de blogo bellico

o l’autoritratto impossibile, con tanto di botola e arti sparsi

(…) Quando poi la memoria prese a ruotare su di sé per via di certi segni che ritornavano, di certe coincidenze, di segnali inaspettati che muovevano corrispondenze che solo per noi avevano senso, avemmo l’impressione che il ricordo girasse intorno a un asse invisibile ma uniforme di comprensione e di significato, ci colse cioè la sensazione di acquisire spessore. Così, molto sollevati, credemmo che la memoria non fosse che la premessa della storia e quindi si potesse narrare, che l’indagine fosse in corso e il colpevole alle strette. Senza pensarci cominciammo a percorrere in lungo e in largo il piano proiettandovi ombre, con grande entusiasmo. Tuttavia nel momento in cui quella storia, che pareva la nostra, venne alla fine tutta narrata o meglio scritta, l’episodio adeguatamente drammatizzato, romanzata la formazione, chiuso il quadro e la cornice, i problemi che credevamo finalmente in via di felice risoluzione, cioè il problema della coincidenza di noi con noi stessi, il problema dell’articolazione dei fatti, il problema della loro messa in gerarchia, della loro dominazione e disposizione come satelliti intorno al loro sole che poi eravamo noi, così da poterne parlare con noncuranza come si fa ogni giorno parlando di questo e quello cioè di ciò che abbiamo o pensiamo di avere a disposizione, tutti questi problemi, scoprimmo con terrore, si erano in realtà moltiplicati. Fummo avventati, o ingenui? Come si poteva sperare di trovare consistenza disponendo tutte le parti su un piano non più spesso di un foglio, anzi, proprio su un foglio? Prendersi in una scrittura così intesa, laddove i fatti slegati da qualsiasi memoria apparivano prima di tale presa sfrangiati, sconnessi, incongrui e noi con loro, del tutto insaputi, aprì infatti ulteriori ambiguità poiché la scrittura è l’assente per definizione, il morto che parla al vivo. Ecco che nella storia appena scritta i personaggi così ben torniti e messi lì col loro cipiglio come statuine nel presepe malauguratamente non coincidevano con i narratori, come avevamo dato per scontato e nessuno di loro coincideva del resto con gli attori che li mettevano in scena, e degli autori poi nessuna traccia; ognuno di costoro andava dalla sua parte in libera uscita, le gambe di qui, il tronco a destra, le braccia per conto proprio. I profili non erano ben sovrapposti, gli scarti si allargavano, gli anfratti invisibili diventavano botole e noi finimmo per caderci dentro come chi, volendo prendere un oggetto caduto sul fondo di una botte, ci si infila e rimane lì a penzolare al contrario col culo e i piedi in alto, incapace di trovare rimedio. Una posizione sconveniente. La speranza di venir raccolti, legati, precipitò senza che nemmeno ci accorgessimo: la misura, che credevamo naturale e spontanea e che sommessamente ci inorgogliva, invece proprio lei vacillò, noi non eravamo noi ma una caricatura (e la caricatura rivelava sì una verità su di noi ma di traverso o di riflesso, contro la nostra volontà, nostro malgrado, faccenda che gli altri non esitarono a farci notare, ciò che poi si rivelò la nostra salvezza). Lo scacco fu tale che per venirne a capo alcuni non trovarono di meglio che farne una professione. È a questo punto che ci venne il sospetto che la piegatura che aveva dato forma alla forma non avesse gemmato da quel tronco e che nella memoria, nella scrittura che la narrava, infine nella storia non ci fosse alcun riassunto disponibile, alcun asse di rotazione stabile che andasse evocato o ricostruito. Ci venne insomma il dubbio che la storia, regno della finzione o meglio della possibilità, giungesse a dire una verità o meglio a parlare di fatti non contro la propria natura, nell’autentico, ma attraverso quella natura, nello scherzo, cioè il più possibile lontano da noi. Come procedemmo a quel punto, riemersi dal naufragio su di un una scialuppa malconcia e strapazzata, laceri, ma vivi, non è faccenda che meriterebbe da sola l’attenzione di un intero racconto d’invenzione?

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