l’eterno ritorno dell’onda

Vi segnalo qui tre agili documenti che riportano gli esiti dell’assemblea studentesca alla Sapienza del 15 e 16 novembre, il cui ordine del giorno era la formulazione di proposte di autoriforma dell’università. Li segnalo perché mi sembrano un documento a suo modo significativo.

Che dire… L’impostazione mi pare identica a quella di 20 anni fa, la “famosa” Pantera (lo so, c’ero…), che a sua volta era identica a quella di 20 anni prima, il che non è esattamente una bella cosa, secondo me. Non ho una conoscenza diretta delle dinamiche interne di questo movimento, non so dire quanto questi documenti lo rappresentino realmente, ma dai contenuti e dalla forma saprei dire con esattezza dal solco di quale tradizione viene il personale politico coinvolto nella loro stesura (forse anche da quali correnti interne di quella tradizione…). Dato che non ho contatti diretti con quegli ambiti da molti anni, anche questo non è un bel segnale, direi. Tutto muta, ovunque. Tranne in Italia.

Ma se dovessi fare una sintesi estrema di cosa non funziona, in questi testi, direi così: oggi, come allora, si insiste nell’errore di trattare l’università come uno strumento di mobilità sociale (far sì che chi nasce da famiglia povera non sia condannato a rimanere povero), quando andrebbe considerata semmai quasi un effetto di questa avvenuta mobilità. Il fatto che un individuo di classe bassa o medio bassa arrivi all’università e la frequenti con successo, aumentando quindi di molto le sue possibilità di reddito futuro – almeno in un Paese normale – dovrebbe essere il segnale che tutto il welfare precedente ha funzionato come si deve, e non invece la toppa paracula e ideologica per un welfare che fa acqua da tutte le parti, col risultato che la toppa accresce il buco e l’università si adegua al malfunzionamento generale. Chi ci rimette in questo caso, i ricchi o i poveri?
Questo errore è presente in ogni riga di questi documenti, purtroppo.

Certamente, l’università dovrebbe essere un’istituzione di alta formazione di qualità ed eccellenza massime, cui tutti i meritevoli dovrebbero poter accedere a prescindere dalla loro condizione di origine. Ma se l’obbligo scolastico scade a 14 anni (o 16, non è ancora ben chiaro…), è palese che essa non può che fallire nel 100% dei casi qualora intenda porsi come strumento di riscatto – chi doveva fare il salto fuori dalla propria classe sociale grazie all’istruzione e non c’è riuscito, ha già lasciato la scuola da un pezzo. Quindi l’idea che l’accesso non debba essere ristretto ai meritevoli, purché non censiti con metodi di classe, ma consentito letteralmente “a tutti”, o è vuota, una pura ovvietà, o è cretina, esprimendo un’idea di “cultura umanistica come massima espressione della civiltà umana” (ergo, gli altri sono subumani) fasulla, retorica e ricostruita a esclusivo beneficio baronale.

Le agenzie su cui spendersi con vigore per favorire la mobilità sociale – per far sì cioè che “meritevole” non sia più sinonimo di “ricco” – sono altre, evidentemente. Questi documenti avrebbero senso se riguardassero la scuola primaria. Non ne hanno riguardando l’università. È noto e studiato: conta infinitamente di più l’asilo nido per intervenire sul destino scolastico delle persone, spesso già segnato in prima elementare a causa delle condizioni familiari, che non l’università. E non a caso in Italia c’è poca mobilità sociale e ci sono anche pochi asili nido; e ci sono pochi o nulli strumenti di sostegno al reddito a prescindere dal lavoro.
(Però, per motivi la cui causa storica va ricercata nel difetto d’origine del welfare italiano familista e clientelare, si spendono due terzi dei soldi del welfare in pensioni, cioè nell’istituto che per definizione è il meno adatto a promuovere la mobilità sociale, essendo di tipo assicurativo e non redistributivo – più versi più ricevi, con una sperequazione che fino a poco tempo fa addirittura aumentava assieme al reddito; viceversa non hai niente da versare, non riceverai niente).
E malgrado gli alti gridi, non è nemmeno vero che in Italia si spenda meno in finanziamenti all’università rispetto alle medie europee, come ha sufficientemente dimostrato Perotti: correttamente calcolati, questi finanziamenti sono equivalenti a quelli dei maggiori Paesi occidentali.

Da quel primo errore, nei documenti in questione, derivano a ruota tutti gli altri:

l’idea che le tasse dirette non vadano alzate anzi vadano azzerate – buon dio, ma l’università è già pagata con le tasse, comprese le tasse della maggioranza di italiani che non riescono a mandare i figli all’università, ed escluse quelle degli evasori fiscali, e questo sarebbe più equo che farne pagare una quota maggiore a chi ci va effettivamente avendone tutte le possibilità, esentando dal loro pagamento con appositi strumenti esistenti in tutto il mondo chi non può permettersele, e garantendo così risorse aggiuntive agli atenei?;


l’idea piuttosto demenziale che non siano desiderabili strumenti quantitativi di misurazione dell’operato di docenti e atenei nell’allocazione selettiva delle risorse – traduzione: libertà di pagare di più i docenti o i ricercatori più bravi e di dare più soldi alle università che investono in qualità, il tutto sulla base di misurazioni il più possibili oggettive. Cito: «L’autonomia della ricerca e la qualità dell’università pubblica non possono essere disgiunte dalla realizzazione di un nuovo concetto di valutazione. Tale concetto, più complesso della combinazione di indici presuntamente quantitativi, non deve essere legato al contenimento del bilancio, alla produzione di brevetti o al semplice numero delle pubblicazioni. Pensiamo che la valutazione debba essere intesa anche come rendicontazione sociale delle attività degli atenei e del sistema nel suo complesso, che non possa prescindere dai contesti territoriali in cui le università sono inserite».

Ora, non è che sia proprio chiaro cosa voglia dire, ma il sospetto è che proposte animate da buone intenzioni come queste siano come mettere la freccia “ingresso” a tutti i clientelismi e nepotismi del mondo – «Sì, facciamo ricerca del cazzo, non ci cita nessuno e pubblichiamo solo nelle riviste del circondario, però abbiamo un gran bel rapporto col territorio! Abbiamo partecipato anche alla sagra dello gnocco fritto studiando i diversi gradi di cottura in modo scientifico, il tutto finanziato dal locale assessore Minchialoni!». Per l’appunto. E a cosa si deve tutto questo? A una sorta di idiosincrasia al funzionamento “aziendale” visto come mercificazione, idiosincrasia che ha riflessi di irrazionalità completa: per quale motivo sarebbe preferibile un servizio pubblico che funziona male, a chi mai potrebbe giovare? Dove sta scritto che migliorare l’efficienza significa abbassare la qualità?;

e così via, nel grande come nel piccolo, che lascio alla vostra lettura (non senza segnalare punte di umorismo surreale, come rivendicare il rifiuto dell’obbligo di presenza ai corsi perché “sottopone gli studenti a un controllo sui tempi di vita”. Ma vaffanculo, va).

Purtroppo nessuna delle proposte formulate è in grado di intervenire sui malfunzionamenti più evidenti:
– scarsa, a volte molto scarsa qualità dell’insegnamento e della ricerca;
– scarso ruolo “di sistema” come volano economico per i singoli e per le organizzazioni (traduco: chi si laurea in Italia guadagna ormai meno di chi non si laurea, e le imprese non finanziano e non usano la ricerca mantenendo il Paese nello stato di arretratezza di cui si giovano le poche famiglie monopoliste e parassite che ne posseggono quasi in toto l’economia. Altro che rischi di commistione tra ricerca e interessi privati!);
– selezione dei docenti sovente non basata sul merito (i migliori nemmeno si presentano);
– possibilità di far carriera legata più ad anzianità e appartenenza che non alle capacità;
– nepotismo esasperato;
– scarsa produttività generale in termini di laureati;
– scarsissima presenza tra gli studenti di individui provenienti da classi di reddito basse.

Purtroppo non si tratta di un’alternativa credibile ai puri tagli travestiti da riforme del ministro Gelmini.

L’università rivendicata da questi documenti, che puntano tutto su un egualitarismo piuttosto parolaio che reale e su un diritto allo studio da proclama alle masse è, ahimé, esattamente l’università che già c’è, cioè una tra le più retoriche, clientelari, scadenti e classiste dell’occidente.

18 thoughts on “l’eterno ritorno dell’onda

  1. Ecco qua. Non ho nemmeno curiosato tra i documenti prodotti dall’onda, dal tuo resoconto la pantera (che vivetti, ahimè) fu esattamente uguale: malata del conservatorismo egualitario a chiacchiere di chi poteva permettersi di perdere qualche mese a giocare prima di rimettersi a non studiare con l’alacrità di prima.

    Ora vo a togliere il banner dal blog, ché me ne vergogno un poco.

  2. l’ottimo rectoverso ha una missione da compiere e non perde tempo con certe pippe.

    quanto al resto, capisco che non tutto può interessare a tutti e me ne faccio una ragione. capisco meno poi l’esprimere opinioni su cose che non si conosce per nulla, ma anche in questo caso, chi è senza peccato

    bg

  3. la tua decostruzione del documento della Sapienza è interessante, ci sto ragoinando anche anche io in questi giorni. Il problema è che il tuo ragionamento non supera appieno il loro, su alcuni punti critici ti poni come speculare ai loro errori.

    E’ inutile negare che negli ultimi 20 anni il concetto di efficienza è stato ridefinito in senso aziendalistico. La schizofrenica fobia dell’efficienza da parte dei molti stereotipi mucciniani che hanno redatto questi documenti è certo sbagliata, visto che l’efficienza si può ridefinire, ma è prodotto di una condizione reale. E tu è inutile che fai finta di nulla, è chiaro che efficienza e aziendalizzazione, qualsiasi cosa questo ultimo termine voglia dire, non sono sinonimi a priopri. Ma possono diventarlo. E così come possono diventarlo possono anche diventare altro. Sarà detto male quanto vuoi, ma nel documento, forse incidentalmente, non ne ho idea, anche se è così poco discusso il punto a fronte della sua importanza concettuale che davvero potrebbe essergli uscito per caso, viene menzionata la necessità di ridefinire i criteri tecnici, valutativi etc. Dire questo è l’ammissione non solo che i criteri tecnici hano una componente politica, cosa che devi iniziare ad ammettere storcendo un po’ meno il naso, ma anche che questi criteri sono importanti e quindi vanno ridefiniti.

    Lo so, in realtà tutto questo viene giusto accennato in mezza riga a fronte di decine di righe spese a teorizzare improbabili teorie dell’autoeducazione autogestione autoriforma etcetc. Il tutto peraltro in palese contraddizione con le richieste di un bel contratto nazionale che ci irreggimenti tutti quanti nonchè di posti in senato accademico per ricercatori e dottorandi. E’ vero, ci sono montagne di stupidaggini e contraddizioni, ma ci sono anche cose vere, forse dette male.

    Non esci dal circolo vizioso anche quando ti rifugi sotto espressioni del tipo “egualitarismo a tutti i costi” (è un problema di elaborazione dell’egualitarismo, di come realizzarlo, non certo dell’idea in sè) oppure quando critichi il modello dell’università di massa riducendolo all’esperienza italiana, come se l’idea di per sè portasse per forza allo sfascio ed allo spreco. Anche questa è una falsa idea, esattamente come le fale idee del documento, esattamente come la facile associazione tra baroni e sapere umanistico che fai tu, esattamente come lo sbrigativo e disonesto glissare sui problemi della gestione pubblica del documento.

    Ti manca dialettica, resti imprigionato nella discussione.

  4. dunque, mi pare che tu ponga in astratto problemi dai contorni concreti e così imho fai un po’ di confusione.

    1) non è che in italia l’università sia stretta nella morsa di un’aziendalizzazione sfrenata che opera attraverso strumenti di valutazione quantitativi che immiseriscono il libero dispiegarsi della creatività ridicendo gli atenei a copie di una fabbrica taylorista, eh. Stiamo parlando di un’organizzazione con una mission pubblica, ad alto profilo etico, pagata con risorse di tutti, nella quale attualmente non opera ALCUNO STRUMENTO DI VALUTAZIONE. Un’organizzazione che non valuta in alcun modo la propria capacità di raggiungere i propri obiettivi, semplicemente non esiste in natura. Persino una comitiva di goliardi si pone il problema di costruire le proprie burle al meglio evitando gli errori delal volta precedente. L’università italiana no. In realtà esistono modi in cui le organizzazioni funzionano, altri in cui non funzionano, e altri ancora in cui funzionano perseguendo obiettivi diversi da quelli ufficiali. Qui siamo nel terzo caso. Quando in certi atenei accade che la percentuale di docenti legati da legami di parentela assume proporzioni bulgare, è chiaro che lo scopo occulto ha del tutto soppiantato quello ufficiale, e il motivo per non cui si vuole la valutazione è altrettanto evidente.

    2)Questi criteri di valutazione devono essere quantitativi? Non si rischia di gettare l’unversità “nella morsa di un’aziendalizzazione ecc ecc”? Qui vi è una sorprendente confusione tra organizzazione del lavoro e valutazione dei risultati. Posso organizzare il mio team a rete, a stella, a piramide, a trapezio, persino a forma di cesso rovesciato, ma se quello che ottengo è un buon risultato sono un po’ cazzi miei. Se però pretendo di usare lo schema del cesso rovesciato e in più di valutare i risultati in modo del tutto soggettivo, sto solo facendo il furbo. Il criterio di valutazione deve essere universalizzabile e tener conto del bene comune, non di quello di chi vi partecipa e dei suoi conterranei.

    E’ un’ovvietà dire che l’elemento tecnico contiene un aspetto politico. E’ ciurlare nel manico pretendere che l’elemento tecnico non si debba misurare. Attualmente vengono usati nel mondo delle università del pianeta Terra alcuni strumenti di valutazione di tipo diverso, nessuno dei quali adottato in italia, per allocare almeno una parte delle risorse (risorse pubbliche, notare). Si ritiene che questi strumenti siano rozzi? Legittimo. Si vuole aggiungere ad essi altri criteri e parametri più sottili? Benissimo, nessuno avrebbe nulla in contrario. Si vogliono creare strumenti raffinati di analisi delle ricadute psicosociali della ricerca sulla comunità locale e mondiale? Fantastico, chi ci riesce merita il nobel in economia. Ci stanno provando anche col PIL, non è una cosa nuova, e va benissimo. Purché siano strumenti a) misurabili b) coerenti con indicatori di qualità consoni con lo scopo “pubblico” dell’università. Il resto sono pippe o furbate.*

    3) “egualitarismo a tutti i costi”

    Mi sa che hai letto il mio post al contrario e così vi hai trovato dentro dei versi satanisti 🙂

    Non ho affatto detto che l’egualitarismo va commisurato ai costi, non è bello inventarsi le citazioni. Al contrario ho fatto quello che tu chiedi, cercando di rielaborarlo. Provo a ridirlo nella versione diritta. L’egualitarismo di un sistema formativo non si misura da quanto a parole l’università sia aperta a tutti, ma a) da quanto il sistema investe nella formazione dell’individuo nei suoi primi 10 anni di vita, e b) da quanto investe in sostegni al reddito mirati e slegati dal lavoro. A parole abbiamo l’università più egualitaria di tutte. Bella forza, 3/4 li seghiamo prima dei 15 anni, e il resto lo perdiamo dopo che si è iscritto all’università, perché deve lavorare per mantenersi e abbandona. Questo egualitarismo a parole è ideologia, cioè falsa coscienza. Io vorrei che chiunque avesse la possibilità di sviluppare un suo eventuale talento per lo studio avanzato di qualcosa, ma se non lo sviluppa questo accada perché non ce l’ha, il talento, ne ha magari un altro ugualmente dignitoso, e non a causa della sua provenienza sociale che gli impedisce di scoprire sia il primo che il secondo.

    Se poi invece non si intende egualitarismo in questo senso “socio”, ma nel senso che chiunque deve poter frequentare filosofia pur non avendone alcuna attitudine, e quindi i test di ingresso sono sbagliati “in sé”, be’, questa è un’evidente stronzata. Non esiste tra i diritti dell’uomo quello di superare i test di ingresso all’università senza meritarlo. Esiste invece quello di poter sviluppare le proprie capacità di superarlo a prescindere dalla propria condizione socio-culturale di nascita. Ma questa è un’altra cosa, anzi quasi il suo contrario, e la sua realizzazione, credo sia abbastanza ovvio, NON dipende dall’università.

    4) “critichi il modello dell’università di massa”

    no, critico la sua ideologia postuma.

    L’università di massa è un dato da cui non si torna indietro. Però vorrei funzionasse almeno nella media. Non vorrei che siccome a noi la media ci fa schifo dato che noi siamo oltre queste miserabilie umane e quantitative, allora ci teniamo lo schifo e l’università com’è.

    5) “sbrigativo e disonesto glissare sui problemi della gestione pubblica del documento”.

    questa non è comprensibile, sorry

    6) “Ti manca dialettica, resti imprigionato nella discussione”.

    ma non si era detto che la dialettica è morta negli anni sessanta? sarà risorta nel frattempo…

    * il dibattito da addetti ai lavori su questi temi ha sollevato spesso la questione della didattica, per principio poco misurabile. Eppure non è meno importante della ricerca. Ma un po’ di riflessione permette di formulare ipotesi pragmatiche: ad esempio prevedendo il coinvolgimento degli studenti nella valutazione sulla base di parametri riproducibili. In più, dato che diversamente dall’attitudine alla ricerca, la capacità di insegnare si può a sua volta insegnare, nessuno vieta all’ateneo che voglia emergere in questo campo di stoccare risorse per far sì che i propri ricercatori raggiungano livelli almeno decenti nella parte didattica.

  5. Le argomentazioni di questo post mi sembrano molto lucide, così come i documenti dell’ “onda” mi sembrano molto annebbiati.

    Attenzione però: perché dev’essere il “network delle università in rivolta” ad avere necessariamente l’egemonia e il “punto di vista ufficiale” riguardo alle opinioni sull’università?

    Le proposte intelligenti non mancano: questo che segnalo è un riassunto delle discussioni che si sono svolte soltanto all’interno dell’ateneo di Verona. Eppure mi sembrano proposte in larga parte sensate e non rivolte al riproporre i soliti vecchi stereotipi in una salsa nuova.

    http://protesta-univr.blogspot.com/2008/11/proposta-di-riforma-delluniversita.html

    Non esiste solo l’Onda, non esistono solo i collettivi. Gli studenti sono tanti e quelli che sono andati a Roma venerdì scorso in buona parte non erano neanche mai andati nel sito delle “università in rivolta”. Occorre rendersene conto se non si vogliono fare dei discorsi demagogici, buoni soltanto a tirare acqua al proprio mulino e – questi sì – a favore dello Status Quo.

  6. Non mi stupisce veder citato Perotti in questo post. Perotti, degno figlio dell’accademia statunitense, è un maestro nel trarre conclusioni folli da dati assolutamente esatti. La puttanata della spesa universitaria “in linea con la media” se “correttamente calcolata”, poi, è un grande classico. Complimenti, hai vinto un abbonamento al Corriere della Sera.

    Il guazzabuglio che hai scritto, però, ha il merito di offrire spunti comici davvero interessanti. Giuro che ho rischiato l’asfissia da riso quando ho letto che “quindi l’idea che l’accesso non debba essere ristretto ai meritevoli, purché non censiti con metodi di classe, ma consentito letteralmente “a tutti”, o è vuota, una pura ovvietà, o è cretina, esprimendo un’idea di “cultura umanistica come massima espressione della civiltà umana” (ergo, gli altri sono subumani) fasulla, retorica e ricostruita a esclusivo beneficio baronale”.

    Tradotto in lingua corrente: dire che l’università deve essere aperta a tutti significa porre gli studi umanistici al di sopra di quelli scientifici. Interpreto bene?

    Se la risposta è sì allora spiegami una cosa, in confidenza: ma come cazzo (sì, ho detto “cazzo”) è possibile che un uomo, un essere per definizione intelligente, sforni una simile stronzata? Ma lasciamo perdere i siparietti. Veniamo al sodo.

    L’accesso dev’essere ristretto ai meritevoli. Interpreto correttamente il tuo pensiero?

    Se lo interpreto correttamente il tuo pensiero è sbagliato. Innanzitutto dovresti definire i leggendari “meritevoli”. Chi sarebbero costoro? Quelli che riescono a superare un test d’ammissione?

    Ma saltiamo anche questo dettaglio. L’università non dev’essere uno strumento di mobilità sociale: dev’essere un effetto della mobilità sociale. Quasi un premio a chi ce la fa. Interpreto correttamente?

    Be’, amico, non per essere rude, ma temo tu sia l’ennesimo sprovveduto che considera gli studi universitari un grande stage il cui scopo è formare gente che deve andare a lavorare e deve solo far bene il suo lavoro. Tsk tsk. L’università, come TUTTA l’istruzione, dalle primarie in poi, ha come obiettivo la formazione dell’uomo e del cittadino. Lo scopo dell’università è prendere degli uomini e portarli alla maturità intellettuale nel campo che hanno scelto. L’università non è un premio: l’università è una scelta, l’università è un servizio. Il suo scopo è istruire la gente. TUTTA la gente che lo desidera. Se uno studente non riesce a laurearsi questo è un fallimento dell’università. Tutto il sistema scolastico ha un solo obiettivo: prendere gli uomini – tutti – e portarli alla maturità intellettuale. Dire che “chi doveva fare il salto fuori dalla propria classe sociale grazie all’istruzione e non c’è riuscito, ha già lasciato la scuola da un pezzo” è una cazzata da esposizione fondata sull’idea che si nasca deficienti e, ahimè, all’ignoranza non ci sia rimedio. L’insuccesso scolastico è un fallimento DELLA SCUOLA prima ancora che dell’individuo (so che ce ne vuole a rendersene conto, ma fa’ uno sforzo). Corollario del tuo delirante ragionamento è che un diciottenne si possa ritener maturo per il salto sociale grazie alle brillanti prove di sé date all’istituto tecnico. Il che rende il tuo ragionamento una doppia cazzata. Ora, non nego che la maturazione intellettuale di tutti sia, molto probabilmente e molto tristemente, un obiettivo ideale. Ma è a quello che l’istruzione di qualsiasi grado deve tendere. L’università italiana genera un fottio di fuoricorso? E’ una sua inefficienza, e va sanata non certo falciando in partenza tutti quelli che, secondo noi, finiranno fuori corso. Il tuo ragionamento – tuo e di molti altri – è questo: l’università italiana è inefficiente, quindi svuotiamola e vediamo se va meglio. Devi essere un economista. Solo un economista può pensare certe boiate. Perché sono queste boiate che poi portano, nel tentativo di migliorare la mobilità sociale, a un sistema scolastico e universitario che della mobilità sociale fa allegramente strame. E’ già successo in Gran Bretagna. Se v’impegnerete succederà anche qui. Coraggio, eroi.

  7. ulfsteinn, purtroppo anche tu come l’anonimo precedente hai letto il post al contrario trovandoci versi satanisti. Diversamente che con lui purtroppo, con te mi diventa difficile discutere.

    La tua interpretazione dei passaggi che riporti è così sbagliata (potrei dire idiota o minchiona, adeguandomi alla tua maschia sincerità) che, o io scrivo come un bimbo di tre anni (il che è anche possibile), o tu capisci proprio quello che vuoi capire e non riesci a seguire un ragionamento oltre la terza riga. No, non “interpreti bene”, in nessuno dei casi citati.

    Ho già risposto all’anonimo prima un commento di chiarimenti molto lungo, se l’hai già letto non so cosa aggiungere. non ho speranza

    bg

  8. Be’, amico, che vuoi farci? Nessuno ti capisce. E’ il destino di tutte le menti geniali, no?

    Colpa mia, certo. Quando uno è capace di definire l’università italiana “retorica” si deve intuire subito che è un grande artista. Ed evitare di – com’era? – leggere al contrario.

    Però tutto questo è commovente, se ci penso. In questo giorni sembra di essere nella Costantinopoli del quarto secolo. La differenza è che nella Costantinopoli del quarto secolo tutti avevano la loro da dire sulla trinità, oggi tutti hanno la loro da dire sull’università, libercolo di Perotti alla mano. Preferivo Costantinopoli. Almeno se dici cazzate sulla trinità non fai danno a nessuno.

  9. “Be’, amico, che vuoi farci? Nessuno ti capisce. E’ il destino di tutte le menti geniali, no?”

    veramente sei quasi l’unico che non ha capito, “amico”. è il destino di chi pensa di essere geniale e non trovando le figure, fa solo finta di leggere, sputazza e se ne va.

    bg

  10. M’hai convinto, guarda.

    Quando dici che “3/4 li seghiamo prima dei quindici anni” tu sì che dimostri una vera padronanza dell’argomento, non come quei cialtroni del Ministero della Pubblica Istruzione, che addirittura riferiscono di un tasso di abbandono nelle medie inferiori pari allo 0,2% nell’anno scolastico 2006/07. Sei grandioso quando pontifichi che l’egualitarismo del sistema si vede da quanto investe nell’istruzione per i primi dieci anni d’età – senza sapere, com’è ovvio, che l’Italia ha una spesa per l’istruzione primaria ben al di sopra della media europea, e che la scuola primaria italiana è l’unico grado del nostro sistema educativo che offra un servizio decente. Insomma, senza sapere un corno del nostro sistema scolastico tu giungi – per illuminazione, diciamo – alla conclusione che il nostro sistema scolastico è discriminatorio. E su questo costruisci la tua raffinata supercazzola, con dotti riferimenti alle “ideologie postume” non senza tirare in ballo la definizione d’ideologia come falsa coscienza, che fa tanto ganzo. Conclusione della supercazzola: all’università ci vuole la selezione in entrata.

    R O T F L.

    E adesso vai con Dio.

  11. sai, i dati dicono che sul totale della classe d’età, attualmente si iscrive all’università più o meno il 40% del totale. Gli altri si sono fermati: a) dopo l’esame di terza media; b) dopo il primo anno di superiori (che è un po’ “l’anno-mattanza”); c) dopo il diploma, in percentuali molto variabili secondo le regioni (al sud c’è parecchio a), al nord parecchio c), b) è uniforme).

    Che quel 60% sommerso sia colpa dei test di ingresso all’università? Eh, può anche darsi 🙂

    da qui in poi non ci sono dati incontrovertibili, si va un po’ a buon senso: di quel 40%, secondo te, i 3/4 appartengono ai primi percentili di reddito o a quelli un po’ superiori? Io propendo per la seconda ipotesi. E del quarto rimanente, i dati che abbiamo suggeriscono che molto pochi arrivano a laurearsi. Come mai? Colpa della terribile selettività universitaria? :))

    che l’investimento in formazione nei primi – o primissimi – anni di vita decida della carriera scolastica successiva purtroppo non l’ho scoperto io, ma le ricerche dei sociologi. che l’italia spenda in istruzione meno degli altri è ugualmente noto (tra parentesi: che la primaria sia buona è vero fino a un certo punto: le buone performance arrivano al picco in terza, poi iniziano una discesa che non si arresta più). Che addirittura la situazione degli investimenti per i primissimi anni sia imbarazzante è altrettanto noto (basta avere un figlio e tentare di iscriverlo a un nido, del resto…)

    ora, la selezione in entrata c’è già. anzi ce ne sono due: ce n’è una su base di merito, piuttosto maldestra e malapplicata, e una su base sociale, che invece funziona da dio. La discussione, se non l’hai capito, è che nei documenti della sapienza si individuava nella eliminazione della prima una riforma decisiva per eliminare la seconda. Come quasi tutti ho fatto notare che questa soluzione è ininfuente e forse persino dannosa: la selezione su base sociale avviene in realtà per lo più prima dell’università e in parte anche durante, ma per altri motivi (ripetiamolo: all’università quelli che appartengono ai primi percentili di reddito sono una netta minoranza, e certo non a causa dei test di ingresso, e abbandonano quasi tutti prima della laurea perché devono lavorare). È ovvio – non pensavo occorresse spiegarlo – che una selezione per merito in assenza di un welfare efficace che permetta a tutti coloro che lo desiderano di arrivare all’università è ingiusta, perché in quel caso meritevole=ricco. Ma non è che sia proprio la nostra situazione, dato che la selezione per merito praticamente non c’è. Conviene magari discutere della nostra, di situazione. E la soluzione alla nostra situazione non è, come sostengono i documenti, evitare che l’università sia selettiva in termini di merito e tanti saluti (cioè far finta di far passare tutti, tanto poi solo chi ha il papà che paga va avanti, col risultato di abbassare il livello medio della richiesta di qualità da parte dei fruitori del servizio), ma evitare che la formazione precedente – bisognerebbe dire: la società precedente – sia selettiva su base sociale a causa di un welfare inefficace. Se non tutti arrivano all’università è piuttosto semplice da capire che la colpa non può essere dell’università, quindi applicare qui i rimedi è un filo tardivo.

    Prevedere investimenti massicci nei servizi per la prima e seconda infanzia e immaginare forme di sostegno economico per studenti universitari poveri sono due tecniche per intervenire, magari non miracolose ma certo un po’ di più che rivendicare “cinema gratis per gli studenti”. (e anche molto meglio che tagliare i fondi alle elementari come fa la gelmini alias tremonti, savasandir).

    Intervenendo su questi fattori di disuguaglianza diventa poi più giustificabile che l’università conservi elementi di selettività del merito, se non altro perché è interesse collettivo che chi si laurea sia il più possibile preparato, avendo frequentato un’università di qualità e non un parco buoi inconcludente gestito da amici e parenti del rettore.

    E a proposito, trovo comunque curioso che tu continui a concentrarti su questo aspetto (l’idea che io voglia far andare meno studenti all’università, quando ho già detto almeno quattro volte che io vorrei farne andare di più, per il motivo semplice che i poveri sono più dei ricchi) quando il problema da cui parte la discussione – la palese inefficienza dell’università – riguarda il merito dei docenti, non su quello degli studenti e gli eventuali criteri di valutazione del loro operato, cui peraltro è dedicato anche il grosso dei miei interventi.

    bg

  12. hai una pazienza imperturbabile che ti invidio, e manco poco. comunque, riguardo ai commenti sono piegata dal ridere. riguardo al post, è in condivisione su greader quindi quel che penso è evidente

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