente che lo Spazio Trans-N-azionale, nella centralissima via Capezzone a Roma, dedica alla vita e all’opera di Giacinto Detto Marco Pannella. E titolo non poteva essere più appropriato per questo artista nativo di Teramo, longevo, misconosciuto e controverso, la cui opera complessa e in molti sensi debordante viene finalmente riscoperta e resa fruibile al grande pubblico, dopo anni di oblio dovuto anche, dobbiamo dirlo, all’ostracismo del mercato dell’arte.

Fotografie, testi, registrazioni, materiale video guidano lo spettatore dentro un corpus davvero sterminato: dai primi lavori ancora figurativi in cui Giacinto Detto Marco allenava il suo linguaggio e che gli diedero un’effimera e rimpianta notorietà (Divorzio Italiano, del 1974), alla lunga serie di performance di Invisible Body Art (l’interminabile sequenza di pannelli Solo un cappuccino), in cui il corpo stesso dell’artista viene trasmutato in opera d’arte.


Ma tale operazione non avviene attraverso interventi ancora estrinseci ed esteriori, come in molta arte invero superficiale che ha fatto tuttavia la fortuna – e la moda – di quel genere, bensì molto più in profondità, fin nelle pieghe del metabolismo, che viene sospeso e modificato impercettibilmente e infinitamente. Va detto però che, forse, è per il suo lavoro di Visual Poetry, e ancor più per i momenti artistici che vanno sotto il nome di Labirintic Language, ricerca arditissima che continua ancora oggi, che Detto Marco verrà ricordato. Nell’allestimento allo Spazio Capezzone, giganteschi pannelli che riportano a caratteri minuti gli steminati testi delle sue perfomance, e lunghissime sequenze video testimoniano questa fase della sua opera.


È la chiave del suo lavoro attuale: torsione e svuotamento del linguaggio dall’interno, costruzioni asintattiche e spesso asemantiche, uso figurativo e quasi “prensile” della parola, quella tipica logorrea a scatola cinese che è la cifra stilistica delle sue composizioni, spesso improvvisate in piccoli circoli di amatori o in trasmissioni radio semiclandestine e fortunosamente ritrovate e oggi esposte: un virtuosismo istrionico che non è mai fine a se stesso, ma finisce per mostrare, come in un rincorrersi infinito di specchi, il destino di insensatezza della contemporaneità. Si dovrebbe dire molto di più. Andatela a vedere: è una mostra che vi consigliamo di cuore.
(Un consiglio: fate attenzione al banchetto allestito subito prima dell’ingresso, cercheranno di farvi firmare dei fogli per una sedicente nobile causa. La Direzione ha garantito trattarsi di abusivi che nulla hanno a che vedere con la mostra su Detto Marco).
»

per gentile concessione © Rowohlt, Stuttgart,
tratto dal volume: B.G. Argano, B.G. Argano vi spiega l’arte concettuale, Rowohlt, Stuttgart, 2005

Immagini
1. Detto Marco Pannella, Passa il joint, performance itinerante, Italia, 1975
2. Detto Marco Pannella, Solo un cappuccino # 1743, foto della performance al Circolo Medici Internisti Liberali di Anagni, Frosinone, Italia, 1983.
3. Detto Marco Pannella, Divorzio italiano, tecnica mista, collezione privata, 1974
4. Detto Marco Pannella, Labirintic Language # 186, olio su tela, cm 25×25, Museo dell’Appennino, Teramo, Italia, 2005.

 

KONZEPTUAL – Urbano Vigile

«
La moda degli artisti collettivi e della creazione anonima come gesto sovversivo non è nuova, ma quella che vi presentiamo non è una moda: è una delle operazioni più originali e innovative, e insieme più complesse, che il circuito dell’arte abbia visto da molto tempo.

Stiamo parlando di quel singolare e inafferrabile fenomeno che va sotto il nome di  Urbano Vigile. Li avrete senz’altro visti nelle strade delle vostre città, ed è stupefacente sia il loro numero sia la loro incredibile capacità di essere perfettamente sincronici. Uno solo non vi dirà nulla, al massimo vi chiederete: che ci fa quel tipo col buffo vestito in un angolo di strada? E passerete oltre.


Perché questa è la cifra dell’operazione: complessità e invisibilità. Come uno sterminato ipertesto vivente, Urbano Vigile gira per le strade, per tutte le strade, e sembra farsi i fatti suoi. Ma non è così. A un certo punto alzerà le braccia, suonerà dentro un curioso fischietto, passerà di fronte al traffico impazzito fermandolo con un solo gesto inaudito causando una sospensione, una bolla di non-tempo nel fluire isterico del continuum apparentemente lineare. Ma soprattutto, lo farà in infiniti punti contemporaneamente.

Complessità: le teorie di Morin, le intuizioni di Maturana e Varela sulla biologia del vivente, le ricerche di Vinograd sulle strutture reticolari, la teoria del caos, tutto messo all’opera nell’istante, nello spazio e nel tempo. Invisibilità: che dire di un’opera che, letteralmente, non può essere vista? Dovreste essere ovunque, ubiqui, per poterla cogliere. C’è tutto l’esoterico insegnamento della post-ermeneutica contemporanea dietro questa apparente semplicità, ma anche un messaggio politico che per paradosso è impossibile non cogliere. E infine: Trasformazione. Lo spazio del movimento umano diventa una materiale plastico, una sterminata macchina ambientale che si modula, si piega e si distende dietro i gesti, quasi una danza infinitamente disseminata, di Urbano Vigile. Esperienza materiale e ascetica al tempo stesso, potenziale di mutazione dal basso, Urbano Vigile parla ad ognuno di noi. E sembra chiederci, nel silenzio sospeso di una mano sollevata: dove credi di andare?
»
Per gentile concessione © Rowohlt, Stuttgart;
tratto dal volume: B.G. Argano, B.G. Argano vi spiega l’arte concettuale, Rowohlt, Stuttgart, 2005.
Foto Archivio EIAR.

 

KONZEPTUAL – Carol Wojtyla


«
Difficile dire qualcosa che non sia stato detto su uno dei più celebrati e importanti performer del nostro tempo, quel Carol Wojtyla, al secolo Paolo Giovanni Secondo da Teramo, che ha fatto versare fiumi di inchiostro alla critica internazionale e il cui nome riempie milioni di pagine web. Vero navigatore di tutte le correnti dell’arte contemporanea, sembra che nessuna sfumatura della ricerca estetica gli sia rimasta estranea: dalla body art più estrema – la notissima performance Come To Daddy, operata in diretta planetaria nel maggio 1981 al Giant Stadium per l’occasione trasformato in Piazza del Popolo, grazie a un semisconosciuto artista turco da lui assoldato  – fino al concettuale più rarefatto – l’indimenticabile “muggito” di Bratislava del 2003, trenta minuti di suoni gutturali tra la litania mistica sufi e il lamento inarticolato di un moribondo, di fronte a una folla ciclopica ed esterrefatta venuta da tutta Europa. Sovvertitore e fondatore al tempo stesso, dall’influenza vasta e profonda, alle sue opere alcuni attribuiscono eventi epocali come la rovinosa fine del movimento International Communism, che per decenni aveva regnato indisturbato nei musei e nelle gallerie di mezzo mondo (crollo che altri critici attribuiscono però al venir meno della spinta propulsiva di quel movimento). O la presunta rivelazione niente meno che della fine del mondo, in realtà un dirompente lavoro di scavo nella società dell’immagine e nei suoi risvolti più arcani, operato attraverso un progetto pluridecennale dal nome iniziatico di Terzo Segreto di Fatima.

Come chiudere Giovanni Secondo in una definizione? Figura controversa, ha lacerato e diviso le opinioni: chi ne ha fatto un avventuriero del mercato dell’arte, chi un semidio del gesto figurativo, chi ha visto nella sua opera un nuovo inizio e chi ne ha denunciato un radicale arcaismo antimoderno. E nemmeno il gusto dello sfregio sembrava mancare a questo autentico mostro di bravura: che dire della sarcastica “papamobile” fatta costruire dopo il suo auto-organizzato ferimento, beffardo guanto di sfida verso i detrattori che gli attribuivano eccessi splatter? Sta di fatto che nessuno è stato in grado di coniugare in modo così dirompente la rottura estetica con il successo presso le masse degli appassionati, ad onta dei catastrofisti d’ogni risma per i quali arte e massa sono inconciliabili. Artista dell’elefantiasi, le sue performance non furono eventi, ma adunate oceaniche; le sue intuizioni non erano prese di posizione, ma proclamazioni dell’apocalisse. Centro focale di un culto di massa quasi isterico secondo molti, profeta della morte e rinascita dell’arte attraverso la sparizione dell’artista secondo altri, Giovanni Secondo ha fatto di tutta la sua vita un’opera. E di questo la cultura contemporanea non potrà liberarsi tanto facilmente
»
Per gentile concessione © Rowohlt, Stuttgart,
tratto dal volume: B.G. Argano, B.G. Argano vi spiega l’arte concettuale, Rowohlt, Stuttgart, 2005


Immagini
1. Giovanni Secondo, Come To Daddy – performance audiovisiva – Giant Stadium, East Rutherford, New Jersey, USA
2. Giovanni Secondo, My Beautiful Car – materiali plastici, tela, metallo – Castello di Rivoli, Rivoli (TO), Italia
3. Giovanni Secondo, I’m Going – materiali plastici, tela, metallo – collezione privata
4. Giovanni Secondo, Lanonaora #13 – performance audiovisiva – Sala Grande dei Musikverain, Vienna, Austria