cormac mccarthy, suttree

Che meravigliosa storia, comica e struggente, sarebbe stata quella di Harrogate, il topo di campagna divenuto topo di città. Ma McCarthy, in quest’opera ambiziosissima, sbaglia protagonista e invece del vero eroe, ridotto a personaggio minore, ci propina una sua controfigura insipida e inconcludente, tormentata e pretenziosa. Suttree ha un passato faulkneriano, di cui non si sa niente di preciso ma che gli si presenta alla porta a intervalli regolari sotto forma di melodramma (non manca il classico bambino morto, una sicurezza in questi casi) e un presente da asceta urbano. Campa di espedienti sulle rive del fiume in un paesaggio didascalicamente dantesco. Per vivere, guarda un po’, pesca: occupazione evangelica per eccellenza. Frequenta i bassifondi senza mai sporcarsi davvero la coscienza, anzi dimostrando un’empatia silenziosa e rassegnata e una buona volontà soprendente nel soccorrere chi incrocia la sua strada, e quando si mette nei guai è per una certa tendenza all’ubriachezza dissoluta che lascia supporre macigni depositati nell’anima. I compagni di sventure lo amano e lo rispettano e ne cercano l’amicizia come quella di una sorta di gesucristo cameratesco e sdrucito; lui vive alla giornata, in fuga da non si sa cosa e con una spiccata tendenza alla sbornia triste e ai deliri persecutori di carattere religioso.

La struttura della narrazione ricorda il romanzo picaresco, da cui la letteratura america è segnata fin dalle origini: nessun vero intreccio, il procedere della storia legato alla semplice successione di eventi che ruotano intorno al personaggio centrale (la memoria di Huckleberry Finn è immediatamente presente come debito palese, non fosse che il Finn di McCarthy è impersonato da Harrogate, cioè un personaggio secondario). Come da genere, le scene sfumano una nell’altra, ma qui a volte capita si tronchino in modo un poco maldestro, per motivazioni ambigue: in particolare capita alle avventure amorose di Suttree, stoppate dall’autore con espedienti piuttosto estemporanei (una frana che capita a fagiolo; un impazzimento piuttosto immotivato…) evidentemente per non turbare l’allure del personaggio. Alcune scene, va detto, sono concepite meravigliosamente: la pesca dei molluschi ad esempio è epica, e appena appare in scena Harrogate il romanzo si illumina. Anzi, tutti i personaggi secondari, bisogna proprio dire, sono belli e struggenti. Ma poi c’è sempre questo Suttree a cui tocca tornare.

Il limite strutturale nella concezione del personaggio si manifesta anche nella scrittura. I tre registri che McCarthy alterna non si amalgamano: a dialoghi perfetti e perfettamente mccarthiani, si alternano parti descrittive, nel suo consueto realismo asciutto e lirico, anche se qui un po’ debordante e con una tendenza al macabro un filo telefonata; ma poi ecco che entra in scena lui, Suttree, non di rado ubriaco o fatto di funghetti, e salta fuori un registro psichedelico davvero incongruo. Quando nel testo "chi guarda", come diceva Genette, è Suttree, di punto in bianco parte una raffica di metafore strampalate e di deliri verbali stile "pasto nudo" di cui colpisce soprattutto la gratuità negli accostamenti tra immagini, espressi oltretutto con un tono da Ezechiele che profetizza sulle ossa. Dovendo dare una sostanza e uno spessore psicologico al dramma interiore di Suttree, che non è un semplice hippie ante litteram o uno spiantato, ma si suppone personaggio cosmico che si immerge nella tenebra del mondo, nel suo desiderio di fine e di morte, nella sua infelicità senza rimedio, in un corpo a corpo con un dio che non sa che farsene di ciò che ha creato, ecco dovendo rendere credibile tutto ciò, in queste parti McCarthy spinge la scrittura verso una specie di surrealismo in cui, evidentemente, far giocare il margine tra coscienza vigile e sonno (del protagonista, ma anche del mondo o di dio). Il risultato però appare infelice, perché innesta una protesi di mimesi interna su un corpo, quello consueto e scabro della scrittura di McCarthy, che non la prevede e non la sopporta. L’impressione è quindi di una forzatura un po’ gratuita. E’ un esperimento poco corretto, me ne rendo conto, ma provate a paragonare la scena in cui Suttree si perde nei boschi e gli vengono incontro oscure presenze partorite della sua mente, con cui dialoga per giorni (o la scena in cui la nana gli somministra una specie di pozione allucinogena), alla famosa scena, contenuta ne La montagna incantata, in cui il protagonista rischia di morire durante una gita in montagna e in piena tormenta di neve si addormenta e sogna, e avrete l’idea della differenza tra costruire un delirio verbale funzionale e ricco di senso e uno verboso e sostanzialmente vuoto.

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