fatalisti e fintapolitici

Dato che la politica ultimamente tira, raccolgo un paio di commenti lasciati in giro sulla vibrante situazione nazionale.
A proposito di questa "elegia di Silvio Berlusconi fatta da un non-berlusconiano che ha votato Berlusconi per oltre un decennio", mi è capitato di scrivere

io (che essendo un liberale di ultra-sinistra mi ritengo piuttosto super partes e penso sinceramente che la teoria "li ha rincoglioniti con la televisione" sia una minchiata senza pari) quello che contesterei a Marco è in realtà il punto 5 dove dice: "Berlusconi ha portato avanti alcune riforme strutturali le quali, pur con le farraginosità volute e introdotte perlopiù dagli alleati, hanno un po’ svecchiato e cercato di rendere più dinamici alcuni settori chiave del Paese: lavoro, pensioni, scuola. Il tutto seguendo un’idea-guida semplice come l’uovo di Colombo: meno burocrazia, più libertà; meno dirigismo, più fiducia nella capacità della società di autoregolarsi".

Berlusconi invece, imo, ha perso proprio lì. Non contesto l’evidente ma legittimo – verso chi lo vota – portato ideologico (la "capacità di autoregolarsi" non può essere applicata "alla società" come fosse un unico corpo sociale – questa è una pura astrazione ideologica, appunto, detta anche "modo elegante per mettervelo in quel posto": se assieme non si predispongono gli strumenti di una democrazia delle opportunità e dell’accesso, non si fa che riproporre una "politica di classe" al contrario, assai poco lungimirante); contesto però il dato tecnico: le riforme fatte sono state esageratamente scadenti. Le riforme della scuola e dell’università fanno sinceramente pena, e lo dico non ideologicamente ma tecnicamente; la legge Biagi è monca e se ne accorgono ormai anche i liberal; sulle pensioni – la palla al piede del paese, che assorbe a tutt’oggi il 70% della spesa di welfare – è stato solo continuista col centrosinistra, perpetrandone gli errori, la riforma del sistema radiotelevisivo è la quintessenza dell’antiliberismo. E le riforme non fatte sono talmente tante che c’è da spaventarsi. Il risultato è quello che si vede: un taccerismo della volontà, teneramente trash e un poco straccione, fatto con materiali da rigattiere, che di fronte ai vago familismo dei democristiani (forti di un temibile 3%!) e a qualche ruspante socialfascista si scioglie sommessamente.

Probabilmente l’errore di Berlusconi – a parte non tagliare con più coraggio i ponti con la sua precedente carriera e interessi – è stato circondarsi di personale politico raffazzonato e scadente, yes man, professori di economia desiderosi di riscatto le cui precedenti sfortune accademiche forse avevano qualche ragione, sedicenti manager incapaci di gestire una merceria.
Col risultato che il partito liberale di massa oggi non ha un erede (l’uomo ha 70 anni…) non dico di alto, ma nemmeno di medio profilo, tranne… tranne un tizio lombardo che deve il suo potere a un movimento integralista comunitario cattolico e che il Berlusconi giustamente teme come la peste. E con la prospettiva che su quel 20% di voti tra qualche anno banchettino gli ex democristiani di varia risma.

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A proposito della gioia notturna e un po’ postribolare della non troppo fotogenica dirigenza dell’Unione, che ha scatenato accuse di incontinenza e indecenza morale in molti, ad esempio qui, ho icasticamente commentato:

chi vince festeggia. Amen.

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Ma dato che molti motivano il disgusto di cui sopra con l’argomento: "che c’è da festeggiare, abbiamo vinto per mezzo voto e il governo è debolissimo" e dato che le metafore sportive sono già andate esaurite, mi limito a riportare ciò che in sogno mi ha rivelato la Sibilla, dei cui vaneggiamenti non porto responsabilità alcuna e di cui ovviamente non mi fido nemmeno un po’. A me pare solo un ozioso esercizio di fantapolitica:

– La "grande coalizione" è poco più di una supplica degli sconfitti, e durerà lo spazio di un mattino. Altro è il discorso sul "nuovo clima": quello sarà il terreno di tutte le tattiche.
– Prodi, se il governo va in porto, sarà in sella almeno due anni (la maggioranza risicata al Senato non è tecnicamente un problema insormontabile) durante i quali nessuno ha davvero l’interesse a farlo cascare: a sinistra saranno impegnati a fare a tappe forzate il Partito democratico e la Linke, altrimenti li appendono per i piedi, e chi minaccerà di sgarrare nelle votazioni in aula, lo accoltelleranno nei sottoscala; a destra sanno che non possono tornare alle elezioni così – riperderebbero – quindi saranno molto presi a fare il Partito popolare e a trovare un posto "di prestigio" a Berlusconi (bel problemino: dipendono totalmente da lui ma non possono più rimanerci attaccati se vogliono avere un futuro).
– Nel frattempo il governo farà alcune cose "di base" su cui troverà qualche voto anche a destra – nuova legge elettorale, alcune riforme economiche urgenti, interventi per la scuola – e alcune su cui non li troverà – antitrust nei media e conflitto di interessi, giustizia, precari – e qui dovrà provare a farcela da solo. Se ce la farà a quel punto, tra un paio d’anni, sarebbe saggio tornare concordemente alle urne a metà legislatura, e le coalizioni a quel punto sarebbero guidate dai segretari dei novelli partiti maggiori – al momento attuale direi Veltroni e Formigoni, ma la Sibilla qui farfugliava quindi posso sbagliarmi.

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Poi mi sono svegliato, ho dato i croccantini al gatto, un bacio al mio amore e mi sono messo ad aspettare il treno, regolarmente in ritardo sulla tratta Brianza-Milano. In carrozza leggo un libro piuttosto attuale che vi consiglio di cuore.

Affinità e divergenze tra me e me stesso


Effe, mi chiedi (nei commenti) un intervento articolato: "
dove sono le proposte alternative e concrete per gestire (non dico risolvere) la pressione clandestina?" (si parla di immigrazione).
Domandina facile facile, appunto, ma del resto giustificata dalla mia presa di posizione.
V
ediamo di dare una qualche risposta allora, con i miei limiti (che non sono ahinoi limiti alla logorrea). Premesse.


– Le popolazioni si spostano e lo faranno sempre di più. Che lo si voglia o meno considerare un diritto, è un fatto. Oserei dire un fatto "naturale" e ovvio. Che non si può controllare più di tanto (un po’ sì ma non tanto) ed è impossibile trattare come mero problema di ordine pubblico. L’idea di blindare le frontiere è solo comica da quanto è irrealizzabile, anche a causa di ricadute catastrofiche di medio periodo sia qui che nei paesi d’origine. Il che significa che bisogna provare a governarlo, questo fatto (la politica che ci sta a fare se no?);

– quella che chiami "pressione clandestina" è in Italia inferiore ad altri paesi europei paragonabili al nostro, come di molto inferiore è la percentuale di regolarizzati. Cosa dovrebbe succedere? Dovrebbero queste persone mandare domanda via fax dal paese d’origine indicando destinazione e futuro datore di lavoro, e poi presentarsi in aereoporto scendendo dalla business class come pretende la lega? No, arrivano alla frontiera, se c’è qualcuno, li trova, se no passano. O dobbiamo organizzare cacce all’uomo casa per casa?
In questo momento, nota, non è ancora un problema di ordine pubblico, al massimo di protezione civile. Com’è che lo diventa poi?

– Il mercato del lavoro – al nord e al centro, ovviamente, laddove esiste e non è sommerso – non è affatto ingeneroso con i nuovi arrivi, clandestini compresi (non nel senso che li tratti bene, o secondo le effettive capacità o formazione, ma nel senso che li richiede in abbondanza. Salvo poi usarli in nero sottopagato, ma questo è un altro lato dello stesso discorso, dato che col nero non ti regolarizzano, come invece avresti diritto, e il datore di lavoro spende meno, non ti paga i contributi, paga meno tasse, che servirebbero tra l’altro a finanziare servizi per gli immigrati. Tutto si tiene). Comunque, per il sistema produttivo la "pressione clandestina" non è affatto un problema;

– il mercato immobiliare qui da noi è quello che conosciamo. Se i giovani anche di ceto medio o medio basso stanno in casa fino a 30 anni o finchè non si sposano, non è mica perché amano la famiglia in ossequio al vaticano, ma perché per moltissimi uscire di casa è un problema (questioni simili riguardano i tassi di occupazione femminile, in Italia tra i più bassi del continente, legati al fatto che il welfare italiano è costruito sul modello del capofamiglia, maschio, adulto e impiegato a tempo indeterminato). E con una situazione simile, sarà colpa dell’immigrato se non ha fissa dimora? Se si investe sul mattone è perché conviene. Sarà mica il caso di intervenire su questo problema? Un interventino nel programma dell’Unione ce lo vogliamo mettere?

– l’Italia "politica" non attua alcuna seria politica (pardon) di integrazione e inserimento, distinguendosi per l’inerzia più assoluta, l’abbandono misto a una repressione estemporanea del fenomeno in sé (del fatto), e non dei suoi rischi eventuali di degenerazione criminale. È la politica perfetta perché tale degenerazione avvenga davvero, come la semplice osservazione della realtà conferma.

Dunque come si fa una minima politica di integrazione? Boh, non sono così ganzo, ma qualcosa mi viene in mente (mica solo a me per fortuna):
– intanto non si dovrebbe considerare il fenomeno immediatamente come un problema di ordine pubblico ma come un fatto e un’occasione.
– Poi non si dovrebbe trattare la popolazione immigrata come destinataria di legislazione ad hoc ma si dovrebbe intendere i suoi problemi assieme a quelli più vasti delle persone in stato di bisogno e dei ceti svantaggiati: gli strumenti di welfare universalistico (strumenti moderni, e non fordisti, iniqui e clientelari come quelli attualmente esistenti in Italia) devono ridurre la segmentazione sociale, non favorirla. Cioè non devono favorire la guerra tra poveri ma scongiurarla.

– Quindi in sintesi prevenire le favelas, non mandarci le ruspe per guadagnare qualche voto in campagna elettorale dopo che qualche nullafacente poverocristo o anche poverostronzo arrotonda rubando auto, e suscitando così l’indignazione dei cittadini (tipicamente dei più poveri, già vessati da situazioni territoriali spesso di mezzo sfacelo).
– Prevedere quindi forme agevolate di accesso all’abitazione e di sostegno al reddito per le fasce deboli sia italiane che straniere: strumenti dotati di clausole che permettano di non cronicizzare il bisogno in termini assistenzialistici ma spingano alla fuoriuscita e all’autonomia (non sto parlando di cose teoriche: se ne studiano e sperimentano di vari tipi in molti paesi d’Europa e qualcuno di nascosto anche in Italia);
– costruire canali di assistenza minima, formazione, avviamento, integrazione e valorizzazione delle risorse e competenze, decentrati e in sinergia tra pubblico, privato sociale e mercato del lavoro;
– e nel contempo ristrutturare la gestione dei permessi pensando a soluzioni integrate con i territori, le loro esigenze e le esigenze delle persone e non meramente repressive.
– Controllare il crimine organizzato, non l’appartenenza etnica o sociale.
– Evitare di trasformare furbescamente e populisticamente un illecito amministrativo – l’assenza di permesso – in un problema globale, prefigurando improbabili rastrellamenti di intere categorie di persone che non hanno commesso reati, che si traducono in più probabili e inefficaci sistemi di vessazione ad personam nei confronti dei più sfigati (senza incidere minimamente sul crimine organizzato).
– Costruire percorsi di cittadinanza ugualmente non vessatori e punitivi.
– E nel contempo, certo, destinare risorse alla riqualificazione urbana e culturale dei territori, gestita in modo illuminato, e nel contempo sviluppare forme di democrazia partecipata.


E, non solo in questo campo: spendere sempre meno per un welfare iniquo  e sempre di più per un welfare universalistico e dotato di vincoli chiari; prelevando meno da chi ha meno e ora finanzia i servizi di chi ha di più e spende proporzionalmente meno.

(Ad esempio, il 60% della spesa pubblica, che in Italia non è affatto più alta che nella media europea anzi è più bassa, va via in pensioni, calcolate oggi in modo contributivo: ergo, il welfare che dovrebbe redistribuire tra ceti e tra generazioni, per il suo 60% dà di più a chi aveva di più. Così si spiega che i più giovani devono farsi il mutuo con i soldi dei nonni. Oppure: le rendite sono tassate metà e anche meno del lavoro. Geniale. Altro esempio che non c’entra nulla ma è significativo di come vanno le cose: in Italia non esiste un sistema decente di borse di studio per universitari legate al merito e al reddito, anche restituibili. I figli della classe media e di quella superiore così si avvantaggiano delle basse – in comparazione internazionale e rispetto ai costi reali per studente – tasse universitarie italiane. I figli delle classi inferiori tipicamente non vanno all’università, il che spiega il tasso di laureati tra i più miserevoli in Europa, anche per l’assenza di sostegni al reddito o all’alloggio – borse di studio o altro. Per cui le tasse dei loro papà – che le pagano, essendo di solito dipendenti – finanziano l’università dei figli delle classi medio-alte. Fantastico, no?
Ok mi sono allargato…).

Roulette russa


Una delle possibilità è la seguente: dopo aver venduto il partito liberale di massa e il boom economico, la prossima volta, se si mettono d’accordo, venderanno il partito confessionale di massa e i valori morali; che detta così fa ridere, visti certi curricula, ma aspettate a farlo…

La teoria, espressa da veri geni della politica anche a sinistra e su paginate di quotidiani, è che il buongoverno non basta – specie se non lo si è mai visto, aggiungiamo – oggi serve qualcosa che scalda i cuori: la visione, le idealita, le convinzioni etiche, i sogni. Altrimenti "i gggiovani" non capiscono la politica.
Quante cagate tocca leggere, signora mia… L’alberonismo è la vera corrente intellettuale vincente in Italy, specie in formato magazine.

Ora, considerato i disastri contabili che hanno combinato da soli in quattro anni di sgoverno, nonché la contemporanea recessione, la marginalizzazione dell’economia nel contesto internazionale e la polarizzazione sempre maggiore della società tra ipergarantiti (sempre più arroccati in difesa), speculatori (parecchi e in varie categorie) e massa dei paria a sua volta stratificata, e anche facendo la tara della loro innegabile capacità di vendere, una tale strategia di per sé può essere sia perdente che vincente.

– Perdente: la bolla referendaria si sgonfia in due settimane – blandire l’astensionismo è pericoloso, ragazzi: quelli si astengono, mica ti seguono – i ceti colpiti dalla crisi non se la bevono, e quelli arricchiti capiscono che è una mossa da canna del gas e cambiano cavallo – avevano già cominciato a farlo, ora non a caso si sono fermati. Buttiglione riprende la statura politica che gli compete (sotto il metro).
– Vincente: i ceti impoveriti preferiscono pensare ad altro elevando i cuori mentre glielo mettono nel didietro, quelli arricchiti fanno i pesci in barile, sognando altri anni di speculazione sul cadavere. L’impossibile scommessa teocon di Ferrara sbanca il tavolo, anche se per i motivi sbagliati (ma a lui non dispiace, l’uomo è un realista cinico, al fondo…).

Cosa può far pendere di qua o di là ciò che di per sé sta fermo? Ma naturalmente il terzo, la variabile impazzita: la proverbiale attitudine del centrosinistra al suicidio insperato, dovuta tra le altre cose a palese mancanza di dirigenti capaci. Quelli appena decenti li mandano a fare i sindaci, i governatori, gli uscieri, pensa te… E di progetto comune, of course.
Direi che su questa strada ben conosciuta siamo già a buon punto. Nei prossimi giorni gli imperdibili sviluppi.

Per non sporcare in giro


Chiedendo di definire "utile", mi pareva evidente nel mio vago delirio teorico, alludevo al fatto che quando si parla delle tecnologie linguistiche è piuttosto fuori luogo fare la morale al mondo che manco mio nonno. Definirne buono o cattivo l’uso – o inutile, o utile, che è la variante di Mill – mi pare privo di senso (e quindi ne condivido la parodia), per il motivo terra terra che il giudizio morale e quindi il giudizio in termini utilitari seguono e non precedono la tecnologia linguistica in termini di loro possibilità (ovvio che "tecnologie linguistiche" è un escamotage di quart’ordine per intendere la parola e i suoi derivati, e che li si possa "intendere" è appunto il problema, non la soluzione).
Ciò che è rilevante è invece come "funziona" poiché come funziona, è – e, in quanto reciproco scarto, anche siamo.

I blog di ragazzini crudeli sono più utili o più inutili di brunovespa, o di me e te che leggiamo wallace? Sono domande un po’ senza senso. Naturalmente, invece, il moralista – e il cinico e il cattolico: la santa trinità insomma – si dà un sacco di risposte, e pensa anche di essere più intelligente degli altri. Buon per lui, no?

Cara vecchia storia

(La tesi di un "centro" costituito da pochi individui che si fanno forza del loro legame reciproco [non si capisce per via di quale particolare rito massonico] E QUINDI convogliano tutta l’attenzione e malvagiamente ne derubano gli altri, è un po’ datata e a me pare anche un po’ comica. Ha tutta l’aria di un effetto di autoipnosi [non sto a spiegare perché tecnicamente non sta in piedi, spero che l’aritmetica non vi sia del tutto estranea e che vi rendiate conto che attenzione e accessi sono due robe diverse]. In molti casi, dato che chi la formula ha un blog, è anche un caso da manuale di profezia che si autosmentisce per il fatto stesso di venir detta.)

Molto (molto) più seria è la questione della “banalità”, o detto diversamente della “mostruosità” perturbante ("mostro” è etimologicamente “il singolare”, ossia ognuno) di comportamenti che “scrivere scopertamente davanti agli occhi altrui”, cioè “mostrare scopertamente il corpo nudo e magari sgraziato della propria scrittura” fa emergere così evidenti in ognuno (ambizioni inconfessate – e pessime in quanto inconfessate, non in quanto ambizioni – gregarismo, invidie, ansia da notorietà, ma anche luoghi comuni, dilettantismo, filodrammatica, trucchetti).
Riguardo a questo si possono dire sensatamente due cose: 1) questo siamo (e sperabilmente non lo si è scoperto oggi); se qui emerge è forse perché “questa” scrittura, diversamente da quella neutralizzata e “pubblica” della stampa, lo permette. Di più: se fosse solo grazie a questo "corpo scritto" che tutto l’ambaradan funziona, a suo modo, strutturando secondo affinità la figura mutevole delle infinite minoranze? Non sarebbe interessante guardare questo strano fatto, che se accade avrà pure un senso, e come accade, invece che dividerci sulla diagnosi intorno al “dito” che lo indica? 2) In generale: non riuscire a guardare contemporaneamente i due lati del medesimo (di ogni medesimo), cioè la banalità e la bellezza, significa probabilmente coltivare pensieri di grandissima tristezza e condannarsi al cinismo. Che non è l’indispensabile satira, ma solo la malattia più noiosa e inutile: lo stesso che si critica, mal rovesciato.

Libero mica tanto


Per non sentirmi da meno ed evitare anche eccessivi marcamenti di territorio in giro che poi si diventa antipatici, metto qui la mia opinione finale, spero moderata, in forma di risposta senza maiuscole né link, che poi è la sua forma effettiva.


caro gino, sono convintissimo
che a infostrada (ma mica solo lì) di blogger non capiscano un’acca,
altrimenti non avrebbero sollevato tutto ‘sto vespaio. penso anche che
la gratuità e la circolazione libera ecc ecc siano cose basilari perché
i blogger esistano. semplicemente non mi pareva così grave che qualche
informazione circolata qui dentro cominciasse a filtrare anche fuori, e
non solo i nostri dibattiti un po’ onanistici. come lo fa libero, che
non se lo filano in molti, potrebbe farlo l’home page di repubblica.
sarebbe così grave? loro ci fanno soldi? mah…

per quel che mi riguarda,
io non lo farei comunque per soldi (non ne sarei capace, non sono
scrittore e anche come giornalista sono scarso e scrivo quando mi
viene, per piacere di farlo e di condividerlo), e se anche loro mi
citassero (cosa che non succederà comunque mai per via del tipo di cose
che scrivo e di cui comunque non mi frega al momento granché)
significherebbe solo che una cosa che ho detto può interessare anche ad
altri, il che non mi pare poi grave, per usare un eufemismo. dato che
non mi pare che loro possano rendere privata questa mia cosa detta,
anzi dicendola con un megafono più grosso non fanno che esattamente il
contrario, cioè renderla più pubblica, il fatto che ipoteticamente ci
facciano dei soldi (ma ne sei sicuro? chi fa soldi su internet?) non mi
tocca poi molto. Che poi tutto potesse essere fatto meglio è palese,
bastava che si studiassero un po’ il journal di granieri. ma si torna
al punto iniziale, infostrada ecc ecc…

Ciò che ci fa fare, è


Massimo, pur nell’accademicità di questo mio discuterne, credo che i tuoi cinque punti non siano né giusti né sbagliati: solo non sono utili. Da tempo si dice che le definizioni statiche non servono: qualcosa rimane sempre fuori o qualcos’altro è messo dentro male, in base a proprie fisime, o non dovrebbe esserci proprio.

Ciò che definisce un oggetto, secondo una buona tradizione pragmatista, è l’uso collettivo che se ne fa, ossia meglio: "ciò che ci chiama a fare" in rapporto al contesto in cui è sviluppato. Soprattutto, non c’è prima la definizione e poi l’oggetto che vi si deve adattare a spinta (uso terroristico della definizione: "tu sì, tu no"). Ci sono invece prima gli usi, e poi dagli usi emerge la figura sempre mobile e variabile di "quell’oggetto" e di chi lo usa come "il soggetto di quell’uso".
La definizione di martello di cui parla Giuseppe nei commenti è, ad esempio: "inchiodare" (e solo per questo, nel caso per inchiodare io usi un sasso, che non somiglia per nulla a un martello, posso dire tranquillamente che "ne faccio martello").
Così weblog, ad esempio e in prima migliorabile approssimazione, è "scrivere e relazionarsi", cioè: conversare. Definizione ancora imprecisa e notevolmente rozza perché comprende molti fenomeni della rete e non rende alcune specificità e molte conseguenze, ma che va almeno nella direzione giusta.
Che poi lo si faccia coi permalink o con xxxyy, importa di certo ma si tratta di discorsi già "interni" all’oggetto. Sono, quelli, adattamenti reciproci, come la "mano" e il "martello" si adattano tra loro nell’uso, il che spinge ad esempio l’attrezzo a farsi più lungo nell’impugnatura per meglio servire allo scopo, o la mano a muoversi in modo uniforme per meglio spingere: entrambi emergono come "martello per una mano" e "mano per un martello" solo in questa relazione (le definizioni non ci sono già prima, nell’iperuranio; per questo il titolo di questo post andrebbe concluso con la frase reciproca, cioè: ciò che fa di noi, siamo). Allo stesso modo "ciò che è usato per scrivere e connettere" fruttifica dentro sé i permalink o i commenti o ciò che meglio "serve l’azione" e il suo agio sulla base materiale e di pratiche in cui si trova.

Tali adattamenti "corporei" della tecnologia nascono dall’uso, non il contrario: i weblog – come la scrittura del resto – sono tecnologie, ergo l’adattamento avviene col "corpo": altro che stupidaggini sulla "virtualità".
(più seriamente, ma più ermeticamente in questa occasione, "virtuale" è forse il poter essere, la potenzialità determinata di ogni azione e in questo senso è propria di ogni rapporto costituente del vivente con la porzione di mondo di cui è fatto e da cui muove, scandendo in essa e in sé differenze che vengono raddoppiate "significativamente" nella piega del linguaggio)


Così lo sviluppo (come processo non lineare) è rimesso sulle gambe e non sulla testa (vuota), così si spiega perché si percepisca l’esigenza di sviluppare i permalink e non, che so, i fondini
automatici a fiorellini – sarebbe tecnologia anche quella, no?; e questo è anche il motivo per cui proprio il nesso tra utilizzatori "stupidi" e sviluppatori – e non gli esperti, che arrivano regolarmente in ritardo –  decide nei fatti la direzione delle tecnologie comunicative, inventando nuove modellazioni non dal nulla ma da esigenze di prassi. La tecnologia è corpo che si sviluppa nell’uso. A quali fini? I suoi.

(Tra parentesi e di nuovo con una certa dose di ermetismo, questo è un buon modo, secondo me, per scartare da tutte le concezioni apocalittiche – cioè intellettualisticamente religiose – della tecnologia come manipolabilità assoluta e devastante dell’essere o cose simili. Concezioni, letteralmente, in-spiegabili, che non spiegano i processi né tantomeno la con-costituzione di mente e mondo che avviene nella prassi né può avvenire altrove [e dove?]. E non li spiegano perché, appunto, fanno camminare i processi sulla testa, assolutizzando protesi metafisiche come "volontà" o "controllo" che magicamente costruiscono e in-formano il materiale di cui dispongono alla stessa stregua dello spirito che da fuori e non si sa come animerebbe i corpi. Appunto, spiegazioni che hanno bisogno esse stesse di una spiegazione)


La fatica dell’ozio


Da Lorenza, un’interessante discussione nei commenti di un densissimo post che pone il problema della fecondazione artificiale e referendum connesso sotto la lente ipotetica di un noto filosofo contemporaneo, Emanuele Severino.

Confesso che non ho nulla da dire di pubblico sull’argomento fecondazione che non sia una confessione o un’opinione, che come tale è di dubbio
interesse per chiunque considerata la “qualunquità” della mia persona (o magari no, ma pazienza), ma ne ho da dire riguardo al modo in cui la questione è posta da Lorenza, e infatti nei commenti ho iniziato a porre qualche dubbio, aspettandomi ovviamente di essere smentito e fatto a fettine dalla lingua tagliente della pulzella.

Qui intendo solo approfittarne per divagare un po’, non per entrare nel merito, che sta là.

Può essere poco: appare chiaro che è meglio esprimersi su un problema scottante che non su una modalità di porselo o di ragionare.  Nel primo caso si è seri, nel secondo si appartiene all’ozioso, che non è purtroppo il comico, che è altro ancora.
Tuttavia: atteggiarmi nel dire alla serietà,
all’urgenza dell’oggetto, non mi fa con ciò
essere serio, cioè un tutt’uno
con l’oggetto, ma soltanto fa
apparire la serietà nel mio dire, probabilmente così già smentendola col
rivelarne una fondazione diversa dall’oggetto con cui dovrebbe coincidere,
fondazione che invece va cercata nei motivi del mio scrivere serio piuttosto che no,
nella cosiddetta “psicologia” – che in tale separazione dall’“oggetto” riceve
un valido motivo d’essere.


Per dirla pomposamente e a rischio svarione: il problema del rapporto di reciproca inclusione-esclusione, tra pensiero/detto e essere non viene
saltato col rinunciare a porselo, né si esce dalle paludi tirandosi per la
giacca.


O, per dirla come mi è più proprio e con accorati toni auto-biografici: puoi parlare – e scrivere – di dio o della merda, ma non diventi né l’uno né l’altra, resti il fesso (il domandante, il tizio senza risposte) che sei. Non vieni assunto in cielo né precipitato più di così, anche se alle volte pensi di scrivere per aderire a una delle due sorti, o speri che sia così. Partire da tale fessitudine generale e coi propri mezzi chiederne conto, invece, ritorcendo lo scritto verso di sé, è un compito onorevole benché non definitivo, qualche volta persino meglio che dare opinioni, secondo me.


Il dibbbattito digital-letterario


Un bel
pezzo di Antonio su "Oblio" di Wallace.

Nei commenti una mia prolissa opinione (che sintetizzo così: ma perché diavolo la carne dovrebbe essere corrotta?)

Un interessante (ma a mio modesto parere ideologicamente non condivisibile e soprattutto logicamente sbagliato) pezzo di Carla Benedetti su Nazione indiana, su politiche editoriali, genocidi culturali e romanzi di Faletti.
Nei commenti al pezzo, misteriosamente non raggiungibili dal pezzo stesso, alcuni miei prolissi interventi, in cui cerco di sollecitare la fine del piagnisteo vagamente francofortese (chiaro, no?)

Qui da Massimo e qui da Loredana, interessanti opinioni sul pezzo di Benedetti (anche nei relativi commenti).

(gente, linkare blogdiscount e lalipperini nello stesso post e senza parlare di beghe tra blog, è classe…)

Il nero muove e perde in due mosse

1. Michelstaedter


Su i Miserabili, un lungo e interessante articolo di Pierandrea Amato sul pensiero di Michelstaedter, filosofo e autore di un unico testo, peraltro piuttosto noto, morto suicida giovanissimo nel 1910, poco dopo aver terminato la tesi di laurea.


Secondo il sito realizzato dal comune di Gorizia e a lui dedicato, Michelstaedter teorizzava “il superamento delle illusioni, la constatazione che né dagli altri uomini né dalle cose ci si deve aspettare nulla – e allo stesso modo non si deve temere nulla. Chi raggiunge il possesso di se stesso possiede la libertà assoluta: libertà dai bisogni quotidiani, dai desideri e dai timori. Il dolore allora non è subìto, ma accettato con coraggio; la morte non è temuta né desiderata, ma è disarmata, come disarmata è la vita, davanti a chi non chiede la vita e non teme la morte, a chi dà tutto e non chiede niente, a chi non si accontenta, non si adatta, non si adegua; a chi sceglie con coraggio la strada difficile della filosofia, della solitudine, del possesso di sé mai definitivo ma da conquistarsi ogni giorno; a chi si salva da solo”.


Ai pochi volenterosi (ops), dopo il saggio di Amato – che in realtà trovate paro paro sul sito goriziano, a voi se leggerlo da una parte o dall’altra – consiglio la lettura di questo acuto commento di Massimo.


I tre che sono rimasti vivi, e solo dopo i punti di cui sopra, possono a questo punto se vogliono considerare anche le mie seguenti note.


Da una parte la natura viene fatta coincidere con il vero ed entrambi con il male – la morte, la paura della morte, la volontà di vita che cerca di possedere se stessa cioè di superare la dipendenza della morte ma nel farlo si proietta nel mondo, vuole, e con ciò si perde perché dichiara la propria non autosufficienza: in altri termini il “dominio della lotta” di cui parla Houllebecq. Vanità, invidia, vanagloria, potere e sopraffazione come essenza dell’umano.


Dall’altra, a tutto ciò si oppongono gli sforzi di vincere la natura e prima di tutto la propria natura e le proprie passioni e volontà, e cioè la cultura, l’incivilimento, il bene, l’etica: per ovvi motivi di coerenza questi non possono che essere il falso (e un acuto scrittore come Manganelli lo ha detto perfettamente).


Qui falso vale nei suoi due risvolti. Da una parte è la dimensione tragica del tentativo sempre fallimentare ma mai domo dell’uomo di vincere il male dentro di sé con l’etica o la religione: falso perché fallimentare per essenza essendo in lotta contro la sua propria natura. Dall’altra è l’ipocrisia di tali tentativi che si solidificano in aspetti della lotta, in istituzioni, in potere, dispiegando così il proprio rovescio e il proprio fallimento.


Ora, come sottolinea Massimo, se tali tentativi smettono un po’ di essere falsi (cioè falliti, cioè funzionano), vuol dire che la natura non era poi così vera. Qui mi pare che interpreti contemporanei di questo stesso filone, da Houllebecq a Manganelli, siano più coerenti. In questo quadro (se questi sono i presupposti), le soluzioni mediane non sono virtuose e tolleranti, sono solo incoerenti e di comodo.


Vivere l’istante come emancipazione dalla volontà – la soluzione di Michelstaedter – e come modalità di guardare in faccia alla natura e al suo dolore senza vincerla ma nemmeno soccombere, appare un compito dall’inizio impossibile: se l’istante è il tempo in cui la volontà vuole il futuro, viverlo vuol dire appunto volere il futuro. Se nel presente non si vive la volontà di futuro, vuol dire che o non è presente, o quella volontà non era poi così effettiva.


“Volere il divenire come essere”, la formula nicciana dell’eterno ritorno che Amato reperisce dietro il testo di Michelstaedter, non mi pare una scappatoia adeguata: essa rivela piuttosto come la nozione di tempo lineare, mentre sta dietro tutta questa speculazione, non riesca mai a venire considerata in se stessa, ma aggirata con una soluzione di comodo, la sua semplice moltiplicazione all’infinito.


Che serva “altro” è evidente anche nell’esito: la presentazione di figure paradigmatiche, che incarnano individualmente la possibilità della non-volontà, la leggerezza del “non voler pesare”, “non voler dire” (o meglio, scrivere. Notazione che sarebbe interessante svolgere), “non voler convincere né salvare”, ossia il falso che diventa vero, il percorso individuale che responsabilmente ognuno deve fare da sé. Socrate e Cristo diventano due puri atti di fede, che proprio nel fallimento e nell’inganno subìto dimostrano la propria efficacia.


Dunque ciò che Massimo nota, il passaggio da una condizione all’altra, questo vuoto non si sa come riempirlo, e questo passaggio non si sa come eseguirlo, perché o c’è il soggetto persuaso, e allora si è già passati, o c’è il soggetto retorico (‘retorizzato’), e allora non c’è modo di passare”, questo passaggio pare fondato su un puro atto di fede. Il che può andare benissimo in moltissimi casi, anzi nella maggioranza dei casi in cui di fatto noi “ci fidiamo” di circostanze che non potremmo verificare una ad una, ad esempio quando pigiamo l’interruttore della luce e non temiamo la scossa. Va bene ovunque, insomma, tranne che in questo caso: l’argomentare filosofico.


Una curiosità e una divagazione: Cristo è presentato come l’opposto del fondatore e continuatore di una tradizione ma, se così si può dire, come il secolarizzatore per antonomasia (colui che è dio perché è radicalmente individuo nel presente, avendo destituito la volontà di futuro e il peso del passato, ed essendosi affidato all’eternità dell’istante). Questa lettura non è certo una novità. Del resto chi oggi rivendica le radici cristiane della democrazia dovrebbe sapere che è a questa lettura che si rifà, di solito senza saperlo.


Sarebbe interessante, ad esempio, seguire questa esegesi minore nei passi dedicati dai vangeli alla famiglia, istituzione tanto cara ai rivendicatori di cui sopra, che al contrario mi è sempre parsa uscire malissimo dai testi (ma si sa che l’unica interpretazione letterale dei testi che costoro accettano è quella di Rm 1,24-27). Interessante perché si potrebbe tracciare una divertente teoria sulla religione tradizionale come istituzione a salvaguardia e regolazione della riproduzione – cioè della caratteristica stessa della vita che la distingue dalla non-vita, ossia il sesso – e della figura di Gesù come elemento di rottura e reale artefice dell’introduzione in occidente della separazione tra sesso e riproduzione, della distruzione della famiglia e di un sacco di cose di cui oggi andiamo giustamente orgogliosi.


Ok, scherzavo.