Una curiosa tropologia del revival
due volte questa stòria mi è apparsa
e se tu eri la farsa, lei ora è la mia nòia
(K. Marx, U. Tozzi)
Secondo un’opinione corrente la storia va in una direzione, ovvero dal passato al futuro. Il che significa almeno due cose, che vi è una direzione e che essa è una. Menti più raffinate dubitano di questo sguardo affrettato, fanno notare che il numero delle storie dipende dalla scelta degli attori e degli eventi da considerare degni di figurarvi, così che le storie possono essere tante quanti gli individui, o si può fare storia di concetti, di classi, di istituzioni e di tutto quel che si voglia e tali storie possono andare anche a velocità differenti e in "versi" tra loro incongruenti.
Altri hanno obiettato che parlare di versi o direzioni è un’evidente proiezione del proprio punto di osservazione e persino della propria facoltà di parlarne, o della possibilità che ad alcuni ciò sia consentito a dispetto di altri. Si dubita poi che su tutto regni in realtà l’immobilità, o al più una circolare ricorsività. Altri infine, ancora più raffinati, obiettano che invece ogni azione, staccandosi da un passato che gli fa da sfondo, da una parte ne dipende, dall’altra lo rende inattuale aprendosi un proprio futuro e nel "contempo", per così dire, rilegge il passato a partire da sé, così che in ogni istante di ogni azione che accade, infiniti passati vengono di nuovo partoriti da infiniti presenti che si gettano a capofitto in altrettanti infiniti destini. Una visione vertiginosa e labirintica che non è qui il caso di discutere.
A noi, e per i nostri fini di invenzione, basta dubitare dei due assunti che l’opinione corrente si fa intorno alla storia: può non essere una, può andare in più versi.
Alle volte sembra che un tempo passato possa ritornare, non solo nei ricordi, o nella casualità di eventi che si ripetono simili: piuttosto in un’immagine riassuntiva che la mente si fa di un periodo e nel pellegrinaggio spirituale che si decide di compiere continuamente presso quel tempo immaginato.
Ciò che chiamiamo revival rispecchia questa definizione. Il presente allora si sdoppia e accoglie presso di sé un’immagine, l’ologramma di un altro tempo fuori tempo che viene fatto risiedere tra noi. Il presente insomma accoglie i trapassati; noi stessi ci mettiamo la pelle dei morti. Questo fenomeno che diciamo di costume non è inconsueto e nemmeno insignificante. Consideriamone l’esempio a noi più vicino: l’Italia degli ultimi venticinque anni.
È a partire da un anno preciso, il 1979, che una linea di revival si è attivata dentro la nostra cultura cosiddetta di massa ed è proseguita fino quasi a oggi. È come se a partire da quell’anno, due linee temporali abbiano iniziato a scorrere parallele e continue: così il 1980 ospitava in sé il 1950 e in esso si guardava come dentro uno specchio, il 1985 ospitava il 1960, il 1990 ospitava il 1970 e così via: mentre nella prima linea, quella ospite, il tempo avanzava alla velocità astronomica che gli conosciamo, in quella ospitata scorreva a velocità quasi doppia, come se tentasse in tutti i modi di raggiungere la prima, di ricongiungersi. Quello che si vuol dire è che questa linea di revival, questa coazione a ripetere che nel 1979 ha partorito dentro di sé la memoria reinterpretata di 30 anni prima, e da lì in poi ha prodotto il successivo e ventennale tentativo di riunire il tempo collettivo e la coscienza del suo scorrere, non è innocente o casuale, ma è lo specchio entro cui leggere ciò che la nostra società, o una sua parte, ha oscuramente pensato di sé e delle proprie sorti pubbliche e private.
Infatti fino alla fine degli anni ’70 del novecento la storia, almeno dal nostro punto di sguardo che evidentemente non è estraneo a questo gioco, pare procedere diciamo così in avanti, o perlomeno così pareva a quell’opinione comune cui si è accennato all’inizio, e procedeva pur con alti e bassi, come suo costume, senza che quell’avanti volesse dire qualcosa: allo stesso modo si sarebbe potuto sostenere che fosse un indietro, o un di lato, poco importa. In quell’anno di colpo essa invece si sdoppia. Come accade in quelle pellicole di dubbia fattura in cui la diafana immagine del paziente in coma si stacca dal letto d’ospedale e si solleva non vista vagando verso il soffitto e guardandosi dall’alto, nel 1979 e con non migliore fattura l’anima della nostra piccola e periferica storia si scolla dal suo corpo, come per un botto, e rimbalza indietro, mentre il corpo procede inanimato in avanti. Da allora è tutto un inseguire, un cercare di colmare lo iato, la fessura. Ma chi segue, chi si scolla? Difficile da dire.
Immaginiamo un bambino di fronte al suo desiderio, o dentro di esso. Se a quel desiderio, che costruisce e inventa il mondo stesso del bambino e ciò che egli è o vuole diventare, viene impedito di svilupparsi, egli diventa infelice. Allora ha un modo tutto suo di convivere col suo lutto: tornare indietro alla propria genesi. Ricostruendosi, ritrovando se stesso col dimenticarsi di sé, col disperdersi, disseminandosi nel proprio percorso e infine tentando di tornare a sé risaputo, spera forse di superare il muro che lo ostacola, o forse solo di fuggirlo. In lui si agita la consapevolezza della sconfitta, ma assieme l’ansia di sopravvivere e forse d’averla vinta alla fine.
****************
Il revival è un calco e nel vivo che si porta sulle spalle il morto c’è un insegnamento da trarre. Qui di seguito, come esercizio ulteriore di ricostruzione fantastica, ci limitiamo a dare qualche traccia di approfondimento, una bozza di cartografia temporale dell’inseguimento tra i due tempi incastonati uno nell’altro. Ai lettori più dotati di memoria il compito di approfondire la mappa.
****************
Fine anni Settanta. Le premesse del revival come remortum
Il fallimento politico-pratico di un’intera generazione nel suo tentativo di costruire a propria immagine una società, consumato nel triennio 1976-1979 in forma di catastrofe, per proprie e altrui colpe che covavano da un decennio almeno e che non è qui l’occasione di rivangare, produce nel corpo più esposto della società una sorta di congelamento, di immobilità attonita, e una regressione collettiva. Il 1979, annus horribilis di grande ferocia e scialo di morte, accade senza che un suo solo giorno scorra per davvero. Il suo fantasma orrendo attraversa le strade e al suo passaggio, come fosse sfiorato da un tocco ferale e dopo una lunga zona di silenzio, sullo specchio della riproduzione immaginaria, della narrazione di sé con cui si conosce ciò che siamo costruendolo di nuovo, riemerge l’immagine di un eternamente giovane passato, avvolta in un indecifrabile sorriso. È la soluzione nevrotica, il sintomo guida, che la società sceglie di raccontarsi e di raccontare a tutti: il ritorno fantasmatico all’infanzia della storia, infanzia soggettiva dei protagonisti e collettiva della repubblica: gli Anni Cinquanta. Il gioco infantile del “facciamo finta che” è una compensazione fallace e insieme una sorda e profondissima resistenza, la soddisfazione sviata del desiderio in un oggetto sostitutivo e tuttavia materiale, denso di risultati e di conseguenze, permanenza di una vita oltre la morte e la sconfitta. Nascerà il revival come prodotto originale e crasi immaginaria tra la coscienza degli sconfitti, ormai integrati nei meccanismi produttivi e proiettivi – si chiamò "il riflusso" con metafora acquatica o gastrica – e quella dei vincitori, che amministrano ciò che pubblicamente può essere detto. Insieme e tuttavia separati da tutto, inizieranno a fantasticare, a intrecciare un racconto, un sogno terribile.
Per ora tuttavia, fermi su questo limite silenzioso e privo di materia, l’unica consapevolezza è un’altra: il tempo è finito. nofuture. Il sosia si mostrerà nel mondo, il corpo occultato è costretto a sanguinare.
Primi Anni Ottanta. Noi siamo i Felici Anni Cinquanta
Il fallimento politico e militare delle utopie degli Anni Settanta fa tornare la "coscienza incosciente" delle forze sociali all’ultimo periodo felice, all’infanzia mitologica dei protagonisti, il tempo dell’ottimismo traboccante in cui si respirava piena la promessa del consumo. Ma, come ogni riproposizione è consapevole degli esiti infausti di ciò che ripropone, così l’edonismo esasperato dei Primi Ottanta non riproduce l’ottimismo dei Cinquanta, ma si limita a recitarlo con una sorda, materiale consapevolezza della finitezza dei corpi, del loro degradarsi, con una barocca passione per la carne mortale, con la distopia che sa fallita l’utopia che recita, il medesimo mutato di segno. La promessa del consumo non è stata mantenuta: oggi recitiamo la potenza felice della nostra capacità di creare il mondo, sapendo che dalle nostre mani nascerà il dolore. Intanto, ridiamo.
Secondi Anni Ottanta. Gli Spensierati e Rombanti Primi Sessanta
I secondi Anni Ottanta sono un rapido passaggio nei felici primi Anni Sessanta del tutto consegnati a un’immobile mitologia, in cui all’eroismo ingenuo degli esploratori solitari si è andata via via sostituendo la macchina rombante della produzione collettiva di felicità come orizzonte condiviso. Il boom economico e le rotonde sul mare.
La Parentesi. Fine Anni Ottanta, Fine Anni Sessanta: l’impossibile
Il corpo vivo della storia si preoccupa di ricordare la sua presenza con inciampi e cadute. Alla fine degli Anni Ottanta il contemporaneo crollo del sovietismo sul piano internazionale e del democristianismo su quello interno, perfetti gemelli siamesi e avversari a sovranità limitata, consegna per un istante la società a una nuova apertura e speranza. Ma i due tempi spirituali in cui essa è scissa sono in piena sincope, non sono pronti a ricongiungersi: l’anima, perduta indietro nella propria rimemorazione recitata nel mondo attraverso il revival, è giunta ora per coincidenza preziosa nel passaggio tra i Tardi Sessanta e i Primi Settanta e qui trova le nuove figure del suo percorso onirico. Quel tempo perduto condensa in sé l’immagine di ciò che ora, di fronte al crollo reale un tempo agognato, si dovrebbe saper produrre ma non si può: la ricerca del nuovo, il tentativo di rompere i limiti, la ribellione. Incapace di coordinare corpo e mente, che si muovono asincroni in due diversi tempi, tale istanza incapace d’essere si traduce in un fantasma irrigidito e tetro, senza corpo: il giustizialismo.
Anni Novanta. Il ritorno dei Settanta, revival della rivolta e della sconfitta
Gli Anni Settanta avevano consumato il fallimento che è all’origine del fenomeno dello sdoppiamento di cui stiamo narrando le forme. Il revival, nel suo decorso, torna dunque ora sul luogo del delitto che è anche quello della sua nascita, il suo motivo d’essere. In tale pietosa e inconsapevole frequentazione della propria matura ascesa e rapida caduta, si consuma il tentativo disperato di riconsegnarsi a un’innocenza perduta, di ritrovare la carne del desiderio non ancora distolta da sé: la politica. La coscienza ritrova il suo sogno, ma ne percepisce tutta l’impossibilità retrospettiva: il suicidio si mostra come esasperata e fasulla recita di un essere perduto, che non si può possedere.
L’apoteosi di questa mostra di impotenza si fa prototipo a Seattle e da Seattle, prima come costume di recitata autodistruzione e poi come atto di volontarismo politico assoluto. Nella pantomima del suo modello (il movimento contro la guerra in Vietnam e poi l’esplosione planetaria della rivolta degli anni Sessanta-Settanta) si offre in tutta la sua estenuazione sul finire dei Novanta e all’esordio del nuovo secolo: pura rivolta etica e morale, recita di anime belle e immateriali che incontrano inaspettata e immancabile, all’appuntamento non più rammentato, la tragica eterogenesi dei fini e il potenziale di dolore che la fede nel futuro può mettere in moto. Il cerchio sta per chiudersi, manca un solo passo.
Fine Anni Novanta e Nuovo Secolo. Il revival autoreferenziale terminale
Il meccanismo del revival, giunto a questo punto, cioè alla soglia del revival di se stesso e del proprio esordio, si avvita fino all’assurdo e mostra la sua natura duplice, di muta resistenza da un lato, ma di giocata rinuncia dall’altro. Sono questi gli anni in cui tornano ma in ferale immagine proprio gli Anni Ottanta, che per primi inaugurarono questa pratica di frequentazione delle tombe. Revival di un revival, i Primi ’00 ci riconsegnano gli "stessi" protagonisti degli Ottanta che allora mimavano i Cinquanta: un presidente figlio che ricalca le orme del presidente cowboy, un premier rifatto con la chirurgia a fotocopia di se stesso palazzinaro e fresco comunicatore, il "ritorno religioso" dell’antimodernismo newage, ultimo cascame hippy sopravvissuto negli Ottanta, rivisitato come neo-medievalismo cattolico. Il gioco è sempre più scoperto e ribaltato, più confuso, fragile, terminale: il diaframma di nulla sta per essere strappato e le forze tornano a congiungersi con se stesse, ad avere a che fare con la costruzione di sé come compito infinito e ignoto. Il revival è svuotato, finito. Resiste come meccanismo eterodiretto. Quando il protagonista si riunisce col suo sosia, la storia ottiene il suo agognato corto circuito.