il capostipite cerimonioso

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La natura inanimata è del tutto cerimoniosa e rituale. Vedi le nubi? Pioverà. Anche gli animali, anche gli animali sono assai cerimoniosi e rituali. Guarda l’orrendo piccione come immancabilmente ruota su se stesso, danza, gonfia le penne di fronte alla femmina ritrosa. E la lepre isterica si acquatta quando la volpe trotta lontana, ma se giunge al bordo del perimetro invisibile oltre il quale la fuga è troppo ardita, si alza dritta, immobile e lancia la sua sfida. È un calcolo impossibile di velocità, traiettorie, asperità del terreno, eppure soddisfa entrambe, così che ognuna riprende la sua strada desistendo dallo scatto. Ma puoi star certo che, se è lepre, in quell’istante esatto si alzerà. Un’astuzia infallibile, o piuttosto un colare di gocce dell’umore giusto giù nel nervo dorsale. Oppure, una cerimonia inconsapevole recitata da automi, il solo autore: il palcoscenico.

Gli uomini antichi, infine (e all’inizio), erano così cerimoniosi e amanti dei rituali da inventarseli dal nulla, la cerimoniosità e i rituali, inventando così anche se stessi. I primi tra loro che trovarono opportuno dare un nome alla propria stirpe lo fecero con suoni perduti per sempre, ma il cui senso, senza dubbio, era: "coloro che di ogni gesto fanno cerimonia". E intesero in modo così serio e impegnativo questo curioso e sorgivo raddoppio di mondo, codesti millenari fondatori, da immaginarne l’origine a ritroso, nell’antico passato degli animali e della natura, di cui impararono a simulare l’aspetto e i gesti, ornandosi di penne il capo e di colori il corpo e inscenandone le potenze e le carni, la vita, la passione, la morte che, da quel bordo sacro di palcoscenico, ora vedevano scorrere impetuose. Imparando a voltarsi indietro, sporgendosi dal bordo, crearono il circolo qui evocato, che si potrebbe descrivere infine come una differenza costruita sulla nostalgia di un’identità che non c’è mai stata. Crearono, cioè, colui che si volta e ciò che guarda, e la distanza che tra loro ogni volta nuovamente si apre.

Fu dall’antica radice della cerimoniosità e dei rituali che lentamente si separarono, procedendo in diverse direzioni, tre distinti ma imparentati rami: la religione, il teatro, il potere temporale. E da questi rami fiorì, in fronde ricche e intricate, quel che ne consegue: la poesia e il canto, le saghe e i tribunali, i preti e la delizia delle sublimi torture, i filosofi, quelli torturanti e quelli torturati, da lì vennero la regina e il principe consorte con la loro corte di giullari, dame di compagnia e gentiluomini forbiti e spiritosi, vennero i letterati di corte e quelli da giardino e ancora gli architetti, gli agrimensori, gli avventurieri, i cardinali, le spie, i magnaccia e le puttane, i lacché e i loro padroni, i servi, i ribelli e infine cani, maiali, topi, scarafaggi e popolo minuto ossia, a farla breve, tutto quanto. Venne quel che si può vedere ruotando lo sguardo in ogni direzione, ogni cosa costruita di materiale aereo, apparente, in special modo quel che è giudicato più resistente e alieno: di invisibili rapporti, di diagrammi, spinte, controspinte e passi di danza.

Così, facendo cerimonia di sé o meglio della propria millantata origine, facendosi piega del proprio essere piega e poiché ogni rituale è un ritornare dove non si è mai stati, la cerimoniosità procedette per moltiplicazione, una cellula dall’altra colonizzando tutto quanto. E più procedeva, più impallidiva, si scioglieva, svaporava e infine regnava indefinita, come una nube così diffusa da risultare impercettibile nell’azzurro del cielo, ogni rituale succedendo all’altro, ogni abolizione o estinzione per inedia o per fucilazione mettendo capo a un rituale più invisibile, rarefatto e segretamente espanso. Sbaglierebbe allora chi vedesse nella cerimoniosità e nei rituali l’origine della differenza umana. Ma sarebbe in errore chi li intendesse come barbarie da cui fuggire, la gabbia in cui sempre soffoca lo spirito dei tempi. Perché se è vero che sono la fonte dell’incivilimento e in essi ci distinguiamo dalla bestia cui pure li attribuiamo, è vero insieme che l’incivilimento coincide con la battaglia costante e progressiva contro gli antichi rituali, ed è vero infine che tale battaglia coincide con la sempre più vasta e sottile diffusione dei rituali nuovi. Vista da qui la differenza umana, se mai si può afferrarne la figura, è solo un paradosso, una fragile curva piegata intorno a un asse che ad ogni giro si scosta un poco oltre, il moto di un’elica, un viticcio attorcigliato, il ritornare costante sui propri passi aprendo strade mai prima visitate.
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Giulio Bartolomeo Argano, La leggenda del capostipite, Rowohlt, Stuttgart, 2012, pagg. 2-3.

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