Ciò che ci fa fare, è


Massimo, pur nell’accademicità di questo mio discuterne, credo che i tuoi cinque punti non siano né giusti né sbagliati: solo non sono utili. Da tempo si dice che le definizioni statiche non servono: qualcosa rimane sempre fuori o qualcos’altro è messo dentro male, in base a proprie fisime, o non dovrebbe esserci proprio.

Ciò che definisce un oggetto, secondo una buona tradizione pragmatista, è l’uso collettivo che se ne fa, ossia meglio: "ciò che ci chiama a fare" in rapporto al contesto in cui è sviluppato. Soprattutto, non c’è prima la definizione e poi l’oggetto che vi si deve adattare a spinta (uso terroristico della definizione: "tu sì, tu no"). Ci sono invece prima gli usi, e poi dagli usi emerge la figura sempre mobile e variabile di "quell’oggetto" e di chi lo usa come "il soggetto di quell’uso".
La definizione di martello di cui parla Giuseppe nei commenti è, ad esempio: "inchiodare" (e solo per questo, nel caso per inchiodare io usi un sasso, che non somiglia per nulla a un martello, posso dire tranquillamente che "ne faccio martello").
Così weblog, ad esempio e in prima migliorabile approssimazione, è "scrivere e relazionarsi", cioè: conversare. Definizione ancora imprecisa e notevolmente rozza perché comprende molti fenomeni della rete e non rende alcune specificità e molte conseguenze, ma che va almeno nella direzione giusta.
Che poi lo si faccia coi permalink o con xxxyy, importa di certo ma si tratta di discorsi già "interni" all’oggetto. Sono, quelli, adattamenti reciproci, come la "mano" e il "martello" si adattano tra loro nell’uso, il che spinge ad esempio l’attrezzo a farsi più lungo nell’impugnatura per meglio servire allo scopo, o la mano a muoversi in modo uniforme per meglio spingere: entrambi emergono come "martello per una mano" e "mano per un martello" solo in questa relazione (le definizioni non ci sono già prima, nell’iperuranio; per questo il titolo di questo post andrebbe concluso con la frase reciproca, cioè: ciò che fa di noi, siamo). Allo stesso modo "ciò che è usato per scrivere e connettere" fruttifica dentro sé i permalink o i commenti o ciò che meglio "serve l’azione" e il suo agio sulla base materiale e di pratiche in cui si trova.

Tali adattamenti "corporei" della tecnologia nascono dall’uso, non il contrario: i weblog – come la scrittura del resto – sono tecnologie, ergo l’adattamento avviene col "corpo": altro che stupidaggini sulla "virtualità".
(più seriamente, ma più ermeticamente in questa occasione, "virtuale" è forse il poter essere, la potenzialità determinata di ogni azione e in questo senso è propria di ogni rapporto costituente del vivente con la porzione di mondo di cui è fatto e da cui muove, scandendo in essa e in sé differenze che vengono raddoppiate "significativamente" nella piega del linguaggio)


Così lo sviluppo (come processo non lineare) è rimesso sulle gambe e non sulla testa (vuota), così si spiega perché si percepisca l’esigenza di sviluppare i permalink e non, che so, i fondini
automatici a fiorellini – sarebbe tecnologia anche quella, no?; e questo è anche il motivo per cui proprio il nesso tra utilizzatori "stupidi" e sviluppatori – e non gli esperti, che arrivano regolarmente in ritardo –  decide nei fatti la direzione delle tecnologie comunicative, inventando nuove modellazioni non dal nulla ma da esigenze di prassi. La tecnologia è corpo che si sviluppa nell’uso. A quali fini? I suoi.

(Tra parentesi e di nuovo con una certa dose di ermetismo, questo è un buon modo, secondo me, per scartare da tutte le concezioni apocalittiche – cioè intellettualisticamente religiose – della tecnologia come manipolabilità assoluta e devastante dell’essere o cose simili. Concezioni, letteralmente, in-spiegabili, che non spiegano i processi né tantomeno la con-costituzione di mente e mondo che avviene nella prassi né può avvenire altrove [e dove?]. E non li spiegano perché, appunto, fanno camminare i processi sulla testa, assolutizzando protesi metafisiche come "volontà" o "controllo" che magicamente costruiscono e in-formano il materiale di cui dispongono alla stessa stregua dello spirito che da fuori e non si sa come animerebbe i corpi. Appunto, spiegazioni che hanno bisogno esse stesse di una spiegazione)


17 thoughts on “Ciò che ci fa fare, è

  1. vorresti dire che il gioco del calcio non è il calcio? curioso…

    solo giocando si inventano man mano le regole e ci si può anche inventare l’idea strampalata che ci siano state prima le regole e poi il giocarle

  2. L’anonimo vuol dire che il gioco del calcio non è soltanto il campo da gioco. Ovvero che se partiamo dalle linee non si arriva alle traiettorie. Che insomma blog (strumento) e blogging (uso dello strumento)vanno presi insieme. Aggiungo che “uso” non coincide con “effetto”: vale a dire che posso usare un blog con l’aspettativa di coltivare relazioni, ma arrivare al risultato di non coltivarle affatto.

  3. ehi, ma il commento 6 dice proprio quello che io dico nel post! (salvo che nella distinzione che fai, confondi uso con aspettative: se usando qualcosa l’effetto operativo è imprevisto, vuol dire o che le aspettative erano sbagliate, o che magari erano un addentellato ideologico che di nuovo rientra nell’uso, a mia insaputa)

    (e non si cancella niente, qui. o quasi)

    😉

  4. Praticamente un uovo cos’è? Cibo o incubatrice?

    Per “farmi fare” qualcosa, l’uovo deve essere cibo; io sono chi lo usa come “il soggetto di quell’uso”.

    Per il pulcino un uovo è la sua ex culla. (Per non dire della gallina).

    E collettività esiste sia per gli uomini che per i pulcini.

    Ma se i pulcini iniziassero a mangiare uova e noi le covassimo e basta?

    E con questo, cosa voglio dire?

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