uccidere il padre: istruzioni

Intanto non c’è alcuno scandalo, va detto*. Tutti i cinquanta-sessantenni che comandano oggi nei partiti italiani hanno politicamente ucciso il padre (chi per davvero, vedi D’Alema vs. Occhetto, chi col gentile concorso della storia, vedi Casini e Forlani, o Fini e Almirante, e si potrebbe continuare).
È del tutto normale. Il ricambio può funzionare per cooptazione, oppure per successione, o per pugnalata alle spalle… Alle volte persino perché qualcuno ti vota.

Però, insomma, ci vuole anche un po’ di cattiveria, questo sì. Il problema dei quarantenni del Pd mi pare sia stato finora un crampo mentale che li blocca a metà, tra la loro anima superdemocratica, che in qualche caso si spinge fino all’ingenuità, e il fatto che i partiti sono, almeno in Italia, strutture in cui il potere circola in modo che non ha molto a che fare con la democrazia, in cui il potere va più che altro conquistato e poi esercitato con un certo cinismo e disinteresse per le "sovrane istanze della base" (che guarda caso tutti i neodirigenti apprezzano finché coincidono con il necessario rinnovamento cioè il proprio desiderio di accedere al potere, e poi ignorano in seguito, sostituendone l’ascolto con l’espressione di un più o meno grande carisma personale).

Un partito che organizza la rappresentanza per accedere al governo, del resto, non può che funzionare strutturalmente secondo un principio di "riduzione all’unità", e questo è un problema forse insuperabile: deve dotarsi di una dirigenza ristretta, di una struttura in qualche modo verticale, di una burocrazia interna. I partiti proprio non esistono senza vertici, burocrazie, gente eletta, professionisti eccetera, e il rapporto con la base è sempre alquanto strumentale. Naturalmente è sempre possibile immaginare qualcosa di un po’ meno imbarazzante di certe votazioni bulgare su liste uniche cui abbiamo assistito pochi giorni orsono proprio nel Pd, ma anche questo sarebbe poca cosa rispetto all’ideale utopico di una fluidità totale e continua tra i livelli e di una permeabilità assoluta tra dirigente e militante, come tra rappresentato e rappresentante, che in qualche modo alberga nella testa di molti, lì dentro. Un ideale che mi pare avere più a che fare con l’invenzione di una gestione creativa della molteplicità che non con la sua consueta riduzione all’unità.

In questo scenario, sperare di prendere il potere e in più essere dalla parte giusta è un po’ troppo, almeno per una politica a livello umano. Chi vuole il proprio Midas insomma se lo deve confezionare, mettendo le mani nella cacca (nella propria, ovviamente). I casi di scuola sono noti.

E dunque veniamo a noi. Come fanno i quarantenni del Pd a prendere il potere? È presto detto. Potete prendere appunti.

Un gruppo di quarantenni di belle speranze, in politica, deve fare le solite cose, calate ovviamente nella specificità della propria situazione.

1. Individuare tra i propri membri un nucleo ristretto e rappresentativo di front men e tra loro un leader carismatico, e a costoro delegare buona parte delle decisioni tattiche sciogliendoli da vincoli di tipo "democratico";


2. dotarsi di una piattaforma politica originale, ma non troppo (nel nostro caso vanno benissimo le istanze già presenti: modernizzazione spinta ma dolce del Paese, lib-lab, coloritura progressista, laica, aperta, attenta alla riforma della democrazia e della rappresentanza, per il rinnovamento, l’ambiente eccetera eccetera. È necessario isolare anche qualche elemento di rottura col passato del partito: per dire, una
forte critica della stagione delle privatizzazioni gestita in passato dal centrosinistra, che ha svuotato l’economia e ha spinto la rendita parassitaria, può avere un buon appeal);

3. tradire i propri referenti e padri, soprattutto se troppo deboli, e allearsi con le correnti maggiori, quelle che contano davvero nel partito (fare i supporter di Veltroni, segretario fin dall’inizio sotto tutela e senza effettivo controllo della struttura del partito, è stata una scelta pessima, al di là degli aspetti ideali. Ma c’è ancora tempo per rimediare).


4. entrare negli organismi dirigenti grazie all’appoggio dei vecchi oppure dei nuovi alleati, anche per cooptazione o per vie non proprio limpide, alla faccia dei meriti da vantare in politica e del necessario rinnovamento democratico (e a questo ci siamo vicini, mi pare);


5. contribuire alla destabilizzazione interna, denunciare il pessimo stato del partito, indebolirne i vertici;


6. quando la situazione è matura, cioè dopo l’ennesima stangata elettorale (cioè tra un anno), spingere per la convocazione del congresso, e lì farsi indicare dalle correnti maggioritarie come alternativa giovane, di svolta, o anche solo di transizione, al debole segretario ed ex-padre cui vanno accollate ingenerosamente tutte le sconfitte. Dare ai propri "grandi elettori" un’impressione di  disponibilità ad essere manovrati, passare ai loro occhi come una soluzione debole e poco autonoma che possono usare contro il segretario senza esporsi personalmente;


7. una volta al potere, occuparne tutti gli spazi, esautorare immediatamente tutti i dirigenti delle correnti maggiori che hanno contribuito alla elezione ed eliminarli politicamente dagli organi decisionali in nome di una rivoluzione democratica che spazzi via la nomenklatura, ripescando invece come padre nobile in carica onorifica qualche dirigente della segreteria appena sostituita. In seguito consolidare il potere nei dirigenti locali e nella base.

Et voilà!

Ora, in tutto ciò, che ne è delle tensioni iperdemocratiche di cui si diceva prima, dello spirito di innovazione della rappresentanza, della "spinta costituente" che pareva molto confusamente aspirare a un nuovo e più fluido rapporto tra alto e basso, forse addirittura una nuova governance generale, a nuovi dispositivi di democrazia della decisione, che ha agitato l’esordio del Pd ma che forse scorre sotto traccia in una miriade di piccoli e grandi movimenti anche distanti tra loro degli ultimi venti anni, dai democratici referendari ai girotondi, dai social forum alle primarie, dagli esperimenti di bilancio partecipativo al no/new global? Ammesso che esistano, non era un’ingenuità e un errore pensare che quelle tensioni potessero trovare soddisfazione in un partito classicamente inteso, per quanto di onesti padri come Prodi o deboli figliastri come Veltroni?
Pace alle anime belle se la talpa scava ancora.

* Anche se, leggere tra i relatori nomi come quello di Pierfrancesco Majorino mi fa pensare che forse facevano prima a presentarsi con Topo Gigio.

panebianco a me mi fa una pippa

(se escludiamo il fatto che i suoi articoli sono di un bel po’ più corti)

Fare i politologi non è un lavoro complicato e oltretutto, se lavori per un grande giornale, ti pagano bene.

In questi giorni tutte le analisi concordano su due punti: più ancora di Berlusconi, ha vinto la Lega, e la vittoria si spiega col binomio radicamento nel territorio + paura e insicurezza.

• Vediamo, punto uno. Abbiamo un partito che esiste da 30 anni, che da 30 anni dice le stesse cose, che da un giorno all’altro raddoppia i consensi, e questo sarebbe dovuto al radicamento nel territorio. Se ci si pensa un secondo è una ben bizzarra spiegazione. No?

Ma poi chiariamo cos’è questo radicamento altrimenti nel resto d’Italia si penserà che la Lega abbia una sezione in ogni condominio (no, semmai una cellula dormiente). Il radicamento della Lega, dal punto di vista dell’azione politica, consiste in questo: la lega fa i gazebo. Dato che è presente un po’ in tutto il Nord Italia, ha una base di militanti ristretta ma motivatissima e un linguaggio politico alquanto pop, riesce a fare gazebo un po’ dappertutto, qua e là. Ma non è che li faccia tutto l’anno, eh, anzi. Li fa ogni tanto, diciamo sotto elezioni e qualche altra rara volta per qualche campagna particolare. Ah, e poi, sempre in quelle occasioni, attacchina sui muri valanghe di manifesti super-diretti (altro che le mandrie di copy che coniano gli slogan ariafritteschi di Walter: urgenza-contenuto-messaggio vince sempre).
Per il resto del tempo il famoso radicamento, se lo intendiamo con azione politica di base, semplicemente non esiste.

Dunque tutto il contrario di un consenso che cresce voto dopo voto, negli anni, grazie a un’opera certosina di prossimità e convincimento. Semmai si tratta semplicemente della mera identità tra rappresentanti e rappresentati, tra progetto politico e aria che tira: è una questione che attiene alla costruzione e formazione del personale politico e si spiega molto di più con la natura movimentista della Lega che con chissà quale astrusa pratica organizzativa.
Non è che la Lega sia radicata sul territorio perché ha le sezioni o chissà che, ma perché è fatta da persone che abitano in un certo posto e il cui programma tratta esclusivamente di quel che succede o dovrebbe succedere in quel posto.

Per costoro Roma è lontana, un altro pianeta, una faccenda che non li riguarda se non in negativo. E non gli serve l’esperto per interpretare o almeno esprimere il posto in cui vivono, per sentire ad esempio che nelle microimprese il rapporto capitale lavoro è mutato rispetto a dove si fermano (1976) le analisi di Rifondazione, che l’ipersfruttamento necessario a mantenere la competizione sul mercato coinvolge tutti, che la finanza le banche e la grande impresa sono nemici reali o potenziali, che il territorio è stato sventrato, deturpato e svenduto senza percepibili miglioramenti in termini di infrastrutture, che il welfare è del tutto inefficiente e non copre i nuovi bisogni, e così via. Lo sanno, anzi lo sono. E la loro risposta (teniamo qui i soldi), anche se ahimé del tutto incongrua, ha una razionalità che sarebbe sciocco sottovalutare – e non è nemmeno una richiesta di abolizione del welfare, tra l’altro, come i Soloni di Repubblica si ostinano a sostenere.
 
Del resto la Lega è anche il partito che conosce le fluttuazioni più macroscopiche in fatto di voti. Storicamente cresce quando sta all’opposizione e cala quando sta al governo. Oggi è tornata ai livelli che aveva 15 anni fa, quando conquistò addirittura Milano. Poi è progressivamente calata riducendosi della metà, a seguito di prove di governo non proprio esaltanti (spiegazione: il personale politico della Lega, specialmente quello nazionale e tranne rari casi – Maroni – è piuttosto improvvisato e scelto in base alle proprie qualità oratorie o di presenza e attivismo militante e di fedeltà, piuttosto che di valore in campo amministrativo e tecnico o culturale o altro. Risultato, quando sono chiamati a svolgere compiti di responsabilità da cui potrebbe scaturire un guadagno in termini di applicazione dei propri punti di progamma, l’azione di questi uomini – e anche donne, ci si ricordi la Pivetti – è quello che è. Qualche esempio: Formentini, il sindaco di Milano più comico del dopoguerra, oggi finito nel Pd, per dire; il porcellum, l’ingegner Castelli alla giustizia…).

Dunque, presenza sul territorio: sì, in un certo senso. Ma soprattutto assenza degli altri, eh.

• Paura e insicurezza: è una questione ormai diventata dogma, figuriamoci se mi azzardo a metterla in dubbio.

– Paura del micro-crimine legato all’immigrazione irregolare e percepito direttamente sul territorio (in Italia gli unici reati che aumentano, pare, sono borseggi e furti e in quel campo, almeno se ci si base sul dato in verità alquanto deficitario delle persone arrestate, gli immigrati irregolari vanno alla grandissima – mentre del tutto irrealistica e falsa è l’idea alimentata dai media che nell’aumento della violenze sulle donne l’immigrazione c’entri qualcosa).

– Insicurezza per la competizione globale che manda in crisi il tessuto delle piccole e medie aziende che ha fatto lo sviluppo del Nord, anche contro la grande azienda pubblica e privata.

Tutto ciò farebbe dimenticare alle classi popolari le differenze e gli interessi di classe e le spingerebbe a un’alleanza comunitaria e difensiva (ma in realtà suicida) con gli interessi del tessuto di microaziende suddetto. Il padrone della piccola aziendina che gira col Suv alleato ai suoi dipendenti – italiani o stranieri regolari – che arrivano in azienda in Panda o sul motorino smarmittato, contro l’irregolare e il Rom che deturpano il territorio visivo, infastidiscono o rendono insicura la vita quotidiana con le loro brutte facce. E contro le aziende cinesi. E contro lo stato e il suo welfare solidaristico e assistenziale, che con le tasse rubano la ricchezza del territorio per (non) restituirla in servizi scadenti, clientelismo e malaffare.

È una lettura che va per la maggiore, coniuga sociologia con xenofobia, contiene una buona dose di verità e sembra persino di sinistra (a parte il fatto che il welfare italiano è ben poco solidaristico e redistributivo, essendo anzi per più di due terzi assicurativo, cioè costruito sulle pensioni e non su servizi universali e quindi a dirla tutta difenderlo così com’è non equivale esattamente a dire una cosa di sinistra, semmai democristiana).

Leggere la società e la politica attraverso le emozioni però è un esercizio di equilibrio. Senza dubitare di queste analisi, al massimo posso chiedermi perché si parli tanto di paura e così poco di odio, e per nulla di desiderio. A me l’odio pare più interessante, per dire. A rivangare nella memoria ricordo che era considerato piuttosto di sinistra un tempo, quando si cercava almeno di distinguere tra radice di quel sentimento e luogo in cui si scarica. E tra l’altro non me lo vedo chi vota Lega come un tipino timorato e impaurito, a me sembrano tutti belli incazzati, piuttosto… Ma quello dell’odio e della paura sarebbe un discorso lungo e scabroso.

Quanto al desiderio… La sinistra ha smesso da secoli di costruire le proprie analisi della società rintracciando il desiderio che l’attraversa e le maschere con cui si traveste, il che spiega perché le sue risposte siano per lo più frontiste, difensive, conservatrici, catastrofiste, altezzose, snob, moraliste, depresse, tragicomiche e tendenzialmente suicide. Ma sarebbe un altro discorso, appunto.

La paura, sorella dell’emulazione e genitrice dell’ordine, produce mera conservazione quando non reazione. Produce la destra classica. Ma tutto è la Lega fuor che classico, fuor che mera conservazione: la Lega è il soggetto politico più radicalmente sovversivo – purtroppo anche quello più sgangherato – prodotto in Italia dal 1921, un soggetto indipendentista, organico alle profonde trasformazioni produttive avvenute in alcune regioni del Nord Italia e ad alcuni dei soggetti sociali emersi in quel frangente, un soggetto che mira apertamente a smantellare la struttura dello "Stato oppressore" politicamente e finanziariamente.
Sì, poi uno pensa al parlamento padano e al dio Po dei celti o sente Bossi delirare di spiritualismo e tende ad archiviare la faccenda come folklore politico di un gruppo di squilibrati, altro che iperdemocraticismo da rivoluzione americana, e in parte però sbaglia, perché il punto è lì – o avrebbe potuto essere lì, in un mondo migliore…

Vabbé, torniamo sulla Terra e alla Lega che vince le elezioni.
Vorrei far notare: da dove viene il voto alla Lega "in più" rispetto al risultato modesto di due anni fa? È piuttosto accertato: viene da Forza Italia (Cacciari, che in queste cose non sbaglia, dice che in Veneto la Lega ha massacrato FI).

Ora, com’è noto FI poco prima delle elezioni si è unita a Alleanza nazionale in vista di un futuro partito unitario. E AN è notoriamente un partito assai poco tenero verso l’immigrazione (vien quasi da dire che lo sia in modo culturalmente più strutturale rispetto alla Lega, perlomeno a dar credito alla nostra poco argomentata distinzione tra paura e odio). Dunque, FI si allea con un partito del genere, e parte del suo elettorale la premia… votando Lega, e la cosa sarebbe motivata con "paura e insicurezza". Non dico di no, ma forse non è così semplice. Una scelta del genere non mi stupirebbe per quei voti in transito dalla sinistra radicale alla Lega (ma sono piuttosto pochi, tutto sommato).
Ehi, forse qualcosa non torna?


I miei 5 centesimi: e se il problema fosse proprio quell’alleanza, al Nord mai digerita, con un partito "romano e statalista" come AN? A nessuno tornano in mente le antiche (e poi naturalmente rientrate, come è costume suo) sparate del Bossi su "noi siamo un partito di lavoratori, noi ai fascisti spariamo a vista"? Non è che una parte di quell’elettorato fluido tra FI e Lega vede come il fumo negli occhi il Pdl, cioè l’unione strutturale tra FI e i noti "fascisti" bossiani? E se addirittura il problema fosse ormai Berlusconi, che agli occhi di questa frazione di elettorato non è più – o non è mai stato del tutto, in realtà – affidabile, in quanto non organico alla famosa base sociale della Lega? Meglio fermarsi qui, anche i politologi hanno un limite.

Il Pdl cresce un po’ al Sud e barcolla alquanto al Nord, l’alleanza tra Lega e berlusconismo sembra solida eppure si cannibalizzano a vicenda e le analisi della vittoria al momento fanno parte più del piccolo cabotaggio speculativo che di uno sguardo capace di anticipazione. E senza anticipazione, niente politica, come recitava il vecchio operaista.

il prezzo del biglietto

Un giorno, il più grande violinista vivente si ferma in una stazione della metropolitana di Washington (facilitato dal fatto di essere americano), estrae uno Stradivari e suona brani classici da vertigini per 43 minuti.

Non è chiaro cosa volesse dimostrare; ovviamente quello che accade è che non se lo fila quasi nessuno. Alla fine però, nell’indifferenza generale, si porta a casa 32,17 dollari (e giustamente nota: «Beh, potrei viverci, e non avrei neanche bisogno di un agente!»)

Il ruolo del contesto è un po’ la scoperta dell’acqua calda.
«Quando ti esibisci per un pubblico pagante – riflette il violinista – il tuo valore è già riconosciuto. Ma lì, ho pensato: perché non mi apprezzano?». Ovviamente perché nel primo caso c’è il contesto, l’informazione, la validazione interna del sistema dell’arte con i suoi critici, le sue riviste, i maestri di violino, i professori di estetica, il pubblico di appassionati, i colleghi, ecc., poi il prezzo del biglietto, la sala… Un’infinità di pratiche in atto che inquadrano il fatto e il suo valore. Al punto che senza quel contesto quasi quasi il fatto nemmeno esiste, almeno per il 99% dei passanti, cioè io, tu, lei ecc.

In una sala da concerto i rapporti sarebbero invertiti: il 100% del pubblico riconoscerebbe a priori il valore dell’evento, anche solo per emulazione o gregarismo e non capendo nulla di musica. Tutti saprebbero che "quello è il più grande violinista vivente", perché così è scritto sulla locandina all’ingresso.
Allo stesso modo, probabilmente, se la tv annunciasse: domani alla stazione di Rogoredo si esibirà il più grande violinista vivente, si radunerebbe una folla del tutto paragonabile a quella dei consueti concerti di violino, più qualche curioso.
Ma se i passanti di Corso Venezia fossero teletrasportati in una sala da concerto, continuerebbero per lo più a disinteressarsi dell’evento cui gli tocca assistere, ma apprezzerebbero all’istante il suo valore, che possono infatti disconoscere solo dopo avere riconosciuto.
Dunque, quel valore non dipende dal numero di persone che apprezzano, ma dal contesto. Nel contesto giusto, quella è grande arte. Al di fuori «è solo un ragazzo che strimpella»; per questo il "valore" esprime già in sé il proprio esser destinato all’oblio nichilistico, o almeno così ho letto da qualche parte, ma sui significati filosofici di questa storiella glisso poco elegantemente.

(Una negoziante brasiliana presente al fatto, dopo aver bellamente ignorato il musicista, afferma con una certa sicumera: "Se qualcosa del genere fosse accaduto in Brasile, tutti si sarebbero fermati ad ascoltare, non qui. Un paio di anni fa un barbone è morto, e non si è fermato nessuno". Il che, al di là della nota di sociologia della banalità, non fa che confermare il ruolo del contesto, cioè del riconoscimento interno a una serie di pratiche. In Brasile sarebbe accaduto altro, all’Esselunga altro ancora, nella piazza di Vigevano di nuovo altro…).

Pensa poi se, in un angolo qualsiasi di una città – che magari "non esiste" – uno si mettesse a strimpellare o a declamare, e non fosse nemmeno il più grande declamatore vivente, anzi se fosse un declamatore qualsiasi, uno degli infiniti mostri che stanno in basso. Quel che accadrebbe, al netto di interventi "esterni" tipo un buon ufficio marketing, è che verrebbe "riconosciuto" a orecchio da qualcuno, che si fermerebbe apprezzando, e ignorato da tutti gli altri. E questi uni e questi altri non sarebbero in rapporto al suo "valore": il caso del più grande violinista vivente lo conferma.

(Tra parentesi: ciò segnala che qui non si sostiene affatto che "qualsiasi cosa è arte, dipende dal contesto", semmai il contrario).

Si dice: "le parole troveranno dal sole i propri destinatari", il che significa però che troveranno solo quelli, e non è sensato ne trovino altri, e purché la metropolitana non sia chiusa per sciopero.

Cioè: in condizioni normali – si potrebbe dire: quando la prossimità è di tipo prevalentemente tattile, il che accade nel vis a vis oppure nella disseminata tattilità secondaria creata elettronicamente – la proliferazione delle minoranze, che altri chiamano coda lunga, è la soluzione ecologicamente più probabile (il che non fa che aggravare la mia perplessità quando leggo questi pur interessanti dibattiti).

Pensa com’è passata di moda l’utopia del «metti la tua musica sul nostro sito, con internet tutti possono diventare famosi”. L’esclusivo di massa, checché se ne dica, non c’entra con la rete.

non penso quindi tu sei

Su Nazione indiana Sergio Garufi rilancia in modo accorato La possibilità di un’isola, il romanzone uelbecchiano dell’anno scorso.

A come uelbec scriva, nel pezzo si dedica una riga e mezza (scelta che mi vede concorde). Tutto il pezzo parla di quel che uelbec pensa: del mondo, della vita, della felicità, insomma cosette così, per le quali di solito noi illetterati chiediamo lumi a papa ratzinger o allo psicologo Morelli. Sciocchini che siamo.

Ecco il piatto forte:

«L’uomo è esattamente ciò che sembra essere, “una specie animale discesa da altre specie animali con un processo di evoluzione tortuoso e penoso”; nient’altro che materia destinata a decomporsi, in cui non rimarrà “più alcuna traccia di attività cerebrale, né qualcosa che possa essere assimilato a uno spirito o un’anima“. La causa di questa regressione irreversibile è la morte dell’amore, inteso come sentimento altruistico di annullamento dell’individualità, il cui decesso è dovuto alle eccessive complicazioni, ai sacrifici e alle responsabilità che esso comporta. “Siamo solo corpi desideranti”. La vita di un essere umano si può così sintetizzare alla stregua di quella di un bovino da supermercato: “Nato e vissuto in Francia. Macellato in Francia”. (…)  suprema impostura della procreazione, che ci incatena ancora una volta alla ciclica condanna delle cause e degli effetti (…) in questo deserto assiologico e fisico si compirà il fallimento di ogni speranza (…) l’inanità del mondo non gli sembra più accettabile (…) dirigersi verso “un nulla semplice, una pura assenza di contenuto” (…) “la felicità non è un orizzonte possibile”».

«L’evidenza della morte materiale distrugge ogni speranza di fusione», aveva detto altrove.
Di quale fusione avremmo la speranza? Ve lo dico dopo.

Io per me, che nei ritagli di tempo sono un pomposo snob, ho qualche dubbio, e illustri precedenti in tale dubbio, che uno scrittore sia importante in rapporto all’ideologia in cui mostra di credere, anzi in sé la ritengo secondaria (perché egli la infili nei suoi libri, in quanto pensa pieno di entusiasmo o di mitomania che il mondo ne verrà mutato all’impatto con la superficie libresca, o per rispecchiarsi nella sua creazione ricevendo dalla forma scritta per retroazione una qualsivoglia definizione anche negativa di sé, un rimedio alla costitutiva irrecuperabile dispersione dei fatti dell’esistenza singolare per via dell’intensificazione emotiva derivante dall’invenzione libresca dei suoi termini e dei suoi personaggi*, o semplicemente per venir ammirato in quanto bella forma e bella in quanto propagata per contagio dalla forma scritta, non indago**).

Quel che ho intuito, da lettore, è che non è tanto importante ciò che pensa il narratore, quel che vuole dire, le sue verità su questo o quello che a volte ci propina (come se le verità si potessero brandire o possedere, come se di verità non fosse ricoperto il mondo, e non per modo di dire) ma quel che ci fa con queste verità, anzi con la verità di sé e del suo punto visuale, come mette in scena quel punto così da distanziarsi da sé di un nonnulla, inavvertitamente, anzi proprio ciò che dice quel nonnulla non dicendolo, il fatto che, senza sapere come, dentro ciò di cui parla metta anche se stesso, apparentemente invisibile, ma un se stesso visto da fuori, il che è costituzionalmente impossibile per ciascuno di noi data la centralità di sé che ognuno sperimenta di continuo e che non è che l’abitudine acquisita da neonati alla centralità rispetto alle proprie percezioni, e ciò moltiplicato per infiniti centri senzienti, ma la de-centralità di sé, quella è impercepibile: tu sei quello che non incontrerai mai. Tranne che nelle storie, insomma, e involontariamente.
La "storia" parla per lui e se è in gamba anche contro di lui.
(tra parentesi, mi pare che uno dei sogni delle avanguardie fu di conquistare un realismo più ampio, contro il realismo ottocentesco che allestiva il suo teatro dell’io tra soggetti e oggetti, un realismo in cui questa de-centralità dell’io e dei suoi limiti fosse incorporata esplicitamente e non per tramite di interpretazione infinita – sogno che finì per auto-infettarsi implicando sé nella ricerca, sogno antinomico e labirintico quindi, che progredì fino a far questione di sé e ad autodistruggersi proprio nella figura del labirinto).

Bisogna immaginare che oltre all’autore, al narratore, al personaggio, all’eventuale attore ci sia un servo di scena occulto, di cui nessuno sospetta l’esistenza o che è talmente consueto che par diventato parte del paesaggio visivo (come in quei romanzi dell’800 dove devi girare 200 pagine prima di capire che il tè e le colazioni non arrivano da soli al tavolo con le proprie gambe, ma c’è un servitore che li porta, cioè i personaggi di cui stai leggendo hanno tutti servitù in casa ma nel testo manco esiste, non si nomina, come non si nomina lo scopino del cesso, non si descrive per filo e per segno la mobilia della cucina o, guardaunpo’, il fatto che il protagonista ha studiato mentre il suo servitore sa dire in buona lingua solo sì o no).
Ma è quel servo di scena, insaputo o troppo saputo e quindi rimosso, e rimosso e quindi agente totale, è lui che sposta i mobili sulla quinta del testo e fa apparire quel che appare, e non quel che l’autore pensava di volere. Ma fuori di metafora, chi è il servo di scena, nel nostro caso, che trasforma un testo in letteratura? Chi è che salva l’autore dalla fiducia pomposa e deleteria (letterariamente deleteria, eh) nella bontà delle proprie idee? Al momento non saprei proprio.

Vi piace questa teoria letteraria? Non è così nuova comunque.

Resta il fatto che pensandola così, sulla scarsa importanza dell’ideologia dell’autore in merito alla rilevanza della sua opera, devo ammettere che l’ideologia di uelbec, di per sé un distillato di patetismo sentimentaloide senza il coraggio di sé, di nostalgia del nirvana e della mamma irraggiungibile (la fusione di cui sopra, evidentemente irraggiungibile se non per regressione amniotica), di frigna da moccioso mascherata da profondo pensamento di adulto maturo e disilluso (che siderale distanza dal vero bimbetto frignante descritto senza remore in Combray, o dagli adulti infantilizzati a forza di calci nel sedere di cui in Ferdydurke raccontava Gombrowicz), questa ideologia incapace di pensare i propri presupposti, articolazione del tutto senza profondità, senza dialettica interna, rigida come un baccalà, devo ammettere dicevo che la presenza di questa ideologia non depone necessariamente a sfavore delle sue qualità letterarie. In fondo Céline non era un nazista? echissene… L’universo della malevolenza piccolo borghese ci sarebbe ignoto senza di lui. E che scrittura, ragazzi!

Se non fosse che di qualità letterarie, nel Nostro, io non ne vedo. Problema mio eh. A me pare proprio una liala per palati fini. Boh.
Certo in un mondo letterario in cui se non sei buonista sei cattivista, terzium non datur e anche un bidone diventa un vaso di fiori, purché abbia qualche attitudine a gesticolare le sue (sue eh, proprio sue sue… Schopenhauer questo sconosciuto) fondamentali opinioni sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto. Nientemeno.

Una recensione più divertente? Eccola, nei meandri del passato.

* Proust enuncia proprio questa teoria del romanzo all’inizio della Recherche, in Combray.
** Mi pare che Gombrowicz enunci un dubbio del genere nell’introduzione a Filodor, in Ferdydurke.

più natiche per tutti

Un autore satirico non è migliore dei suoi bersagli
(Lenny Bruce)

La satira fa ridere; fa anche un po’ male, le due cose assieme – nel senso che a volte provoca dolore: senza esagerare, mica è una fucilata. Chi ne è colpito e soffre ahilui ferito nell’orgoglio, ha l’impressione spiacevole di essere vittima di una specie di piccolo linciaggio, una gogna verbale e in più ingiustificata: i più, infatti, si pensano innocenti e malintesi (non è il caso dei manigoldi consapevoli, che dalla satira non sono nemmeno scalfiti poiché la sanno nemmeno metà del vero).

Si potrebbe pensare che tra la satira, l’insulto fatto senso comune, e l’invito alla soppressione fisica della vittima per moto popolare non passi poi molto, e che la gogna verbale evochi senza troppa timidezza per l’appunto la gogna vera, il linciaggio manesco, la folla belluina che sciama dal teatro e appende l’oggetto della pubblica disapprovazione per i piedi sulla pubblica via (notina*).

Ma no, ovviamente, le cose non stanno così.
La gogna, lo spettacolo pubblico della tortura, non fa ridere. Di per sé è solo un fatto tecnico, in genere violento. Per via collaterale il pubblico presente ride, e l’ha sempre fatto a partire dai giochi romani passando per i ceppi medievali fin su alla gogna mediatica, perché la gogna serve a far sbavare di piacere e di vendetta consumata chi abbia un odio pregresso per la vittima o non avendolo se lo possa inventare lì per lì.
Magari l’idea stessa di "pubblico" ha a che fare con le gogne, chi lo sa.
Ma nella gogna non c’è arguzia, non si vede umorismo, se non vogliamo considerare umoristica l’immagine dell’uomo scimmiescamente seduto e immobilizzato ai ceppi (e capita che chi umili il debole assieme ne rida: natura ambigua del riso o abisso della ferocia?). Nella gogna non c’è costruzione culturale, anzi il "fatto culturale" manca proprio. C’è solo scambio di ruoli veri o presunti che siano. E scambio effettivo, reale, non per modo di dire: chi stava in alto ora è rotolato ai nostri piedi e scambia due parole con fanghiglia e topi.

Chi sghignazza dicendo "ora ridiamo noi", spesso dunque non sa distinguere le persone dai personaggi, non conosce la differenza tra scrivere "una sberla" e darla.

L’esser pubblica della gogna è infine lo strumento bellamente usato da qualcuno per "insegnare" a qualcun altro la civiltà, cioè il comando, ossia alla fine il governo dello spirito sul corpo e del ricco sul volgo (il gatto tortura il topo, e i bambini possono torturare il più debole tra loro per anni: da questo punto di vista non abbiamo inventato niente), ma essa è insieme il prototipo dell’"inciviltà", se si intende invece con civiltà il tentativo di ricomprendere la natura su un livello più proprio: è anzi un appello al peggio, al branco, a colpire l’indifeso sapendosi protetti.

Mentre la satira è proprio il contrario: colpendo attraverso una mediazione culturale – le parole letterariamente costruite, l’immagine, il motto di spirito – vuole "incivilire", non vuole far sbavare. Vediamo come.

Se un tizio viene satireggiato e si incazza, può voler dire che la satira ha colpito un punto vivo, infatti quando è moscia fa solo sbadigliare.
Ma: per convenzione l’incazzato non deve far vedere il proprio livore! Infatti si ritiene, per convenzione, che il colpito debba dimostrarsi "incivilito" e quindi debba riderne, "stare al gioco", anche se invero deve solo recitare questa parte, deve cioè ridere ritualmente, non essendo in genere affatto incivilito e volendo anzi dentro di sé con tutto il cuore gettare il satireggiante in pasto a piranha da lungo tempo digiunanti. Ma il riso rituale del satireggiato, pur abbozzato, è già sufficiente per dichiarare assolta la funzione incivilente della satira, dato che civiltà e rito pressoché coincidono, e di ciò che accade "dentro", "nella testa", le persone serie non si occupano.
(Va anche detto che spesso, debolezza dell’umano, il satireggiato reagisce andando oltre le convenzioni, in un range che va dalla controbattuta stentata all’acidità manifesta, fino alla richiesta di censura o alle minacce fisiche immaginarie o reali.)

Ma se invece un poverocristo è sottoposto alla gogna, quella vera, sarebbe curioso che si pretendesse da lui anche la risata; tuttavia la si pretende dicendo: "Che fai, non ridi più? Ridi, su". Questo però fa parte della tortura, che non è un gioco né una finzione.

Ma perché la satira è interessante?

Ovviamente c’è il caso in cui essa riveli il verminaio del potente dietro l’oro che luccica – tradotto, il lato criminale della rispettabilità. Tuttavia difficilmente chi ha vero potere ignora questo lato di sé, così che la satira non gli rivela proprio nulla, semmai lo rivela al mondo. Il che spiega perché l’autore satirico debba sempre guardarsi le spalle.

Ma più in generale, tolti questi casi coraggiosi ed eclatanti, la satira vive anche di piccolo cabotaggio, di piccoli bersagli, di piccoli atteggiamenti sbertucciati.
In questi casi è interessante perché rivela un lato mostruoso, spiacevole, imbarazzante. Animale. Diciamo: rivela l’esistenza delle natiche. E lo rivela prima di tutto al satireggiato. Non che quel lato sia di per sé mostruoso: anzi è normale. Tutti hanno le natiche. Solo che lui, noblesse oblige, le ha scordate al bordo del suo campo visuale, o smaccatamente le ha nascoste.
Diciamo che si preferisce a volte fingere, anche senza averlo programmato, che in noi trovino posto solo interessi astratti, nobili, oppure genuini, benigni, pura espressione dei nostri moti più "personali". Invece ce ne sono anche di personali in senso meno nobile, intrecciati assieme: che ne so, l’ambizione malcelata, una paura sorda, qualcosa da ottenere, il gregarismo, un volersi mostrare così, con una faccia appena un po’ migliore della propria (o un po’ peggiore nel caso il maledettismo sia di moda). Il che è banale e normale: non saremmo persone se non avessimo moventi personali. Cucire su questo una "metafisica della natica" o della malvagità umana è un’attività rispettabile, ma un po’ ossessiva, e spesso soporifera.

Alludendo alla "naticità", la satira rivela dunque un non-mostro (e non mostrato) che viene fatto passare, dalla vittima stessa, per mostro: infatti non lo mostra (o meglio crede di non farlo). E se qualcuno adombra il sospetto, si incazza: "Io non sono affatto così"!
Invece sì, caromio, sei anche così.

Ciò vuol dire che la satira corre un rischio: il moralismo e per contrappasso l’ipocrisia, cioè il trombonismo rovesciato, nelle forme dell’indignazione permanente o del cinismo di maniera, o della rabbia rancida dei bei tempi andati. Come se il satireggiante fosse immune da ciò che scova nel satireggiato e non invece ne rivelasse il tratto comune: anzi "il" comune.  Un satireggiante senza natiche non s’è mai visto, checché se ne dica.

Ma nei casi migliori la satira ha una possibilità, tutta giocata sulla natura "culturale" del suo gioco: permettere al mostro di manifestarsi per ciò che è ossia: singolarità. "Monstrum" è ciò che non è comune, l’evento singolare, straordinario, che ci avverte della volontà degli dei. Dunque, in modo che sta al di là della capacità di comprensione del qui presente, il comune parrebbe essere il non comune.
Non c’è persona senza natica, ma ognuno ha la sua e se la deve portare dietro che lo voglia o no.

notina*
Vale anche l’inverso di chi a teatro satireggia facendo impiccare per finta Cinna il poeta per scambio di persona durante la sommossa postcesaricidio, ma coi versi che faceva in fondo non se l’era meritato? Sublime doppio gioco dell’autore.

la strategia del paracarro

Il Professor Argano, che manca da questo blog da un po’, mi manda un pezzo politico. Nel suo caso è sempre difficile dire se si tratti di penosi plagi da sapientino o di arguzie circolari. Ad ogni modo io eseguo.

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In politica la propaganda ha un suo ruolo importante e nessuno se ne scandalizza. Ovviamente la propaganda, anche se non c’entra sempre con la verità, ha un dovere di verosimiglianza. Se non appare nemmeno verosimile, o se è debolmente argomentata, si traduce nel suo contrario, cioè nel segno di problemi diversi o di difficoltà di rotta, o dell’inefficacia di rotte intraprese.

L’elezione di ieri è interessante non in sé: non credete a quelli che ne capiscono troppo, il Quirinale non conta quasi niente e i giochi che ci si fanno intorno hanno valore tattico del tutto estraneo all’oggetto. Chiunque provasse a recitare quel ruolo in modo diverso da quello di papà della patria con delega notarile ne uscirebbe pazzo (Cossiga insegna). Mica sarà un caso che ci mandano sempre pensionati o seconde file. Che voleva D’Alema, prepensionarsi?

Qualcuno proclama che volesse imporre il presidenzialismo à la française, con gli atti, senza passare dal via. Eh, l’Italia è piena di intelligenti, anche troppo.

No, è interessante, l’elezione, perché illustra un po’ la situazione nel centrodestra.
Partiamo dalla propaganda.
Si dice:
1) nulla contro Napolitano, è di alto profilo, sarà un buon arbitro, auguri.
2) Quello che non andava era il metodo, serviva la rosa di nomi.
Delle due l’una: se due nomi in più servivano per bocciare Napolitano, allora non è vero che è un buon arbitro; se servivano per scegliere comunque Napolitano, l’obiezione è di un tale formalismo che la definirei prepolitica, più sottile del classico dito da nascondimento.

3) Ma così si è arrivati all’occupazione di tutte le cariche dello Stato! (i più accesi dicono regime).
3a) Quindi il Quirinale andava dato all’opposizione.
Ora, le due Camere erano a maggioranza anche prima; quanto al Presidente, perché mai nella rosa proposta dalla Cdl compariva Amato? Amato è forse in quota Cdl? No. È più a destra di Napolitano? Ma dove? È più "arbitro" di Napolitano? Semmai lo è molto meno: Internazionale socialista, politico attivo, futuro ministro. Però Amato andava bene, mentre con Napolitano c’è l’occupazione. Le bugie hanno le gambe corte.
Senza contare che, quale maggioranza in attesa di incarico affiderebbe questo compito a un avversario? Vabbe scemi ma insomma…
3b) Se non della Cdl, doveva essere "terzo".
Qui siamo al comico. In un sistema bipolare i politici terzi non esistono. Rimangono i tecnici, certo. Ma perché un economista, e non, che so, un idraulico? Io conosco un tecnico informatico di prim’ordine, magari andava bene.
3c) Vabbe, non terzo, deve essere arbitro.
Allora si torna al punto 1): Napolitano è un buon arbitro.

E allora?

Allora è chiaro che si poteva votarlo, ma non si poteva dirlo. E ogni limitazione dell’azione in questi casi, specie se non del tutto condivisa, equivale a infilarsi in un vicolo cieco. Con riflessi anche sul futuro? Chi può dirlo.

(nb: com’è che l’Unione ha azzeccato una mossa, per una volta, mettendo in difficoltà gli avversari? È tutta farina del loro sacco? Io suggerisco di osservare piuttosto la "rosa" proposta domenica dalla Cdl e confezionata dal duo lescano Fini-Casini: come mai mancava proprio quel nome, cioè dell’unico DS papabile, oltre a D’Alema? Escludere per alludere? Eh?
Stupisce poi nessuno abbia notato questa strana vicenda, pochi giorni fa – andate a leggere i flash delle 11:37 e delle 11,54. Eh?)
 

Chiunque vede che l’inverosimiglianza e debolezza argomentativa nasconde altre cose.
Come si spiega lo schiacciamento su posizione tribunizie, furbamente denunciato da Casini? Un tale schiacciamento, assunto come strategia, consisterebbe in una rinuncia all’azione politica, nell’affidare cioè le proprie speranze al collasso autonomo dell’avversario: rimanere sul ciglio della strada sperando di veder passare il carrofunebre del nemico, ululando intanto contro i paracarri.
Pur disponendo di avversari con provata tendenza al suicidio, si tratta di una tattica poco sensata, in particolare se portata avanti dalla forza principale della coalizione con oggettive responsabilità di guida: una tattica immobilistica che in più espone quella forza alla capacità di movimento dei suoi stessi alleati.

Del resto, come la sinistra ha dovuto imparare (non tutta…) gridare al regime non paga: o il regime c’è, e allora vince anche se gridi, o non c’è, e dopo un po’ si finisce per passare per menagrami…

In politica parlamentare (parlo di quello; la politica vera forse è un’altra, chissà) è importante esprimere iniziative che creino consenso anche in campo avverso o almeno che ne mettano in crisi in qualche modo la coesione. Iniziative capaci di sparigliare. Dire "regime" ottiene evidentemente l’effetto contrario. Che logica è?
Vediamo nel dettaglio.

– Per Casini, una logica pessima. L’UDC ha interesse a mantenere invece alta la quota di movimento allo scopo di rompere l’asse Lega-FI e di conquistare così l’egemonia politica – anche con Berlusconi, presente, perché no. Non a caso Casini è l’unico a destra che può vantarsi di aver vinto (e non si fa pregare nel farlo pubblicamente): si è mosso, ha provato a sparigliare, ha sventato con successo la contrapposizione a specchio D’Alema-Berlusconi che l’avrebbe marginalizzato, è rientrato in gioco, ha messo alle corde la Lega costringendola a chiedere un prezzo altissimo.

– Per Fini in teoria varrebbe il discorso che vale per Casini. Tuttavia Fini ha il problema di essere ormai commissariato nel suo partito. Fa lo sborone in TV, ma poi deve mediare con Alemanno, Gasparri e La Russa. Il primo è un dritto e gli farà le scarpe, il secondo… sul secondo meglio stendere un velo. Il terzo non è pervenuto.

– La Lega fa il suo gioco come al solito. Aspetta il referendum, e in ogni caso può sempre far valere l’opzione "valli bergamasche", in cui si ritira in battagliera solitudine quando non riesce a trescare. Come dire: che gli frega a loro?

– Per Berlusconi la faccenda è delicata, invece. Seguendo la Lega, prova a fare come l’altra volta: spera che il suo avversario si sciolga da solo. Come detto sopra, questo può essere un segno di debolezza. C’è da dire che l’altra volta gli è andata bene (anche allora era dato per morto, poi l’eutanasia prodiana lo rivitalizzò). C’è il caso che stavolta vada diversamente: l’Unione pare più compatta, ci sarà il PD che accontenterà molti, e via discorrendo. Rischia di essere una tattica pericolosa, non tanto verso il governo, quanto verso gli alleati. In generale, sarà meglio che come Cesare d’ora in poi si guardi le spalle. Dagli amici.
G.B. Argano
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sei precario? parliamone

Luca e Leibniz riprendono un pezzo di Ichino sulla precarietà, comparso pochi giorni fa sul Corriere, citando questo passo:

Resta da chiedersi perché il precariato sia oggi percepito diffusamente come problema più grave rispetto al passato, visto che la statistica non ne conferma un aumento complessivo rilevante. È ben vero che, secondo gli ultimi dati forniti dalla Banca d’Italia, di coloro che sono passati dal non lavoro nel 2004 a un lavoro dipendente o autonomo nel 2005, il 40,5% l’ha trovato nella forma del contratto a termine, del lavoro interinale o del lavoro a progetto: percentuale che era andata lentamente crescendo negli ultimi anni. Ma se la quota complessiva di quei contratti di lavoro precario resta contenuta ben al di sotto del 20% del totale, questo significa che in due casi su tre (se non tre su quattro) essi si trasformano abbastanza rapidamente in lavoro a tempo indeterminato.

Io direi che la sintesi di Ichino è forse un po’ ottimistica, e come De Mita vorrei fare un ragionamendo.

Ovviamente, l’essere fisso del rapporto "entrate nei lavori flessibili-uscite nei lavori stabili", di per sé non dice nulla circa il tempo in cui quel passaggio avviene (potrebbero anche essere 10 anni!). Tutto sta a vedere cosa significa "abbastanza rapidamente". Il che, come ovvio, cambia molto le cose.

Ma, si dice, i disoccupati che nel 2004 non lavoravano e che nel 2005 hanno lavorato, quasi per metà hanno trovato lavoro con contratti flessibili: se non ci fosse passaggio "abbastanza rapido" a contratti stabili, la quota di contratti flessibili dovrebbe esplodere, invece non accade.

Posto che lavorare è in generale meglio che essere disoccupati (questo non va dimenticato nel valutare i contratti flessibili), occorre però guardare bene l’analisi.
Intanto, i dati della Banca d’Italia si riferiscono al 2005; direi che per prudenza occorrerebbe aspettare almeno i dati del 2006 circa il rapporto flessibili-stabili per vedere se davvero il turn over si è mantenuto simile. Basarsi sui dati del 2005 per affermarlo (Ichino: «tra il 2001 e il 2005 la quota di contratti a termine è rimasta stazionaria») non mi sembra proprio il massimo.
Ma poi occorrerebbe considerare i numeri reali. Non disponendo delle cifre, faccio un’obiezione di metodo, pronto a farmi smentire: quanti devono essere in un anno i nuovi lavoratori flessibili (o quanti anni devono passare) per cambiare decisamente il rapporto 85-15, posto che tutti i lavoratori con contratti stabili non si suicidano di colpo né vanno in pensione tutti assieme?
La percentuale di 40,5%  sopra citata è senz’altro alta (e significativa), ma non riguarda, si noti, "tutti i nuovi contratti", ma "i contratti di quelli che prima non lavoravano". Cioè, se io avevo un contratto flessibile nel 2004, e nel 2005 ho un altro contratto flessibile, non entro nel conto della Banca d’Italia. Quell’esplosione percentuale, è anche un’esplosione numerica? C’è davvero da aspettarsi un aumento drastico e immediato della quota generale dei contratti flessibili, oppure questa semplicemente accelererà un po’ la sua curva?

Se questa obiezione fosse plausibile, dire che "la quota complessiva rimane stabile" sarebbe almeno prematuro. Dire che "la precarietà" è un problema solo per un tempo "abbastanza rapido", sarebbe un po’ semplicistico, e non considererebbe il contesto, che è lui, non la precarietà, il vero problema.

Del resto – ma credo che su questo Ichino sarebbe del tutto d’accordo con me – proprio il fatto che la percezione della precarietà sia "settoriale", cioè non venga percepita se non dai giovani, in primo luogo segnala che si sono fatte negli ultimi anni riforme "di comodo"  – e questo è il "contesto problematico": invece di riformare i contratti di tutti, introducendo qualche criterio di flessibilità generale sopportabile perché "spalmato" e supportato da qualche nuovo istituto di welfare, come i redditi di disoccupazione o reinserimento o simili, si è preferito far pagare i costi della flessibilità a quelli che verranno, creando artatamente un serbatoio di ipo-garantiti contro un blocco di super-garantiti; allo stesso modo invece che riformare le pensioni di tutti, si è preferito far pagare il deficit a quelli che verranno, riducendogli i contributi – con curva di rientro prevedibilmente lunghissima. Motivo: chi c’è adesso, vota i governi di adesso, chi ci sarà quando la curva farà vedere i suoi effetti – pensioni da fame – voterà i governi di allora: cazzi loro (nel tavolo del consociativismo c’è sempre una sedia vuota, quella della lungimiranza, che notoriamente non vota).
 
E in secondo luogo spiega perché tale percezione superi la dimensione "oggettiva"  e appaia ad alcuni "un grave problema" (e ad altri provochi stupore: "ma perché si lamentano? Solo il 20% è precario, come sempre"): il fatto non è che ci sono "tanti" precari, è che sono (stati) tutti concentrati in un settore.
Cioè: proprio il fatto che l’80% della forza lavoro non si percepisca precaria (e non lo sia) aumenta la percezione di precarietà di quel 20%, e proprio perché esso non è "spalmato" su tutto il fronte del lavoro, ma concentrato su una categoria peraltro estrinseca: i giovani.

Lo stesso Ichino dice:
Ora, può essere che la quota dei «precari impigliati» rispetto al totale sia aumentata più di quanto sia aumentato complessivamente il lavoro precario; ma se questo è il problema, esso non nasce né dalla legge Treu né dalla legge Biagi: esso nasce invece dall’aumento delle disuguaglianze di produttività tra gli individui nella società postindustriale, cui le imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento. Questo problema può essere affrontato soltanto col rafforzare professionalmente i più deboli, o aiutarli a trovare la collocazione in cui possono rendere di più (ciò per cui una fase di maggiore mobilità all’inizio della carriera lavorativa è indispensabile); mentre aumentare il costo del loro lavoro rischia di condannarli alla disoccupazione.

"Abbastanza rapidamente" potrebbe significare in questi casi, per un laureato, che dopo la tesi egli inizia a lavorare e, se la sua qualifica non è molto ricercata, ha buone probabilità di farlo per un paio d’anni in nero (se lavora in una regione che lo permette, se no diventano di più), e poi potrebbe farne 5-7 di cocopro con contributi minimi.
Questo vuol dire in soldoni che fino oltre i 30 anni, se non ha la rendita dei genitori e se non ha scelto un settore lavorativo in cui si è ben pagati:
A) campa maluccio, lasciando metà dello stipendio in affitto;
B) butta nello sciaquone 10 anni ai fini pensionistici.
(Basta un rapido calcolo per vedere a che età andrà in pensione uno che inizia a pagare i contributi in modo decente a 30-33 anni).
Se moltiplichiamo questa vicenda, avremo una bella cifra di persone, di giovane età, con possibilità di spesa ridotta e altissimo tasso di frustrazione sociale.

Rimangono quindi due questioni:
1) Quanto è aumentata la quota dei "precari impigliati"? Qual è il numero di anni oltre il quale non si sta semplicemente "sondando il mercato per cercare la propria collocazione" (e pazienza, noblesse oblige, se in questo periodo di frivola e spensierata bohéme, si prende la metà del collega che in genere fa lo stesso lavoro e anzi spesso lavora meno, ma ha un contratto stabile, e soprattutto si percepiscono contributi pensionistici risibili e frazionati), ma più precisamente si passa da un contratto flessibile all’altro senza troppa convinzione?
Oltre che percentuale questa quota è tale da giustificare la percezione della precarietà come un problema sociale?

2) Come si fa a "rafforzare professionalmente i più deboli", cioè a impostare un moderno welfare universalistico tarato sul lavoro flessibile di tutti (che sensatamente non va abolito, ma supportato e fornito di limiti e garanzie) che preveda solidi sistemi di sostegno nei periodi di non lavoro e costruisca, assieme a scuole e università efficienti, cultura diffusa e disponibile, ricerca di buon livello, mercato abitativo non impraticabile, una "moderna" società delle opportunità, che invece di "assistere", cerca di portare il maggior numero possibile di persone in condizione di "esistere socialmente" e di cavarsela autonomamente? La risposta è semplice: per farlo si devono spendere soldi in questa direzione.
Il che ci richiama un’altra domanda, che è poi l’unica roba seria detta qui: come si fa a trovare questi soldi, se per il 65% il welfare italiano continua a essere familistico e assicurativo? La favola che in Italia si spende troppo in servizi è, appunto, una favola. Il 65% della spesa di welfare va in pensioni (contro il 40% di media europea). Bel problema.




perché in italia i vecchi non se ne vanno mai?

Siccome leggo su un blog letterario degno di nota che il successo decennale di Berlusconi si dovrebbe al cinismo italiano inteso come dato antropologico (che è un po’ come dire che i mutamenti climatici dipendono dalla carenza di mezze stagioni), mi sento in diritto anch’io di lasciarmi andare a una vena di vacuo sociologismo alberoniano su un quesito non da poco.
Aprirei allora una discussione sulla storia generazionale di questo paese (e subito la chiudo)

Dunque, il problema forse sono i 70-80enni, la generazione del ’20-’30, che da giovane ha fatto il dopoguerra, ha costruito sulle macerie, ha importato la democrazia e il boom economico, ha comprato frigoriferi, auto fiat ed enciclopedie a rate, alcuni sacrificandosi per i figli, in fabbrica o in ufficio sotto una disciplina d’antan e con l’hobby alla domenica, altri maneggiando e scoprendo la bella vita, chi rubacchiando, chi inventandosi eccellenze (il design, la moda, il cinema…), chi devastando il paese di cemento e così via; la generazione che per prima ha mandato i figli all’università di massa e oggi per lo più si ritira, a volte recitando ancora la parte del vecchio leone (Prodi e Berlusconi sono ancora meglio di tutti i più giovani, infatti stanno lì).

Ma va detto che il problema probabilmente sono anche i 50-60enni, la generazione del ’40-’50 che, spinta all’università a inseguire un sogno altrui, o in fabbrica al nord per conquistarsi una fetta di bengodi dal nulla del paesiello, ha trovato un paese profondamente ingiusto e diviso che male s’accordava con quel sogno alfabetizzato e l’ha contestato per un decennio, qualcosa ottenendo e qualcosa no, di fatto rivoltandolo come un guanto, spesso sbagliando e pagando caro, in generale troppa impegnata nell’azione per essere seria e profonda e lasciare tracce degne di nota.
(E sarà un caso, lo dico en passant, che negli anni ’70 i giovani appena un po’ in gamba e brillanti e interessati alla politica finivano nei movimenti, standosene bene alla larga dai partiti dove rimanevano quelli un po’ scemi, tonti e grigi? Qualcuno si ricorda le vignette satiriche sul D’Alema 20enne segretario della Fgci? Ed è un caso che oggi i primi sono tutti a capo di giornali e tv, e manco si sognano di costituire un’alternativa ai secondi loro bolsi coetanei formati alla scuola di partito?)

Ma forse, per finirla del tutto all’altezza dell’intelligenza sopraffina della domanda, il problema sono anche i 30-40enni, la generazione del ’60-’70, anche se si dovrebbe prima di tutto andarla a cercare tra quelli che non se ne stanno ancora a casa da mammà o intenti a campare sulla rendita pensionistica dei settantenni. Questi che magari hanno annusato da bambini una rivolta senza viverla e quindi l’hanno fantasticata, ingigantita infantilmente come un mito da replicare ad libitum, oppure e nemmeno al contrario hanno protratto per sempre una mentalità rassegnata al "già accaduto"; questi che vivono di supereroi da fumetti e ricordini carini della tv in bianco e nero, di pigrizia da telecomando, di eccesso di consapevolezza, di rivoluzioni irreali, oniriche o splatter che accadono tutte nella loro testolina, di ironica autoindulgenza, tutte cose buone per scrivere vibranti romanzi insulsi o qualche fragile poesiola che poi ci si scambia ai giardinetti con gli amichetti come si faceva con le figu, ma incapaci persino di darsi da fare e muovere un po’ il culo per avere una meno iniqua distribuzione del futuro, che assieme ai minimi contributivi per i lavori flessibili gli è stato senza troppa fatica sfilato da sotto il naso. (Ah, Parigi…).
E che sperano adesso di saltar su autoconvocandosi, come a dire ora tocca a me, a prescindere. Ma de che?
My generation.

Insomma, dai, è un po’ colpa di tutti, no?

(invece a nessuno viene in mente che sia molto semplicemente una questione di regolamenti e leggi, che non ci vuole un genio né un mutamento antropologico a cambiare. Se decidi che il welfare è familistico e assicurativo, chi è giovane e single – e donna – lo prende in quel posto. Se decidi che i concorsi si fanno in un certo modo, chi non si attacca al barone cambia carriera. Se decidi che certe nomine le fa la tal commissione organizzata così e cosà, il talento sarà mortificato a favore dell’appartenenza. Se decidi che spendi i soldi in didattica, i ricercatori vanno all’estero. E così via così. È tanto strano? Senza contare che si può essere mediocri e leccaculo anche a 20 anni – anzi, se non si comincia presto mica lo si impara un mestiere).

lepre marzolina – 2

Poi c’è chi non gli vanno i dirigenti, i fassini, i rutelli, i dalemi, e con questi quasi perdevamo.

A parte che, in termini numerici, sono i dati migliori di sempre.
Ma comunque.

Io che ho ricominciato a votare da una decina d’anni, ho smesso col voto emotivo (e anche con quello ideologico: del resto non esiste in parlamento – e mai esisterà – un partito liberale di ultra-sinistra, quindi non scelgo in base alle mie presunte idee).

Piuttosto cerco voti utili (non vorrei dire razionali…). Voto "laicamente", cosciente che il singolo voto è piuttosto irrilevante, che puoi anche non votare e non succede proprio niente. Ma quindi puoi anche votare senza paura di tradire te stesso – che poi il sestessismo è alquanto sovrastimato come importanza – ma perché succeda effettivamente qualcosa.

Dato che pendo a mancina, e che il primo problema di un governo è stare in piedi, ho votato spero razionalmente quelli che imo non lo faranno mai cadere: ds di qui e ulivo di là. E mi sento piuttosto soddisfatto (sul futuro di questo governo, riconteggio permettendo, ho detto sotto).
(nb: con questo criterio, a ben vedere, anche rifonda andrebbe bene. Dubito proprio che faranno due volte lo stesso errore).

Ovvio che costoro non rispecchiano tutte le piccole idee in cui mi riconosco quando sono solo al chiaro di luna. Ma sono abbastanza grande per non pretenderlo. Ed essi sono a loro volta abbastanza grandi per avere in sé intere correnti che contano da sole – in termini reali, non di tattiche d’aula – più di qualche partitino testimoniale tutto intero, e correnti di tutti i tipi, persino laiche e moderne!

Imo l’idea che per fare politica occorre "entusiasmarsi" è fallace. Occorre tempo, molta (molta) pazienza, e se sei fortunato idee e capacità.
L’entusiasmo serve a chi non si interessa di politica per votare, ma è un’altra cosa.
E il tornaconto, sempre per la mia esperienza, non è la realizzazione dei propri obiettivi o opinioni che, se si è in uno spazio democratico, difficilmente è mai totale, a meno che non si aboliscano gli altri. Il tornaconto è il lavoro comune in sé. Le opinioni (che non sono le idee) sono anch’esse sovrastimate.

Certo, se si pensa che fare politica voglia dire votare, allora è dura quadrare il proprio personale cerchio. Che io sappia, "lo stato di cose presenti" non si muta col semplice voto. Tale mutamento è invece sempre in atto, a sentire il nostro vecchio capo. Sappiamo vederlo qui e adesso questo atto, questo movimento reale? Questa specificità di visione dovrebbe distinguere la sinistra dalla destra. (curioso che per molti invece essere di sinistra voglia dire precisamente "non vederlo").

E certo, i dirigenti del centrosinistra non sono esattamente una meraviglia, per essere gentili. Ma come si dice: è il mercato, bellezza.
Dubito impediscano a nessuno di essere più bravo di loro. Quindi?

(è tutto gia apparso qui)

lepre marzolina – 1

Io penso che tra quelli – a sinistra – che dicono che non gli va Prodi perché non è anticapitalistico e rivoluzionario e non prospetta il superamento dello sfruttamento mondiale, e quelli che non gli va sostanzialmente perché non è telegenico, è fisicamente goffo, o non è un grande tattico, i primi mi sembrano comunque ancora i meno comici.

(I secondi in genere tendono a preferirgli Veltroni. Sì, anch’io. Se si aggiunge che le differenze in termini di progetto politico tra i due sono inferiori allo zero).

Ora c’è la parte seria. Insomma, quella.

Da programma, il governo Prodi, riconteggio permettendo, sarà sostanzialmente neo-socialdemocratico: una mediazione, in campo economico-sociale, tra una linea meno timidamente blairiana – Margherita, alcuni settori dei DS – e una più classicamente socialdemocratica novecentista e fordista – Rifondazione.
Può non entusiasmare, anche se è piuttosto oggettivo che diversamente, in ogni altro modo, si sarebbe perso. E che se tale sintesi esiste, è solo perché Prodi l’ha perseguita (scarso come tattico, ma discreto stratega? A guardare i numeri dell’Ulivo, parrebbe).

Sarà, lo dico con categorie un po’ ambigue, più di sinistra del Prodi del ’96 – non a caso c’è un accordo che allora non c’era con Rifondazione – anche perché la distanza tra l’area più sinistraliberal e quella rifoncomunista in questi anni si è assottigliata (non da ultimo per via di alcuni piccoli avvenimenti esteri: guerre, crisi economica mondiale ecc).
Nel cervello non proprio brillantissimo dei primi comincia finalmente a diradarsi la confusa sovrapposizione tra liberismo di destra e posizioni new-labour o addirittura simil-danesi; nei secondi si sta affacciando timidamente il dubbio (dopo anni che qualcuno lo urla nelle loro orecchie) che, per usare un linguaggio da ciclostile, la "composizione tecnica sia mutata, assieme a quella politica" e forse tra welfare, statalizzazione dell’economia e piena occupazione il nesso non è poi così necessario né scritto nell’alto dei cieli.

Che dire: vedremo se la sintesi funzionerà, non tanto a livello politico – chi rompe il patto qui finisce accoltellato – quanto nelle cose.

(Non mi occupo qui di faccende che preoccupano molti, come i diritti civili ecc., che con il consueto snobismo ritengo folle si pensi debba occuparsene lo stato – in tal campo io sono per il completo laissez-faire – e che peraltro stanno a cuore ad almeno l’80% di quel 50% preso dall’Unione: non mi pare che ci fosse un’altra coalizione che li garantisse di più.)