AMISCI MIEI

Chi non ha mai fatto il trenino? Non mentite, non siete credibili. L’animatore o l’amico brillantone lo chiamano e tutti si mettono in coda, mani sui fianchi di quello davanti (che con un po’ di fortuna sarà dell’altro sesso e non troppo simile a un’aragosta bollita) al ritmo di qualche ballo sudamericano, sculettando e facendo facce molto buffe, buffissime. Signori in bermuda col capello rado e signore scollacciate e in carne ridono di gusto, non è chiaro di cosa. Perché puoi anche vergognarti come un ladro a mente fredda, ma quando sei lì è difficile resistere alla tentazione di dare il meglio di te. Che purtroppo spesso coincide col peggio, savasandir.

Il trenino, paradigma del divertimento democratico, è perfetto sotto il decimo anno d’età, oppure per i villaggi vacanze o per le crociere economiche. È agghiacciante in qualsiasi altro contesto. Secondo alcuni in realtà è agghiacciante ovunque, ma noi ci manteniamo fedeli a un profilo medio senza cedere agli eccessi snobistici.

Il gemello siamese del trenino nella comicità parlata o scritta è il tormentone. La battuta che si ripete identica, la parlata buffa, il gesto ricorrente, l’azione stramba che tutti imitano, lo strafalcione mirato (“savasandir”). Non è chiaro chi lo inizi, ma un sacco di gente ci si attacca e fa trenino, ognuno fornendo il suo originale contributo. Del resto non siamo tutti individui identicamente unici e irripetibili?

Il tormentone è un mezzo di umorismo goliardico, spiritualmente adolescenziale, parente stretto delle risate che da ragazzi si facevano negli spogliatoi quando il solito amico, il brillantone, faceva la solita rumorosa puzzetta. È un umorismo ormonale, gregario, semplice e soprattutto molto democratico. Perché è finalmente alla portata di tutti: grazie al tormentone ci si può sentire spiritosi in tanti con un cervello solo o, secondo i soliti snob, anche senza (ma noi non siamo d’accordo con loro, savas… naturalmente). Per questo il tormentone è il futuro: perché porta il sorriso. E noi lo salutiamo con gioia, perché il sorriso è sempre il benvenuto: niente come un sorriso ti fa guardare il mondo con occhi nuovi e ti riconcilia con la vita. Facciamolo assieme, facciamolo per un sorriso!

LOL.

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svuotaborsa

Pat Hobby. Disavventure di uno sceneggiatore a Hollywood
di Francis Scott Fitzgerald
Uno Scott Fitzgerald minore, ma divertente. Raccolti in volume, i brevi racconti che lo scrittore, ormai alcolizzato, vendeva alla rivista Esquire per sbarcare il lunario. Vi si racconta le avventure di Pat Hobby, sgangheratissimo sceneggiatore, sulla cresta dell’onda per un secondo durante il periodo del cinema muto e poi precipitato nell’oblio, che si arrabatta con lavoretti di scrittura dentro e fuori gli studios della Hollywood degli anni ’40. Fitzgerald stesso fu sceneggiatore in quegli studios, con scarsissima fortuna, tanto che si ritiene almeno in parte autobiografici questi sketch umoristici, tutti piacevolmente giocati sulla tecnica del colpo di scena comico e nei quali il talento dell’autore si sente e non si sente.

 

La vita è un’altra storia. Racconti scelti
di John Barth
“Perso nella casa stregata” è monumentale, “Avanti con la storia” è di una bellezza rara, molti altri racconti sono eccellenti. Peccato per la scelta degli ultimi tre, davvero troppo simili, che suscita un po’ di perplessità. Forse era preferibile privilegiare le prime raccolte invece che cercare di fare un’antologia completa. Ad ogni modo il livello è altissimo.

 

Fuoco fatuo
di Pierre Drieu la Rochelle
Le 100 fulminanti pagine che Houllebecq non arriverà mai a scrivere, nemmeno vincendo all’enalotto degli scrittori. Una volta lette, puoi tranquillamente fare a meno della pomposa opera omnia dell’altro. Basterebbe questo.

 

 
Casa d’altri e altri racconti
di Silvio D’Arzo
Il racconto che dà il titolo alla raccolta merita, ma anche quello dei due anziani coniugi non scherza. Nella mia abissale ignoranza non sapevo nemmeno fosse esistito. Fatto sta che D’Arzo, morto a trent’anni dopo aver pubblicato pochissimo, aveva di certo un gran talento.

 

 
E adesso, pover’uomo?
di Hans Fallada
I presupposti dell’avvento del nazismo nella vicenda di due sposini alle prese con la Grande Crisi. Come nell’illusione dell’anatra-lepre, l’implicazione reciproca di ferocia e dolcezza. Romanzo politico, uno dei manifesti della Nuova Oggettività. Scritto con tecniche neorealistiche (la narrazione al presente, una caratterizzazione dei personaggi in chiave sociale, la resa dei rapporti di potere nelle piccole relazioni quotidiane, uno sguardo tendenzialmente partecipe e dolente) pare tuttavia risentire – secondo me – anche di una certa aria brechtiana che limita la nota tendenza del neorealismo al sentimentalismo e al melodramma. Non si parla di capolavoro letterario, ma di interessante micro-fisica delle basi sociali dell’autoritarismo.

 

requie

 

Affonda la mano nel nido del serpente
senza ritrarla, scambia il tuo veleno col suo.

Nel buio non porti la chiave a stella, solo
il talismano che tieni sul cuore quando

precipitano i giorni e il sangue impallidisce.
L’animale docile non scampa la scarica che brucia

il lungo giorno della stalla, il pensiero sedato
lungamente che ritorna sotto forma di tragedia

privata, la morte di un parente stretto, l’incubo
del cancro, l’ansia che toglie il respiro

e fa il vuoto intorno, l’imbarazzo dei presenti
che cercano le scale mobili e infine

la salvezza tentata nella trafila delle cose minute
la sequenza dei treni, gli orari, il meccanismo

a scatto del telefono che funziona ancora per un poco.

 

cormac mccarthy, suttree

Che meravigliosa storia, comica e struggente, sarebbe stata quella di Harrogate, il topo di campagna divenuto topo di città. Ma McCarthy, in quest’opera ambiziosissima, sbaglia protagonista e invece del vero eroe, ridotto a personaggio minore, ci propina una sua controfigura insipida e inconcludente, tormentata e pretenziosa. Suttree ha un passato faulkneriano, di cui non si sa niente di preciso ma che gli si presenta alla porta a intervalli regolari sotto forma di melodramma (non manca il classico bambino morto, una sicurezza in questi casi) e un presente da asceta urbano. Campa di espedienti sulle rive del fiume in un paesaggio didascalicamente dantesco. Per vivere, guarda un po’, pesca: occupazione evangelica per eccellenza. Frequenta i bassifondi senza mai sporcarsi davvero la coscienza, anzi dimostrando un’empatia silenziosa e rassegnata e una buona volontà soprendente nel soccorrere chi incrocia la sua strada, e quando si mette nei guai è per una certa tendenza all’ubriachezza dissoluta che lascia supporre macigni depositati nell’anima. I compagni di sventure lo amano e lo rispettano e ne cercano l’amicizia come quella di una sorta di gesucristo cameratesco e sdrucito; lui vive alla giornata, in fuga da non si sa cosa e con una spiccata tendenza alla sbornia triste e ai deliri persecutori di carattere religioso.

La struttura della narrazione ricorda il romanzo picaresco, da cui la letteratura america è segnata fin dalle origini: nessun vero intreccio, il procedere della storia legato alla semplice successione di eventi che ruotano intorno al personaggio centrale (la memoria di Huckleberry Finn è immediatamente presente come debito palese, non fosse che il Finn di McCarthy è impersonato da Harrogate, cioè un personaggio secondario). Come da genere, le scene sfumano una nell’altra, ma qui a volte capita si tronchino in modo un poco maldestro, per motivazioni ambigue: in particolare capita alle avventure amorose di Suttree, stoppate dall’autore con espedienti piuttosto estemporanei (una frana che capita a fagiolo; un impazzimento piuttosto immotivato…) evidentemente per non turbare l’allure del personaggio. Alcune scene, va detto, sono concepite meravigliosamente: la pesca dei molluschi ad esempio è epica, e appena appare in scena Harrogate il romanzo si illumina. Anzi, tutti i personaggi secondari, bisogna proprio dire, sono belli e struggenti. Ma poi c’è sempre questo Suttree a cui tocca tornare.

Il limite strutturale nella concezione del personaggio si manifesta anche nella scrittura. I tre registri che McCarthy alterna non si amalgamano: a dialoghi perfetti e perfettamente mccarthiani, si alternano parti descrittive, nel suo consueto realismo asciutto e lirico, anche se qui un po’ debordante e con una tendenza al macabro un filo telefonata; ma poi ecco che entra in scena lui, Suttree, non di rado ubriaco o fatto di funghetti, e salta fuori un registro psichedelico davvero incongruo. Quando nel testo "chi guarda", come diceva Genette, è Suttree, di punto in bianco parte una raffica di metafore strampalate e di deliri verbali stile "pasto nudo" di cui colpisce soprattutto la gratuità negli accostamenti tra immagini, espressi oltretutto con un tono da Ezechiele che profetizza sulle ossa. Dovendo dare una sostanza e uno spessore psicologico al dramma interiore di Suttree, che non è un semplice hippie ante litteram o uno spiantato, ma si suppone personaggio cosmico che si immerge nella tenebra del mondo, nel suo desiderio di fine e di morte, nella sua infelicità senza rimedio, in un corpo a corpo con un dio che non sa che farsene di ciò che ha creato, ecco dovendo rendere credibile tutto ciò, in queste parti McCarthy spinge la scrittura verso una specie di surrealismo in cui, evidentemente, far giocare il margine tra coscienza vigile e sonno (del protagonista, ma anche del mondo o di dio). Il risultato però appare infelice, perché innesta una protesi di mimesi interna su un corpo, quello consueto e scabro della scrittura di McCarthy, che non la prevede e non la sopporta. L’impressione è quindi di una forzatura un po’ gratuita. E’ un esperimento poco corretto, me ne rendo conto, ma provate a paragonare la scena in cui Suttree si perde nei boschi e gli vengono incontro oscure presenze partorite della sua mente, con cui dialoga per giorni (o la scena in cui la nana gli somministra una specie di pozione allucinogena), alla famosa scena, contenuta ne La montagna incantata, in cui il protagonista rischia di morire durante una gita in montagna e in piena tormenta di neve si addormenta e sogna, e avrete l’idea della differenza tra costruire un delirio verbale funzionale e ricco di senso e uno verboso e sostanzialmente vuoto.

alessandro baricco, i barbari

Una parodia di storia della cultura che si prende terribilmente sul serio, non sapendo di esserlo. L’assunto di base – fornire una lettura non snobistica della “mutazione culturale” contemporanea, qualunque cosa questo voglia dire – è senz’altro lodevole. Ma ci si ferma lì. Il libro è semplice, ma vuoto. Del testo divulgativo gli manca la correttezza: è approssimativo, prende un fatto empirico e ci cuce sopra una teoria universale (esempio: una volta si faceva vino di qualità, ma arduo, oggi vino spettacolare, ma seriale, hollywoodiano, effettistico. È  la mutazione! No, è che non compri i vini giusti e non capisci che “una volta” il 95% della popolazione beveva il vino del contadino, per cui, a mercati mutati, il vino seriale devi confrontarlo a quello, non al barolo del 1800, che peraltro manco abbiamo idea di come fosse). Al tema dell’avvento delle democrazie – che sarebbe magari quello da cui partire per mettere sui piedi un’analisi degli eventi sensata – dedica un capitoletto un po’ titubante e dubitativo, per non osare troppo. In molti passaggi poi prende proprio cantonate (il romanticismo non è “l’ideologia della borghesia” tout court, su. Un po’ di dialettica). Monta a neve delle scemenze – prima eravamo profondi, ora siamo superficiali. Cos’è, un’autocritica? Oppure: prima per trovare il senso occorreva scavare, oggi basta saltare, connettere. Che la cultura sia creare connessioni, più o meno da Neanderthal, gli sfugge. E tira conclusioni sul futuro della fruizione culturale, alcune già smentite dai fatti dopo pochi anni dall’uscita del libro. E quando dice cose condivisibili, purtroppo sono anche ovvie.

carlo galli, perché ancora destra e sinistra?

Avrebbe bisogno di una vigorosa revisione stilistica perché è scritto come un documento del governo Prodi, però è un saggio intelligente. Le categorie di destra e sinistra nascono con la modernità, ma non sono univoche né chiare, anzi, sono un coacervo di problemi. Galli esordisce citando la consueta litania anni ’80’: “si tratta di categorie anacronistiche”, e si mette poi a verificarla. Passa in rassegna rapidamente tutti gli sviluppi e le figure possibili gettando il lettore nello sconforto più totale: magari il problema fosse la loro estinzione! La faccenda è più grave: fin dall’inizio e nei successivi duecento anni, compaiano destre e sinistre di ogni tipo e soprattutto appare impossibile trovare un elemento costante per distinguerle. Poi torna indietro e mostra invece il filo interpretativo che permette di comprendere, anche retrospettivamente, la loro differenza, e questo filo – che vi scoprite da soli se volete – ha che fare proprio con l’esordio della modernità e con la sua dialettica interna, con la sua profonda ambiguità. Avrebbe potuto essere un libro ancora migliore se, oltre a essere scritto in modo più civile, Galli non tradisse spesso le sue simpatie per una delle due parti. Certi saggi andrebbero scritti simulando un’imperturbabilità assoluta, una calma olimpica. Non per fare i neutrali, ma per far sì che la propria ragione appaia dalle cose, non dai gesti. Ma non si può avere tutto.

michele mari, rosso floyd

La mia cultura rock è piuttosto ridicola, quindi non sono riuscito ad appassionarmi granché intorno alle questioni floydiane che il libro dipana ossessivamente. Però è strutturato e scritto bene, anche se va detto che non sembra un libro di Mari, se non per una certa dose di follia che lo attraversa (immagino si sia divertito molto a scriverlo, tra l’altro). Il fatto che l’abbia divorato pur non sapendo quasi nulla delle vicende cui si riferisce e fregandomene zero della mitologia correlata, credo sia un segno positivo. Alla fine, spinto dalla suggestione, sono andato su qualche sito a cercarmi i testi delle canzoni pre e post-barrettiane alla ricerca di chissà quale rivelazione poetica e ovviamente facevano piuttosto cagare, sia gli uni che gli altri. Vabbe’ dai.

paolo sorrentino, hanno tutti ragione

Il libro sta tutto in uno sterminato monologo in cui il protagonista – una specie di Buscaglione napoletano, bulli, pupe, alcool e cocaina – ci spiega cosa pensa della vita, del successo, delle donne e di tutto il resto. Il monologo è in realtà inframmezzato da qualche sprazzo narrativo piuttosto estemporaneo, qualche volta interessante (su tutto un paio di scene “tarantiniane” e una rievocazione di iniziazione al sesso di sapore felliniano) e spesso a dire il vero piuttosto rabberciato (svolte immotivate, agnizioni telefonate, colpi di scena sgangherati, personaggi da fumetto fuori contesto, macchiettismo, cadute nel cinema di serie C, l’immancabile satira sull’Italia allo sfascio politico ecc). Da galleria degli orrori un intero capitolo su come si conquistano le donne che manco nei libri della Littizzetto, e uno su una rimpatriata propiziata dalle puzzette che fa rimpiangere le partite di pallone tra vecchi amici dei film di Salvatores o di AldoGiovanni

nicola lagioia, riportando tutto a casa

Romanzo italiano. Un gruppo di ragazzi diventa adulto nell’Italia del Sud durante gli anni ’80: si incontra, affronta delle prove, misura gli ideali con la realtà, entra in conflitto con la generazione precedente con cui consuma una spaccatura completa, fino a sfiorare l’autodistruzione e ad accedere, previo evento sacrificale (l’overdose), all’età adulta.

Romanzo di formazione con pretese di affresco sociale di un’epoca e di radicale presa di posizione politica sull’oggi. Come è tipico del genere, la prospettiva è di tipo eroico. Il protagonista e i suoi amici si trovano a vivere uno snodo decisivo non solo della propria vicenda, ma della vicenda collettiva, un momento in cui la storia precipita e della quale i protagonisti sono agenti e narratori assieme. In quell’istante la storia accede a una finestra di “conoscenza di sé” costituita dagli occhi dei ragazzi, uscendo dalla pura inconsapevolezza animale. Il protagonista è il centro di questo movimento interno, che divide il tempo eroico dalla prosa del mondo. Il tempo eroico coincide con la giovinezza. Come da genere, tutto ciò che è importante accade a 20 anni (qui, addirittura, a 16 è già tutto finito): il resto è una meditazione sulla sconfitta, o una coazione a ripetere, o una fuga, o un seppellimento. Nella più tipica visione romantica, a 20 anni vivi (e in genere sei sconfitto, come si conviene in una concezione piuttosto generosa di sturm und drang), a 40 ti annulli nell’oblio per non pensare a ciò che è successo, a 60 sei di fronte a un muto terrore.

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