(se escludiamo il fatto che i suoi articoli sono di un bel po’ più corti)
Fare i politologi non è un lavoro complicato e oltretutto, se lavori per un grande giornale, ti pagano bene.
In questi giorni tutte le analisi concordano su due punti: più ancora di Berlusconi, ha vinto la Lega, e la vittoria si spiega col binomio radicamento nel territorio + paura e insicurezza.
• Vediamo, punto uno. Abbiamo un partito che esiste da 30 anni, che da 30 anni dice le stesse cose, che da un giorno all’altro raddoppia i consensi, e questo sarebbe dovuto al radicamento nel territorio. Se ci si pensa un secondo è una ben bizzarra spiegazione. No?
Ma poi chiariamo cos’è questo radicamento altrimenti nel resto d’Italia si penserà che la Lega abbia una sezione in ogni condominio (no, semmai una cellula dormiente). Il radicamento della Lega, dal punto di vista dell’azione politica, consiste in questo: la lega fa i gazebo. Dato che è presente un po’ in tutto il Nord Italia, ha una base di militanti ristretta ma motivatissima e un linguaggio politico alquanto pop, riesce a fare gazebo un po’ dappertutto, qua e là. Ma non è che li faccia tutto l’anno, eh, anzi. Li fa ogni tanto, diciamo sotto elezioni e qualche altra rara volta per qualche campagna particolare. Ah, e poi, sempre in quelle occasioni, attacchina sui muri valanghe di manifesti super-diretti (altro che le mandrie di copy che coniano gli slogan ariafritteschi di Walter: urgenza-contenuto-messaggio vince sempre).
Per il resto del tempo il famoso radicamento, se lo intendiamo con azione politica di base, semplicemente non esiste.
Dunque tutto il contrario di un consenso che cresce voto dopo voto, negli anni, grazie a un’opera certosina di prossimità e convincimento. Semmai si tratta semplicemente della mera identità tra rappresentanti e rappresentati, tra progetto politico e aria che tira: è una questione che attiene alla costruzione e formazione del personale politico e si spiega molto di più con la natura movimentista della Lega che con chissà quale astrusa pratica organizzativa.
Non è che la Lega sia radicata sul territorio perché ha le sezioni o chissà che, ma perché è fatta da persone che abitano in un certo posto e il cui programma tratta esclusivamente di quel che succede o dovrebbe succedere in quel posto.
Per costoro Roma è lontana, un altro pianeta, una faccenda che non li riguarda se non in negativo. E non gli serve l’esperto per interpretare o almeno esprimere il posto in cui vivono, per sentire ad esempio che nelle microimprese il rapporto capitale lavoro è mutato rispetto a dove si fermano (1976) le analisi di Rifondazione, che l’ipersfruttamento necessario a mantenere la competizione sul mercato coinvolge tutti, che la finanza le banche e la grande impresa sono nemici reali o potenziali, che il territorio è stato sventrato, deturpato e svenduto senza percepibili miglioramenti in termini di infrastrutture, che il welfare è del tutto inefficiente e non copre i nuovi bisogni, e così via. Lo sanno, anzi lo sono. E la loro risposta (teniamo qui i soldi), anche se ahimé del tutto incongrua, ha una razionalità che sarebbe sciocco sottovalutare – e non è nemmeno una richiesta di abolizione del welfare, tra l’altro, come i Soloni di Repubblica si ostinano a sostenere.
Del resto la Lega è anche il partito che conosce le fluttuazioni più macroscopiche in fatto di voti. Storicamente cresce quando sta all’opposizione e cala quando sta al governo. Oggi è tornata ai livelli che aveva 15 anni fa, quando conquistò addirittura Milano. Poi è progressivamente calata riducendosi della metà, a seguito di prove di governo non proprio esaltanti (spiegazione: il personale politico della Lega, specialmente quello nazionale e tranne rari casi – Maroni – è piuttosto improvvisato e scelto in base alle proprie qualità oratorie o di presenza e attivismo militante e di fedeltà, piuttosto che di valore in campo amministrativo e tecnico o culturale o altro. Risultato, quando sono chiamati a svolgere compiti di responsabilità da cui potrebbe scaturire un guadagno in termini di applicazione dei propri punti di progamma, l’azione di questi uomini – e anche donne, ci si ricordi la Pivetti – è quello che è. Qualche esempio: Formentini, il sindaco di Milano più comico del dopoguerra, oggi finito nel Pd, per dire; il porcellum, l’ingegner Castelli alla giustizia…).
Dunque, presenza sul territorio: sì, in un certo senso. Ma soprattutto assenza degli altri, eh.
• Paura e insicurezza: è una questione ormai diventata dogma, figuriamoci se mi azzardo a metterla in dubbio.
– Paura del micro-crimine legato all’immigrazione irregolare e percepito direttamente sul territorio (in Italia gli unici reati che aumentano, pare, sono borseggi e furti e in quel campo, almeno se ci si base sul dato in verità alquanto deficitario delle persone arrestate, gli immigrati irregolari vanno alla grandissima – mentre del tutto irrealistica e falsa è l’idea alimentata dai media che nell’aumento della violenze sulle donne l’immigrazione c’entri qualcosa).
– Insicurezza per la competizione globale che manda in crisi il tessuto delle piccole e medie aziende che ha fatto lo sviluppo del Nord, anche contro la grande azienda pubblica e privata.
Tutto ciò farebbe dimenticare alle classi popolari le differenze e gli interessi di classe e le spingerebbe a un’alleanza comunitaria e difensiva (ma in realtà suicida) con gli interessi del tessuto di microaziende suddetto. Il padrone della piccola aziendina che gira col Suv alleato ai suoi dipendenti – italiani o stranieri regolari – che arrivano in azienda in Panda o sul motorino smarmittato, contro l’irregolare e il Rom che deturpano il territorio visivo, infastidiscono o rendono insicura la vita quotidiana con le loro brutte facce. E contro le aziende cinesi. E contro lo stato e il suo welfare solidaristico e assistenziale, che con le tasse rubano la ricchezza del territorio per (non) restituirla in servizi scadenti, clientelismo e malaffare.
È una lettura che va per la maggiore, coniuga sociologia con xenofobia, contiene una buona dose di verità e sembra persino di sinistra (a parte il fatto che il welfare italiano è ben poco solidaristico e redistributivo, essendo anzi per più di due terzi assicurativo, cioè costruito sulle pensioni e non su servizi universali e quindi a dirla tutta difenderlo così com’è non equivale esattamente a dire una cosa di sinistra, semmai democristiana).
Leggere la società e la politica attraverso le emozioni però è un esercizio di equilibrio. Senza dubitare di queste analisi, al massimo posso chiedermi perché si parli tanto di paura e così poco di odio, e per nulla di desiderio. A me l’odio pare più interessante, per dire. A rivangare nella memoria ricordo che era considerato piuttosto di sinistra un tempo, quando si cercava almeno di distinguere tra radice di quel sentimento e luogo in cui si scarica. E tra l’altro non me lo vedo chi vota Lega come un tipino timorato e impaurito, a me sembrano tutti belli incazzati, piuttosto… Ma quello dell’odio e della paura sarebbe un discorso lungo e scabroso.
Quanto al desiderio… La sinistra ha smesso da secoli di costruire le proprie analisi della società rintracciando il desiderio che l’attraversa e le maschere con cui si traveste, il che spiega perché le sue risposte siano per lo più frontiste, difensive, conservatrici, catastrofiste, altezzose, snob, moraliste, depresse, tragicomiche e tendenzialmente suicide. Ma sarebbe un altro discorso, appunto.
La paura, sorella dell’emulazione e genitrice dell’ordine, produce mera conservazione quando non reazione. Produce la destra classica. Ma tutto è la Lega fuor che classico, fuor che mera conservazione: la Lega è il soggetto politico più radicalmente sovversivo – purtroppo anche quello più sgangherato – prodotto in Italia dal 1921, un soggetto indipendentista, organico alle profonde trasformazioni produttive avvenute in alcune regioni del Nord Italia e ad alcuni dei soggetti sociali emersi in quel frangente, un soggetto che mira apertamente a smantellare la struttura dello "Stato oppressore" politicamente e finanziariamente.
Sì, poi uno pensa al parlamento padano e al dio Po dei celti o sente Bossi delirare di spiritualismo e tende ad archiviare la faccenda come folklore politico di un gruppo di squilibrati, altro che iperdemocraticismo da rivoluzione americana, e in parte però sbaglia, perché il punto è lì – o avrebbe potuto essere lì, in un mondo migliore…
Vabbé, torniamo sulla Terra e alla Lega che vince le elezioni.
Vorrei far notare: da dove viene il voto alla Lega "in più" rispetto al risultato modesto di due anni fa? È piuttosto accertato: viene da Forza Italia (Cacciari, che in queste cose non sbaglia, dice che in Veneto la Lega ha massacrato FI).
Ora, com’è noto FI poco prima delle elezioni si è unita a Alleanza nazionale in vista di un futuro partito unitario. E AN è notoriamente un partito assai poco tenero verso l’immigrazione (vien quasi da dire che lo sia in modo culturalmente più strutturale rispetto alla Lega, perlomeno a dar credito alla nostra poco argomentata distinzione tra paura e odio). Dunque, FI si allea con un partito del genere, e parte del suo elettorale la premia… votando Lega, e la cosa sarebbe motivata con "paura e insicurezza". Non dico di no, ma forse non è così semplice. Una scelta del genere non mi stupirebbe per quei voti in transito dalla sinistra radicale alla Lega (ma sono piuttosto pochi, tutto sommato).
Ehi, forse qualcosa non torna?
I miei 5 centesimi: e se il problema fosse proprio quell’alleanza, al Nord mai digerita, con un partito "romano e statalista" come AN? A nessuno tornano in mente le antiche (e poi naturalmente rientrate, come è costume suo) sparate del Bossi su "noi siamo un partito di lavoratori, noi ai fascisti spariamo a vista"? Non è che una parte di quell’elettorato fluido tra FI e Lega vede come il fumo negli occhi il Pdl, cioè l’unione strutturale tra FI e i noti "fascisti" bossiani? E se addirittura il problema fosse ormai Berlusconi, che agli occhi di questa frazione di elettorato non è più – o non è mai stato del tutto, in realtà – affidabile, in quanto non organico alla famosa base sociale della Lega? Meglio fermarsi qui, anche i politologi hanno un limite.
Il Pdl cresce un po’ al Sud e barcolla alquanto al Nord, l’alleanza tra Lega e berlusconismo sembra solida eppure si cannibalizzano a vicenda e le analisi della vittoria al momento fanno parte più del piccolo cabotaggio speculativo che di uno sguardo capace di anticipazione. E senza anticipazione, niente politica, come recitava il vecchio operaista.