impareggiabili conti

Vide distintamente, a grande distanza, suo padre salire nella villetta, ancora sull’asfalto suburbano, colpi Johnny la stanchezza, la non-joy del suo cammino. Lo seguì per tutto il tratto scoperto, il cuore liquefacenteglisi per l’amore e la pietà per il vecchio… «È terribile ora avere dei figli della vostra età». Ogni suo passo parlava di angoscia e di abnegazione, ed il figlio alto e lontano sentiva che non avrebbe mai potuto ripagarlo, nemmeno in parte centesimale, nemmeno col conservarsi vivo. L’unica maniera di ripagarlo, pensava ora, sarebbe stata d’amare suo figlio come il padre aveva amato lui: a lui non ne verrà niente, ma il conto sarà pareggiato nel libro mastro della vita. Tremava per la voglia ed il disegno di riceverlo bene, adeguatamente, ma come il padre si sottrasse alla sua vista imboccando i primi scalini della villetta, allora Johnny automaticamente e con una grinning ansia, pensò se aveva portato le sigarette.

il punto, esattamente

«

Che cosa deve succedere perché la sinistra invece di partire da questo continuo e insopportabile parlare di sé e dei suoi organigrammi si decida a tentare una nuova analisi della realtà? Dico realtà. Cioè non il chiacchiericcio riformista e politologico di questi anni, e nemmeno solo voti, modi di pensare, giustissime considerazioni sulla nostra debole presenza in molti territori. Dico mutazione dell’identità nazionale, crisi dello stato di fatto, cioè dell’essere sociale e culturale degli italiani. Calma e gesso. Evitiamo di drammatizzare.

La nostra sconfitta consiste in questo stare solo sulla cronaca politica, quasi ignari di processi più di fondo. Ma nemmeno la destra vince. Il «sultano» che non risponde ai giudici e alle regole perché sarebbe l’eletto del popolo ha preso solo il 32% dei voti espressi. E se calcoliamo l’astensione, scopriamo che solo 17 italiani su 100 hanno votato per lui. La Lega avanza in una delle regioni più ricche del mondo (il Nord d’Italia: 20 milioni di abitanti) mentre la Campania e la Calabria ritornano sotto il pieno controllo di forze senza volto.

Sono cose che dovrebbero spingere a pensare la politica, non come la «tabula rasa» di ogni ideologia, ma come invece è: un problema di idee di visione del futuro di impegno morale. Le solite chiacchiere di un vecchio comunista? Forse. In realtà stiamo assistendo a qualcosa che era in atto da tempo (vedi gli inutili articoli di Alfredo Reichlin) ma che configura ormai una sorta di cambiamento in diretta della fisionomia storica e culturale del Paese che abitiamo. Quindi la domanda che le cose rivolgono alla politica e ai partiti compreso il nostro, è chiara: dove pensiamo di riposizionare l’Italia, non come singole regioni (i famosi «territori») ma come organismo vivente capace di tenere insieme veneti e calabresi?


Esattamente la domanda che Galli Della Loggia ha posto alla Lega: riuscirà questo partito di Bossi a trasformarsi in una forza in grado di elaborare una prospettiva non solo «padana» ma nazionale? Forse se questa domanda, alla quale la Lega non è assolutamente in grado di rispondere, ce la ponessimo noi, potremmo – dico forse – assistere al miracolo: i capi di questo partito che smettono di piangersi addosso e che cominciano a tirarsi su i pantaloni per discutere tra loro, non sul chi comanda, ma sul fatto che una grande prateria si è aperta davanti a noi: la necessità di elaborare una nuova «idea nazionale». Non è poco ma questo bisogna fare. E farlo con la serietà e l’umiltà di chi sa che nessuno ha già le risposte e che queste vanno ricercate insieme, formando cioè un «gruppo dirigente», plurale ma coeso perché consapevole della missione che gli è capitata addosso.

Vogliamo davvero ritornare alla politica come impegno morale? Questa è la strada. Non bastano le poesie di Niki Vendola. Ci vogliono idee. Ecco ciò che voglio dire in sostanza ai giovani. Fatevi avanti, ma tirate fuori qualche idea forte oltre al certificato di nascita. La storia non ci dice che età avesse Giolitti al suo avvento, ma ricorda che idee mise in campo: riconobbe i diritti del mondo del lavoro, concesse il suffragio universale maschile, riformò il vecchio Stato sabaudo e reazionario. Del resto anche Berlusconi vinse dieci anni fa sulla base di idee nuove, sia pure perverse, sulla società degli individui e sulla sostanza del potere. Il paradosso attuale è che tutti invocano svolte, rinnovamento, addirittura «papi stranieri» (i quali sotto la regia di Ezio Mauro dovrebbero prendere in mano il Pd) ma non dicono dove stia il banco di prova di questo famoso rinnovamento.

Sta qui, cari amici. Sta nello scenario storico italiano davvero nuovo e denso di interrogativi inediti che il voto ha spalancato davanti ai nostri occhi. Dunque è qui dove si fissa finalmente in modo chiarissimo l’asticella dell’alternativa. Molta chiacchiera «riformista» di questi anni è alle nostre spalle. L’alternativa si fissa qui, dove è tornato in gioco l’assetto dello Stato repubblicano definito dalla mia generazione a prezzo di molto sangue e molti sacrifici. Non è affatto inevitabile la rottura dello Stato. Ma le ragioni dell’unità nazionale devono essere rielaborate, e ciò in un più stretto rapporto con l’Europa e col mondo. Forse un assetto federalistico è ormai inevitabile. Ma se si slabbra il tessuto della nazione saranno i diritti democratici e quelli dei più deboli a pagare.

(Alfredo Reichlin, L’Unità, 7 aprile 2010)

»

Ci voleva un ottantenne.


Trovato grazie a Knut

epitaffio del poeta sincero

«Quando dico che per me la poesia è un linguaggio specializzato per specialisti (l’esiguo numero di lettori, perlopiù poeti, lo dimostra), rischio il linciaggio. L’idea che piace, che trova universale consenso, è che la poesia sia qualcosa che sta dentro ognuno di noi, un nebuloso sentire, viscerale e sublime, nobile e bello. Di quest’idea di poesia, malafede di editor e cinismo di giornalisti, hanno costretto Alda Merini, che versi pregevoli ne aveva pur scritti, a farsi rappresentante, se non incarnazione a tempo pieno. A quest’idea di poesia, in un impeto di ignoranza, la città di Milano ha conferito tutto il crisma dell’ufficialità».

Patrizia Valduga

la parola verde è nera

«Tuttavia a un certo punto si interruppe. Al pari di ogni giovane poeta, era immerso in una descrizione della natura; e, spinto dal desiderio di conferire al verde l’esatta sfumatura, cercò con lo sguardo (in ciò mostrando assai più audacia di tanti altri) l’oggetto medesimo, il quale era per l’appunto un cespuglio d’alloro che cresceva sotto la finestra. S’intende che, dopo di ciò, non riprese a scrivere. Il verde della natura è una cosa; il verde in letteratura è un’altra. Una naturale antipatia, si direbbe, regna tra la natura e le belle lettere; mettetele insieme e si prenderanno per i capelli. La sfumatura di verde che Orlando vide sciupava la sua rima e mandava a monte il metro.  Inoltre, la natura ha le sue astuzie. Basta che uno veda dalla finestra api e fiori, un cane che sbadiglia, il sole al tramonto, e pensi "quanti soli vedrò tramontare ancora" ecc. ecc. (pensiero troppo noto perché meriti d’essere qui svolto); e tosto lascerà cadere la penna, prenderà il mantello, uscirà a grandi passi dalla stanza, e incespicherà in un cofano istoriato. Perché Orlando era un tantino malaccorto.»

da Orlando, di Virginia Woolf.

segreteria pd: finalmente un candidato solido

«Gli ex diesse fanno fatica a capire. Quelli che per noi sono passi da gigante, come i passi in avanti fatti sul testamento biologico, per loro sono passettini. Noi non abbiamo una tradizione socialdemocratica o comunista. Non facciamo parte di un filone culturale. Noi abbiamo due appartenenze: una alla Chiesa, l’altra alla politica. Per me, come per Franceschini, per tutti noi cattolici, insomma, il vero "capo" è lui: il Papa. Per noi è il vicario di Dio in terra, e questo gli ex diessini dovrebbero alla fine comprenderlo.»

Pierluigi Castagnetti, sui problemi interni al PD.

nazisti dell’illinois

Quelli "a favore della vita" dicono che gli altri sono nazisti*. Ad esempio:

«Mentre la vecchia eugenetica dei regimi totalitari cercava di produrre cittadini fatti con lo stampino, il tratto distintivo della nuova eugenetica liberal è quello della neutralità dello Stato.»
Nicholas Agar (“Liberal Eugenics”)  

«La nuova eugenetica parla il linguaggio della privacy e della scelta. Le sue due virtù cardinali sono la compassione e il consenso. La compassione ci smuove ad alleviare le sofferenze ogni volta che è possibile. Il consenso richiede che questa compassione sia privatizzata. Inciampiamo in un coraggioso nuovo mondo di miglioramento eugenetico e di manifattura tecnologica degli esseri umani.»
Bill Kristol (editor di Weekly Standard).

Ma anche quelli "a favore della libera scelta" dicono che gli altri sono nazisti. Ad esempio gira da qualche giorno questo confronto casereccio (ma immagino se ne potrebbero fare di migliori):

«La vita non è un bene che appartiene solo al singolo individuo, ma ai cittadini, alla collettività.» (Dorina Bianchi, senatrice PD, all’indomani della morte di Eluana Englaro)

«Che cos’è la vita? La vita è la nazione. L’individuo è, in ogni caso, destinato a sparire. Di là dalla vita dell’individuo, c’è la nazione.» (Adolf Hitler, Cancelliere del Terzo Reich, all’indomani della sconfitta tedesca a Stalingrado)

Qualcuno mente, è chiaro. O no?

*eugenetica e nazismo sono sovente trattati come la parte e il tutto.

cattivi maestri, coi controcazzi

Ci vorrà pure qualcuno che in mezzo alla marea di cazzate a ruota, fa il punto della situazione.

A me è capitato già altre volte, in tempi persino remoti, di ascoltarlo e ben fatto da questo signore qua. Per cui, tratto da Nazione Indiana, col permesso dei titolari, si ripropone qui in versione integrale un intervento "di piazza" fatto proprio in questi giorni dal suddetto omino.

Secondo me, nel silenzio del frastuono generale, possiamo anche sprecare un post dei nostri bloggetti di ‘sta cippa per farlo leggere, o non leggere, un po’ come a volte si ascolta Van Morrison che urla sopra i violini, l’unico grido serio è quello sguaiato contro l’affondamento. Per una volta niente languori autunnali o isole famose, please.

Toxic asset – toxic learning
di Sergio Bologna

(dopo un incontro all’Università di Siena, organizzato dal Centro ‘Franco Fortini’ nella Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008)

"

State vivendo un’esperienza eccezionale, l’esperienza di una crisi economica che nemmeno i vostri genitori e forse nemmeno i vostri nonni hanno mai conosciuto. Un’esperienza dura, drammatica, dovete cercare di approfittarne, di cavarne insegnamenti che vi consentano di non restarvi schiacciati, travolti. Non avete chi ve ne può parlare con cognizione diretta, i vostri docenti stessi la crisi precedente, quella del 1929, l’hanno studiata sui libri, come si studia la storia della Rivoluzione Francese o della Prima Guerra Mondiale.

Ho letto che l’Ufficio di statistica del lavoro degli Stati Uniti prevede che nel 2009 un quarto dei lavoratori americani perderà il posto.
Qui da noi tira ancora un’aria da “tutto va ben, madama la marchesa”, si parla di recessione, sì, ma con un orizzonte temporale limitato, nel 2010 dovrebbe già andar meglio e la ripresa del prossimo ciclo iniziare. Spero che sia così, ma mi fido poco delle loro prognosi.
 
Torno da un congresso che si è svolto a Berlino dove c’erano i manager di punta di alcune delle maggior imprese multinazionali, con sedi in tutto il pianeta, gente che vive dentro la globalizzazione, che dovrebbe avere il polso dei mercati, gente che tratta con le grandi banche d’affari e con i governi. Mi aspettavo un po’ di chiarezza, qualche prognosi meditata. Balbettii, reticenze, sforzi per minimizzare, qualcuno che fa saltare la conferenza all’ultimo minuto perché richiamato d’urgenza. Pochissimi quelli che hanno parlato chiaro dicendo che la cosa è molto seria, che nessuno sa come andrà a finire e che le conseguenze potrebbero essere catastrofiche.

Ma voi vi occupate – giustamente – dei tagli alla spesa universitaria e tutti vi applaudono, docenti in testa e politici d’opposizione e magari anche qualcuno della maggioranza, siete scesi in piazza autonomamente e tutto sommato tira un’aria di consenso attorno a voi. Non era così nel ’68, forse perché allora un po’ di violenza c’era, in parte provocata dal comportamento dello stato o delle forze dell’ordine. Ma quel che di buono c’era allora, di eccezionale, era la grande voglia di capire il mondo che avevano gli studenti. In Francia erano partiti dalle tasse universitarie, dal discorso della riforma degli studi ma tutto sommato quel che volevano era molto di più, volevano darsi gli strumenti per cambiare le cose, volevano capire cosa succedeva nei paesi comunisti, o nell’America Latina dove sei mesi prima Che Guevara ci aveva lasciato la pelle, volevano capire a cosa portava la politica di Piano del governo gollista, che cos’era un sindacato operaio, volevano vedere come funzionava una fabbrica e come parlavano gli operai dentro, come funzionava un ospedale e come venivano trattati i malati. E’ questa grande voglia di sapere, questa sconfinata ambizione di sapere, questa utopica sfida alle capacità della propria conoscenza, che io non vedo tra di voi. O, meglio, che all’esterno non si vede, non si percepisce.

Volete salvare l’Università, così com’è? Spero di no. Com’è oggi non vale una messa, come si dice. Oggi si taglia malamente, d’accordo, ma ieri si è speso peggio e tutti i governi ci hanno messo del suo. L’Università si è allargata come un virus, qualunque cittadina con un sindaco un po’ dinamico riusciva ad avere il suo pezzetto d’Università. L’Università come retail. Alla qualità della spesa nessuno ha pensato e ben presto è nato il sospetto che questo meccanismo dilatatorio non fosse – come ci raccontavano – animato dalla nobile intenzione di fare della conoscenza una merce a portata di mano ma dal meschino proposito di creare cattedre con il loro corollario di posti precari e malpagati. Se non temessi d’essere frainteso vi direi: “La difendano loro questa Università, i professori”. Voi che c’entrate? Avete mai avuto modo di partecipare sia pure alla lontana alle decisioni che sono state alla base della configurazione dell’Università com’è oggi? Finora, con le vostre tasse avete pagato un servizio sulla cui qualità ed efficienza non esistono parametri di valutazione di cui possiate disporre per chiederne il miglioramento. “Mangia questa minestra o salta da quella finestra”. E quasi uno studente su due salta, il tasso di abbandono nell’Università italiana – leggo sul sito www.lavoce.info – è vicino al 50%. E chi inizia gli studi e li abbandona sapete bene che è un soggetto ad alto rischio di disadattamento. Una volta, quando la lingua italiana aveva ancora un tono popolare, si diceva “E’ uno spostato”.

“Gli studenti italiani potrebbero fare causa a metà degli atenei italiani per i servizi che offrono”, scrive Roberto Perotti, nel libro L’Università truccata (Einaudi, Torino 2008) – un libro che spero tutti voi abbiate almeno scorso. A leggerne le prime 90 pagine vien da pensare che qualche abbandono può essere stato provocato dallo schifo di fronte a certe situazioni di nepotismo e di corruzione. Un libro che sfata alcuni miti, che combatte alcuni luoghi comuni, come quello delle scarse risorse dedicate in Italia all’Università. Sono scarse se si calcola l’ammontare della spèsa diviso per il numero di studenti iscritti ma se invece si assume come parametro non il numero degli iscritti ma di quelli che frequentano veramente a tempo pieno, l’Italia sarebbe ai primi posti nel mondo.

Ma molti di voi potrebbero dirmi che la lotta contro i tagli al budget universitario è solo un veicolo per esprimere a livello di massa e con facile consenso opposizione al governo Berlusconi. Dunque non di bassa cucina si tratterebbe, non di volgari valori economici, ma di alta politica. E come nel ’68 gli studenti francesi avevano lottato in definitiva contro il Generale De Gaulle, così quarant’anni dopo gli studenti italiani lotterebbero contro il Cavaliere Berlusconi. (Per inciso debbo dire che mai due si sono assomigliati di meno, il Cavaliere anche coi tacchi rinforzati non sarebbe arrivato alla cintola del Generale, l’uno alto alto, rigido e solenne come una statua di cera, l’altro piuttosto basso e tarchiato, gesticolante a dentiera scoperta). Ma se questa è l’alta politica che vi spinge all’azione mi sentirei in tutta franchezza di dirvi “scegliete un percorso diverso” perché altrimenti rischiate di farvi usare come carne da macello da coloro che condividono con la Destra il pensiero strategico sottostante alle scelte economiche della Seconda Repubblica e dunque sono sostanzialmente corresponsabili della crisi attuale e delle sue conseguenze future. Ciò che minaccia il vostro futuro non è soltanto il governo della signora Gelmini ma un pensiero economico bipartisan che non ha mai saputo né voluto mettere vincoli o imporre regole a una gestione del sistema finanziario dove nulla ormai assomiglia a un mercato ma tutto assomiglia a un gioco d’azzardo con i soldi dei lavoratori e della middle class che vive del proprio lavoro. Un sistema che è stato capace di creare ricchezza fittizia e di distruggere ricchezza reale in misura mai vista nella storia recente. Un sistema la cui follìa era già evidente a tutti almeno dallo scoppio della bolla del 2001, un sistema che premiava i manager che gestivano le imprese non per farle crescere ma per farle dimagrire, aumentandone il valore di borsa a furia di licenziamenti del personale, per rivenderle e intascare fior di premi e plusvalenze. Un sistema che in nome dell’efficienza e della competitività distruggeva soprattutto le competenze, il capitale umano (quando si licenzia per diminuire l’incidenza dei salari si comincia dalle posizioni meglio retribuite, cioè dagli impiegati e tecnici più anziani e con maggiore esperienza). Un sistema che ha riprodotto nella società le abissali differenze di reddito esistenti nelle grandi aziende (manifatturiere o di servizi che siano) e che quindi ha ridotto l’Italia in un paese con i maggiori squilibri tra la parte più ricca e quella meno ricca della popolazione, come ben testimonia l’indagine Bankitalia sulle famiglie italiane. Un sistema che ha consentito

“a chi lavorava nella finanza di guadagnare già nel 2000 il 60 per cento in più rispetto agli altri settori” – scrive Esther Duflo, che insegna al MIT di Boston – e aggiunge:
“Il problema delle remunerazioni è stato ovviamente affrontato negli Stati Uniti quando si è discusso il piano Paulson, che autorizza il governo americano a spendere 700 miliardi di dollari per acquistare i toxic asset rifiutati dai mercati. Sembra ingiusto far pagare ai contribuenti il disastro creato da coloro che in un’ora guadagnavano 17mila dollari”,

e conclude il suo intervento con queste parole:


“Osservando gli avvenimenti di questi giorni vien voglia di mandare a casa certi nostri amministratori delegati del settore finanziario. Speriamo almeno che la fine dei guadagni esorbitanti incoraggi i giovani a dedicarsi ad altri settori dove i loro talenti potrebbero essere più utili alla società. La crisi finanziaria potrebbe farci cadere in una recessione grave e prolungata. L’unico vantaggio potrebbe appunto essere quello di un migliore impiego dei nostri giovani più dotati”.

Le elezioni americane, portando alla presidenza Barack Obama, sono state una bella reazione a questa insopportabile situazione e fareste bene a riflettere in seminari di autoformazione su quel che è accaduto negli Stati Uniti. Tutta la stampa e l’opinione corrente è unanime nel dire: “E’ accaduto un fatto nuovo perché è stato eletto un nero, un afroamericano”. Soliti giudizi superficiali, da semianalfabeti della politica. Queste elezioni sono state importanti perché dopo circa 30 anni – dai tempi di Reagan – la tematica di classe è stata al centro del dibattito. Non del proletariato, ma della middle class (di cui fanno parte anche strati operai di grande fabbrica), cioè di quel ceto medio che per più di un secolo ha fatto da collante alla credibilità dell’american dream e che da alcuni anni – proprio in conseguenza dei processi scatenati da una forma di capitalismo senza regole e senza etica, un capitalismo di avventurieri e di giocatori d’azzardo – ha subìto un processo d’impoverimento che non trova paragoni se non nella grande crisi del 1929. Contro questa tendenza alla disgregazione sociale e all’impoverimento della middle class hanno cominciato a battersi da alcuni anni molte iniziative civiche (tra le tante quella messa in piedi dalla nota giornalista e scrittrice Barbara Ehrenreich con il sito www.unitedprofessionals.org). Barack Obama ha colto questo disagio, questo malessere, e ne ha fatto il suo tema dominante. Non ha parlato, come ormai ci hanno abituato questi bolsi, stucchevoli, “politicamente corretti” leader della cosiddetta Sinistra, di “quote rosa”, di gay, non ha parlato di bianchi e di neri, di aiuole pulite e di biciclette, è andato al sodo, ha puntato il dito sui disastri del neoliberalismo selvaggio, ha fatto per la prima volta dopo 30 anni un discorso di classe. E ha vinto riuscendo a portare alle urne anche i giovani, che al 70% hanno votato per lui. Ha colto la grande tendenza dell’epoca, quella che da tempo cerco di chiarire a me stesso ed agli altri nei miei scritti sul lavoro (l’ultimo mio libro si intitolava “Ceti medi senza futuro?” e non se l’è filato nessuno).

Sono convinto che la lotta che state conducendo potrebbe essere utile a voi stessi e agli altri se ne approfittaste per crearvi un vostro sistema di pensiero, per procurarvi strumenti critici in grado di capire com’è accaduto quel che è accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in questi ultimi vent’anni hanno dominato l’economia, senza che venissero contestati né da Destra né da Sinistra – a parte qualche voce isolata di studioso. “Un sistema che si autoregola, per questo esistono le Authorities” – recitava la litania liberista in questi anni. Balle! Basterà dire che lo scandalo Enron, che spesso viene portato ad esempio della severità con cui il sistema USA punisce le aziende dal comportamento irregolare, non sarebbe mai scoppiato se una donna che era membro del Consiglio di Amministrazione non avesse deciso di “cantare”, di svelare gli imbrogli. Una “gola profonda” è stata all’origine di tutto, non certo l’FBI! Negli anni della forsennata privatizzazione (1992/93) con cui l’Italia ha messo nelle mani di nuovi raider della finanza immensi patrimoni pubblici (leggetevi a questo proposito il libro di Giorgio Ragazzi I signori delle autostrade, Il Mulino, Bologna 2008 – ma lo stesso se non peggio potrebbe dirsi di Telecom), suggellando il suo “golpe bianco” con l’accordo sindacale del luglio 1993 grazie al quale oggi abbiamo i salari d’ingresso più bassi d’Europa, non erano certo personaggi della nuova Destra a menare la danza ma uomini come Romano Prodi ed altri ex manager pubblici. A beneficiarne sono stati i Tronchetti Provera, i Benetton, i Colaninno, i Gavio – li ritroviamo tutti guarda caso oggi nella vicenda Alitalia. L’Università di Siena ha la reputazione di essere un centro di eccellenza nelle discipline economiche e bancarie. Vi hanno mai parlato di queste storie e come ve ne hanno parlato? E della crisi odierna che vi dicono? Che è una solita crisi ciclica, forse un po’ più acuta ma in sostanza è tutto normale, razionale, un po’ di eccessi magari ci sono stati ma il sistema è saldo, è sano. Questo vi dicono? Non vi dicono che questo sistema, questi meccanismi, creano, stabilizzano, consolidano le disuguaglianze sociali, le ingiustizie sociali? Non vi dicono che questo sistema umilia, calpesta le competenze, il capitale umano? Che è l’esatto contrario della knowledge economy di cui si riempiono la bocca, l’esatto contrario di un sistema meritocratico? E se non ve le dicono queste cose, se continuano a raccontarvi le solite favole di Cappuccetto Rosso, se continuano a farvi flebo d’ideologia liberista – allora mandateli loro a protestare nelle piazze per i tagli all’Università.

Questa vostra lotta ha un senso se è un passo in avanti, se diventa atto costitutivo di un processo di autoformazione.

Quel che è avvenuto in questi mesi non è mai accaduto nell’ultimo secolo e cioè che istituzioni e persone le quali hanno prodotto danni incalcolabili (pensate soltanto ai fondi pensione che si sono volatilizzati con questa crisi!) invece di essere punite ed i loro beni sequestrati, sono state salvate senza che lo stato, che ha fornito i mezzi per salvarle, assumesse il controllo di queste istituzioni. Un regalo di enormi proporzioni agli avventurieri, ai ladri, una terribile lezione morale per le nuove generazioni. (Non che la gestione pubblica sarebbe stata migliore, in Germania le peggiori nefandezze le hanno commesse alcune banche pubbliche come la Landesbank della Baviera).

C’è stato qualcuno che vi ha chiamato in piazza per opporvi a questa vergogna?
Ma ha ragione in un certo senso anche chi dice: “che cosa si poteva fare d’altro?” Nessuno infatti ha saputo o voluto in questi anni immaginare una società diversa che non fosse un’utopia. Alternative globali nessuna, solo strategie di sopravvivenza. Ed è sostanzialmente questo che vi propongo anch’io: costruendo percorsi comuni di autoformazione costruite anche delle reti, vi liberate pian piano dalla costrizione all’isolamento, dall’individualismo e soprattutto dall’illusione che “una buona preparazione universitaria”, corredata magari da qualche corso o master post laurea, possa mettervi al riparo dalla crisi, dalla sottoccupazione o dall’umiliazione di vedervi trattati dal datore di lavoro come un puro costo.
In un paese dove i salari d’ingresso, quelli dei primi assunti, sono i più bassi d’Europa, la preparazione conta assai poco. I precari, i lavoratori a tempo determinato, hanno delle remunerazione parametrate su quelle dei primi assunti. Dunque anche loro sono pagati peggio che altrove. E le vostre generazioni rischiano di andare avanti con lavoretti precari fino ai 40 anni. Pertanto è pura demagogia quella di coloro che parlano di democratizzazione degli accessi, che difendono di questa università il fatto che possono iscriversi anche i figli di famiglie povere. Il problema non è la massificazione della popolazione studentesca ma il fatto che il capitale umano di un laureato non vale una cicca sul mercato del lavoro! O i giovani riacquistano un minimo di forza contrattuale sul mercato del lavoro oppure l’università sarà solo un frigorifero di disoccupati, un osceno apparato di puro controllo sociale. Pesanti le responsabilità sindacali per questa situazione. Miope e meschina la strategia del padronato italiano da vent’anni a questa parte. Squallido il mondo dell’informazione che su questa realtà tace o si sofferma di sfuggita. Quarant’anni fa gli studenti sono andati nelle fabbriche, negli uffici, nei laboratori di ricerca, negli ospedali, nelle aule dei tribunali, nelle redazioni dei giornali a vedere come funziona il mondo reale, non si sono accontentati di lasciarselo raccontare, non hanno fatto visite guidate. Ficcatevi nei processi reali ovunque se ne presenti l’occasione! Usate la grande risorsa del web per procurarvi le notizie alla fonte, per attingere a visioni critiche del mondo, anche se questo esercizio talvolta vi costringe a rovistare nella spazzatura di Internet. Gli Stati occidentali che hanno smantellato i sistemi di welfare si sono ridotti a ingoiare toxic asset, voi cercate di non inghiottire toxic learning! Avrete già fatto un passo in avanti per vivere meglio.
Organizzate incontri con quelli che hanno alcuni anni più di voi, fatevi raccontare come vengono accolti dal mondo del lavoro, quando escono dall’Università. Frequentate i blog dove la gente racconta le proprie esperienze di lavoro, chiedetevi seriamente se val la pena di studiare in un’Università com’è fatta oggi oppure se non sia meglio costruire processi di autoformazione e di controinformazione. Scatenate la fantasia nel creare un’estetica della protesta, efficace, aggressiva, non ripetitiva, le forme della comunicazione sono state uno degli strumenti vincenti delle lotte del proletariato nel Novecento, ripercorrete le spettacolari performances degli occasionali dello spettacolo francesi che hanno tenuto duro per un paio d’anni, buttate nella spazzatura vecchi slogan, scanditi stancamente, parole d’ordine che sono ormai diventate banalità che fanno venire il latte alle ginocchia. Ai vostri colleghi che affollano le facoltà di comunicazione non viene nulla in testa?

Ho insegnato all’Università per quasi vent’anni, quando mi hanno cacciato non ho fatto nulla per restare, per difendere la mia cattedra, gli ultimi due anni d’insegnamento li ho passati all’Università di Brema, ormai un quarto di secolo fa. Ci sono tornato in questi giorni perché un mio collega di allora prendeva congedo definitivo dall’insegnamento e andava in pensione un anno prima del termine previsto dalla legge in Germania. Aveva rinunciato, com’è d’uso, alla lectio magistralis. E nelle poche parole di congedo davanti a un centinaio di amici e colleghi ha voluto dire perché se ne andava in anticipo. “ho fatto il Preside di Facoltà in questi ultimi cinque anni, mi ci sono dedicato completamente, pensando di fare il mio dovere, non ho avuto tempo né di studiare né di tenermi aggiornato, non me la sento di tornare a insegnare per dire le stesse cose di cinque anni fa, non me la sento per onestà verso gli studenti”. Quanti docenti italiani farebbero lo stesso? Questi fanno i Ministri e poi tornano tranquillamente a insegnare, specialmente se vengono da governi di centro-sinistra. Malgrado l’Università italiana sia un luogo da cui sono contento di essermene andato, sia un luogo che umilia le intelligenze invece di stimolarle, credo che siano ancora tanti i docenti e molti i ricercatori con i quali voi potete stabilire un patto di formazione negoziata. Le dinamiche di coalizione che si creano durante un processo rivendicativo, durante una protesta che chiede la restituzione di qualcosa – come la maggior parte delle proteste che nascono da situazioni difensive e non da un’iniziativa preventiva – sono molto fragili e rischiano d’impoverirsi e irrigidirsi, troppo focalizzate sull’obbiettivo. Pertanto occorre pensare ad attivare processi di continuità, svincolati dall’obbiettivo. Francamente, se la 133 viene ritirata la vostra condizione di fondo non cambia. E’ questa condizione che dovete cambiare.

"

niu italian pallist

«Sono un attore, dico delle gran palle, dove però c’è più verità che nei fatti» (Paolo Rossi).

Che nei fatti. Ecco, da lettore mi permetto di consigliarla ai giovani scrittori italici. Sarebbe una bella e assai nobile dichiarazione di poetica. Come diceva Fortini, la letteratura è una menzogna che dice il vero.

il vizio della retorica

A.
Sono alto 1,55 e volevo fare il giocatore di basket. Ma per fare il giocatore di basket in questo Paese devi solo essere raccomandato. Bastardi, vergogna, dovete morire tutti.

B.
Questo è il Paese dei furbi. Sì, ho fatto il furbo. Ma lo fanno tutti. Quindi non ho fatto proprio niente di male.

La retorica sui vizi italiani è un vero e proprio genere, di origine aristocratica e dotato di lunga tradizione (se ne parla oggi su Repubblica a proposito del libro di David Bidussa Siamo italiani, in uscita in questi giorni – non online). Gli italiani sono poveri ma belli, gaglioffi ma simpatici, disillusi ma brava gente. E ancora, o furbi o fessi. Pavidi ma sbruffoni. Servi ma stronzi. Si può continuare, del resto il luogocomunismo è un’arte.
È una retorica che, nella sua versione volgarizzata ad opera dei media popolari – dal giornalismo al cinema alla saggistica di costume, che ripetono un poco pavlovianamente secoli di storia letteraria – e curiosamente data in pasto a chi dovrebbe in teoria esserne l’oggetto, presenta le due facce di cui sopra: A. depressa e vittimistica; B. cinica e opportunista.

Questa retorica, che confonde antropologia e storia, fa probabilmente più danni dei vizi stessi, che peraltro difficilmente sono "italiani", o uzbeki, o neozelandesi. Anzi, probabilmente questa retorica "è" il vizio stesso, non antropologico ma culturale, o almeno il suo alibi migliore.

urlare negri ad harlem

Un encomio al sito del La Stampa per non aver cancellato i cento e passa commenti di reazione a un pezzo caustico ma anche amaro di Andrea Romano su Beppe Grillo. Com’è noto, a parte il piacere della lettura, il valore sociologico di queste testimonianze è pressoché nullo o almeno simile a quello degli insulti che gli italiani si scambiano in automobile o per interposta parete del cesso pubblico. Non credo che la loro lettura aggiunga qualcosa a quel che ognuno pensa o non pensa di Beppe Grillo. Per fortuna di Beppe Grillo, credo.

(l’unica cosa che non capisco bene è la quantità esorbitante di riferimenti derrière. Tutto un fiorire di culo, leccaculo, prendilo in culo, sodomizzare, merda e via così. mah)

(riflessione semiseria: è curioso che, in questa enfasi generale sul ruolo di internet nella promessa di una nuova democrazia, in quei commenti una delle accuse più ricorrenti e rabbiose – e la rabbia pare qui proporzionale alla frustrazione che esprime – sia al giornalista come detentore del privilegio della parola. anche qui qualcosa non torna, no?)