fatalisti e fintapolitici

Dato che la politica ultimamente tira, raccolgo un paio di commenti lasciati in giro sulla vibrante situazione nazionale.
A proposito di questa "elegia di Silvio Berlusconi fatta da un non-berlusconiano che ha votato Berlusconi per oltre un decennio", mi è capitato di scrivere

io (che essendo un liberale di ultra-sinistra mi ritengo piuttosto super partes e penso sinceramente che la teoria "li ha rincoglioniti con la televisione" sia una minchiata senza pari) quello che contesterei a Marco è in realtà il punto 5 dove dice: "Berlusconi ha portato avanti alcune riforme strutturali le quali, pur con le farraginosità volute e introdotte perlopiù dagli alleati, hanno un po’ svecchiato e cercato di rendere più dinamici alcuni settori chiave del Paese: lavoro, pensioni, scuola. Il tutto seguendo un’idea-guida semplice come l’uovo di Colombo: meno burocrazia, più libertà; meno dirigismo, più fiducia nella capacità della società di autoregolarsi".

Berlusconi invece, imo, ha perso proprio lì. Non contesto l’evidente ma legittimo – verso chi lo vota – portato ideologico (la "capacità di autoregolarsi" non può essere applicata "alla società" come fosse un unico corpo sociale – questa è una pura astrazione ideologica, appunto, detta anche "modo elegante per mettervelo in quel posto": se assieme non si predispongono gli strumenti di una democrazia delle opportunità e dell’accesso, non si fa che riproporre una "politica di classe" al contrario, assai poco lungimirante); contesto però il dato tecnico: le riforme fatte sono state esageratamente scadenti. Le riforme della scuola e dell’università fanno sinceramente pena, e lo dico non ideologicamente ma tecnicamente; la legge Biagi è monca e se ne accorgono ormai anche i liberal; sulle pensioni – la palla al piede del paese, che assorbe a tutt’oggi il 70% della spesa di welfare – è stato solo continuista col centrosinistra, perpetrandone gli errori, la riforma del sistema radiotelevisivo è la quintessenza dell’antiliberismo. E le riforme non fatte sono talmente tante che c’è da spaventarsi. Il risultato è quello che si vede: un taccerismo della volontà, teneramente trash e un poco straccione, fatto con materiali da rigattiere, che di fronte ai vago familismo dei democristiani (forti di un temibile 3%!) e a qualche ruspante socialfascista si scioglie sommessamente.

Probabilmente l’errore di Berlusconi – a parte non tagliare con più coraggio i ponti con la sua precedente carriera e interessi – è stato circondarsi di personale politico raffazzonato e scadente, yes man, professori di economia desiderosi di riscatto le cui precedenti sfortune accademiche forse avevano qualche ragione, sedicenti manager incapaci di gestire una merceria.
Col risultato che il partito liberale di massa oggi non ha un erede (l’uomo ha 70 anni…) non dico di alto, ma nemmeno di medio profilo, tranne… tranne un tizio lombardo che deve il suo potere a un movimento integralista comunitario cattolico e che il Berlusconi giustamente teme come la peste. E con la prospettiva che su quel 20% di voti tra qualche anno banchettino gli ex democristiani di varia risma.

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A proposito della gioia notturna e un po’ postribolare della non troppo fotogenica dirigenza dell’Unione, che ha scatenato accuse di incontinenza e indecenza morale in molti, ad esempio qui, ho icasticamente commentato:

chi vince festeggia. Amen.

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Ma dato che molti motivano il disgusto di cui sopra con l’argomento: "che c’è da festeggiare, abbiamo vinto per mezzo voto e il governo è debolissimo" e dato che le metafore sportive sono già andate esaurite, mi limito a riportare ciò che in sogno mi ha rivelato la Sibilla, dei cui vaneggiamenti non porto responsabilità alcuna e di cui ovviamente non mi fido nemmeno un po’. A me pare solo un ozioso esercizio di fantapolitica:

– La "grande coalizione" è poco più di una supplica degli sconfitti, e durerà lo spazio di un mattino. Altro è il discorso sul "nuovo clima": quello sarà il terreno di tutte le tattiche.
– Prodi, se il governo va in porto, sarà in sella almeno due anni (la maggioranza risicata al Senato non è tecnicamente un problema insormontabile) durante i quali nessuno ha davvero l’interesse a farlo cascare: a sinistra saranno impegnati a fare a tappe forzate il Partito democratico e la Linke, altrimenti li appendono per i piedi, e chi minaccerà di sgarrare nelle votazioni in aula, lo accoltelleranno nei sottoscala; a destra sanno che non possono tornare alle elezioni così – riperderebbero – quindi saranno molto presi a fare il Partito popolare e a trovare un posto "di prestigio" a Berlusconi (bel problemino: dipendono totalmente da lui ma non possono più rimanerci attaccati se vogliono avere un futuro).
– Nel frattempo il governo farà alcune cose "di base" su cui troverà qualche voto anche a destra – nuova legge elettorale, alcune riforme economiche urgenti, interventi per la scuola – e alcune su cui non li troverà – antitrust nei media e conflitto di interessi, giustizia, precari – e qui dovrà provare a farcela da solo. Se ce la farà a quel punto, tra un paio d’anni, sarebbe saggio tornare concordemente alle urne a metà legislatura, e le coalizioni a quel punto sarebbero guidate dai segretari dei novelli partiti maggiori – al momento attuale direi Veltroni e Formigoni, ma la Sibilla qui farfugliava quindi posso sbagliarmi.

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Poi mi sono svegliato, ho dato i croccantini al gatto, un bacio al mio amore e mi sono messo ad aspettare il treno, regolarmente in ritardo sulla tratta Brianza-Milano. In carrozza leggo un libro piuttosto attuale che vi consiglio di cuore.

kundera in brianza

Ieri sera sopra la Milano-Meda appena fuori dal confine di Milano, dove le due carreggiate si infilano guizzanti nella distesa di capannoni industriali e centri commerciali, villette, tralicci e residui di campi coltivati che una volta si chiamava verde Brianza lasciandosi alle spalle il piombo della città, proprio lì sopra sono passati due strani uccelli. Avevano il collo lungo, la testa piccola, il corpo grassottello e ali triangolari. Però non erano anatre. Noi eravamo in auto, nella coda silenziosa, mentre fuori accennava a piovere. Andavamo a  casa e io avevo comprato due bottiglie di vino.


Però non c’entra anche se mi piacerebbe andare avanti, ma non sarebbe un racconto dato che è successo davvero, no? Quindi perché scriverlo, senza personaggi e senza storia? È vero che se sta scritto, se sta qui, proprio qui dove leggi, non lì, qui! qualcosa come una storia implicita si allestisce e le lettere diventano personaggi, "noi" non siamo noi, nascoste tra le righe si muovono azioni invisibili come topi, scorrono flussi che si piegano in rapporti di forza, in architetture che mostrano il diagrammma di prevedibili sviluppi. E tutto succede anche parlando d’altro, di idee, di cose, come insetti posati sulla pagina bianca. Bella scusa no? Troppo facile. Ecco che siamo andati avanti, ma girando in tondo o come per l’illusione di una corsa sul posto.

Venendo al punto, la raccolta "L’arte del romanzo" di Kundera è interessante e si legge rapidamente. A me non piacciono i romanzi di Kundera. Non dovrei fare affermazioni del genere visto che ho provato a leggerne uno solo. Quando ci ho provato, anni fa, trovavo che ci infilasse troppa filosofia. Il che è grave solo se chi scrive non la capisce. Intendo Kundera. Secondo me se la inventava. Era kitsch, secondo me. Curioso, no? Magari bastava andare avanti.
Però questo libretto è interessante. Ogni tanto leggendolo si vede benissimo che pensa a se stesso come un grande romanziere, insomma è piuttosto pomposo; parlando dei suoi libri, di come li ha scritti, sembra che stia leggendo l’enciclopedia dell’anno tremila al capitolo sui più grandi scrittori di tutti i tempi. Probabilmente è per via del successo che aveva in quel periodo. Il successo rende chiunque un po’ vanesio.
Però ci sono dentro delle belle frasi. Ad esempio quella sul kitsch, per l’appunto, che definisce con questo giro di parole: il bisogno di guardarsi allo specchio della menzogna che abbellisce e di riconoscervisi con commossa soddisfazione. Oppure la parte in cui parlando del personaggio Jaromil la cui più grande felicità fino a quel momento era stata sentire la testa di una ragazza posata sulla propria spalla, cerca di definire la tenerezza: il tentativo, di fronte al terrore della vita adulta, di creare uno spazio artificiale in cui valga il patto di trattarsi l’un l’alto come bambini. A dire il vero la sua non mi pare una definizione esatta, se non si aggiunge che questa immagine dei bambini su cui costruiamo la tenerezza è retroattiva, proiettata indietro. I bambini non hanno alcuna tenerezza, non sono così, nessuno di noi era così. Sono bambini inventati quelli che ricreiamo, è un racconto di cui noi siamo i personaggi e la nostra storia l’avventura. 
Comunque, le parti in cui Kundera descrive come ha scritto i suoi romanzi sono curiose, quelle in cui filosofeggia un po’ meno, come al solito. A un certo punto parla di Kafka e dice una cosa bella: il comico, la barzelletta è divertente solo per chi vi è di fronte, Kafka invece ci fa entrare nelle viscere di una barzelletta, dentro l’orrore del comico. Bello no? La scrittura da formica in trappola di Kafka, tutta ridotta al presente di K.

Il romanzo "europeo" (dice così), per Kundera, è soprattutto conoscenza: articolazione di possibilità d’esistenza, anche inedite, mostrate attraverso le forme narrative, al modo della bellezza (quest’ultima cosa non ricordo bene se la scriva lui o un altro che sto leggendo in questi giorni). Come sosteneva un filosofo, scrivere non è significare, ma cartografare, anche contrade a venire (contrade? Ma come parla la gente?)
Il romanzo a suo parere è valido se dice ciò che solo il romanzo può dire: "la sua verità è nascosta, non pronunciata, non-pronunciabile". Come l’ironia, "ci priva delle certezze  svelando il mondo come ambiguità". "Chi ha ragione e chi ha torto? Più si legge il romanzo con attenzione più la risposta diventa impossibile". "Inutile rendere difficile un romanzo con affettazioni di stile; ogni romanzo degno di questo nome, per limpido che sia, è sufficientemente difficile a causa della sua consustanziale ironia".
Poi, solo poche pagine dopo, in una tirata sulla grandezza del suddetto romanzo europeo rispetto alla povertà dei filosofi, si mette a filosofeggiare e gli sfugge un giudizio su Sterne: nel suo romanzo si afferma che la poesia dell’esistenza, il suo significato, non è nell’azione ma nella digressione, nella libertà dolce e oziosa. Ma non aveva appena detto che le verità dei romanzi sono nascoste e ironiche?
Fatto sta che mi ha fatto venire voglia di riprovare a leggere un suo romanzo. A casa ne abbiamo parecchi. Ora abbiamo comprato una bella libreria, piuttosto costosa, in una di quelle grandi rivendite di mobili di cui la Brianza è disseminata, così ci staranno tutti i nostri libri. Però portarli dalla vecchia casa sarà una cosa lunga, ma anche una fatica leggera.

Come cavarsela nelle discussioni letterarie


Non è facile evitare certe brutte figure in società. Ma se non le evitiamo, quale futuro letterario potrà mai aprirsi per noi?
Questa è una domanda che cruccia profondamente molti di coloro che con timore e tremore si affacciano al bel mondo delle lettere patrie. Ma per fortuna, esistono alcune semplici regole che possono farci uscire dai guai!
Ad esempio, quando leggete una presa di posizione su questioni letterarie, oppure cercate di raccapezzarvi davanti a una babelica discussione su questo o quell’autore, dovete avere sempre l’accortezza di osservare se sono presenti alcuni elementi ricorrenti. Questo vi aiuterà molto a chiarire il vostro pensiero, non tanto sull’oggetto in questione – che non importa veramente a nessuno – quanto su ciò che state leggendo: vi permetterà in pratica di superare brillantemente l’impressione di immobilizzante timor sacro che, a volte, certi discorsi intricati o viceversa certe opinioni nette o in apparenza nettamente argomentate, o certi apparentemente esoterici dibattiti, suscitano inevitabilmente nei profani.

La profilassi in questi casi prevede due semplici accorgimenti.
In primo luogo, notate se la discussione in questione verte intorno a giudizi di valore, del tipo "questo è meglio di quest’altro", o "questo è il massimo", o "questo è il minimo", o "questo è grande perché…" o simili.
L’individuazione del giudizio non è sempre immediata: a volte esso è esplicito e ben evidente, altre volte è nascosto tra le righe.
Adottate quindi il secondo accorgimento: per stanare il giudizio dovete individuarne le tracce, che consistono nella presenza di alcune argomentazioni tipiche. Eccone per chiarezza un elenco, suddiviso secondo il livello mentale temporaneo di chi le pronuncia (detto anche, in medicina legale, eclisse temporanea delle facoltà superiori)

1. Livello caramella (o prelogico, anche detto del kitsch)
– "Bello…" (con sguardo sognante) = è bello
– "Brutto!" (con espressione di ripulsa e disgusto) = è brutto

2. Livello brutus (o animale)
– "Mi fa provare emozioni/mi procura piacere" = è bello
– "Non mi tocca" = è brutto

3. Livello che guevara (o ideologico)
– "L’autore la pensa nel modo giusto" (la pensa come me/ha la mia stessa visione delle cose, della vita, della morte, della società ecc.) = è bello
– Il contrario = è brutto

4. Livello "quanto so’ figo io" (o paraestetico)
– "L’autore scrive come si deve scrivere oggi/sempre" (aderisce alla stessa moda o visione estetica o poetica cui aderisco io) = è bello
– "L’autore scrive in modo superato/inadeguato" = è brutto
  (variante snob: scrive in modo superato = è bello)

5. Livello della beata tolleranza (o precritico – unisce ideologico e paraestetico)
– "L’autore pensa le cose giuste (la pensa come me) e scrive in modo adeguato all’oggi" (cioè bene, cioè secondo la moda estetica o poetica prevalente o quella cui io aderisco) = è bello
– "L’autore pensa cose sbagliate ma le scrive bene" (o: pensa le cose giuste ma le scrive male) = non è il mio genere ma lo apprezzo, dovrebbe migliorare.
– "L’autore pensa le cose sbagliate e le scrive male" = è brutto

Una volta che avete individuato la presenza degli indizi sopracitati, in forma pura o in qualche variante miscelata, siete come si dice a cavallo. Infatti sappiate che:

1. in generale, intrattenersi sul giudizio di valore di specifiche opere indica di per sé una scarsa attenzione o interesse al fatto letterario (come dice in modo fin troppo tranchant l’esimio professor Van der Fryeren, "la dimostrabilità del giudizio di valore letterario è per il critico come la carota per l’asino").

2. Se poi sono presenti in modo implicito o esplicito alcuni degli gli elementi indiziari detti sopra, la presa di posizione o discussione cui state assistendo ha senza dubbio più elementi in comune con il Processo del lunedì o con una di quelle piacevoli discussioni che si svolgono davanti a un piatto di tagliatelle, di quanti ne abbia con un’analisi letteraria. Quindi non perdetevi d’animo: potete considerare eccessivi tutti i vostri timori reverenziali e buttarvi senza remore di sorta nella discussione. Vale tutto. E mi raccomando: divertitevi!

G. B. Argano, Le lezioni di letteratura del professor G. B. Argano, Laterza, Bari, 1974

Minima muraria, 2


Qui da noi è piuttosto normale che le persone, statisticamente parlando, abitino con i genitori fino a età piuttosto avanzate per non dire imbarazzanti (e più facilmente, specie se sono donne, che escano di casa solo per sposarsi o simili). Il fatto è, l’avreste mai detto? deleterio sia per l’equilibrio psichico dei figli che per quello dei genitori che se li tengono appresso. Non ci vuole un genio a capirlo.
La faccenda fa il paio con l’altra per cui, sempre qui da noi, in molte professioni a 40 anni sei considerato giovane, praticamente debuttante – quando in realtà cominci già un po’ a marcire.

No, non è precisamente per amore della famiglia o per rispetto agli anziani che tutto ciò accade, ma perché, nel primo lato del problema, i soldi pubblici che altrove sono spesi per sostenere in vari modi la fuoriuscita dalla famiglia, lo studio o l’accesso all’abitazione – per non parlare dei periodi di non lavoro tipici degli impieghi eufemisticamente detti flessibili – qui non lo sono affatto (da noi si spende il 65% del bilancio del welfare in pensioni, contro il 40% di media europea*. Ovvio che i soldi poi non bastano. Corollario: la pensione dei genitori finanzia il futuro abitativo dei figli e le donne smettono di lavorare, statisticamente, più che negli altri paesi); d’altro canto un sistema in cui in molti settori si procede per cordate o aderenze – mai provato a fare un concorso universitario? – non incentiva di certo l’assunzione di responsabilità da parte dell’ultimo arrivato.

Le cause in feroce sintesi**: il nostro welfare da una parte è ancorato alla permanenza in un posto di lavoro fisso – e quindi penalizza chi non l’ha o ce l’ha precario: in sostanza è costruito sul modello maschio-occupato; dall’altro non è universalistico ma vagamente clientelare (lo scambio sociale attuato attraverso la centralità del sistema pensionistico – cioè un sistema per cui chi più ha più riceve – oltretutto ulteriormente aggravato da un calcolo contributivo a tutto vantaggio del fattore-età contro una sana gestione entrate-uscite,  e l’espansione abnorme del debito pubblico nei decenni passati sono state del resto le leve per la permanenza al potere di una rappresentanza politica e di un blocco sociale che di tale scambio – soldi "vincolati" contro voti "indirizzati" – ha fatto il suo bastione difensivo, fino al crollo ineluttabile di fine anni ’80, non ancora digerito causa ovvia resistenza e rischio di conflitto sociale ingestibile).

Tutto questo ha i suoi ovvi effetti, tra cui cito i più curiosi: maggior importanza della famiglia come luogo della redistribuzione, minore senso civico e della responsabilità collettiva, scarsa tendenza all’innovazione esistenziale. Oltre ai già citati danni psicologici e connesso senso di ineluttabilità, fatalismo e velleitarietà che amorevolmente culla le giovani generazioni dello stivale.

Il programma minimo di un ministero del welfare del prossimo governo qualunque sia dovrebbe essere: sganciare progressivamente il welfare dal lavoro per indirizzarlo al singolo e ai suoi legami sociali liberamente scelti.

———
* vedi il file .doc scaricabile: in particolare la tabella 4
** per una sintesi un po’ meno feroce, vedi qui.

Minima muraria, 1


L’Italia si mostra come un sorprendente ammasso caotico e visivamente piuttosto puteolente di cartelli pubblicitari lato carreggiata, discariche sommarie, villette a schiera, cementificazione selvaggia, ubiqua, dozzinale e pretenziosa, capannonismo debordante e diffuso, oggettistica stradale improbabile e infinitamente variata, incongruenza estetica e formale.
L’assenza "culturale" di una chiara
indicazione circa "il modo giusto in cui ogni singola cosa deve accadere", presente in vari modi presso altri popoli, oltre alle smodate ambizioni locali di sottogoverno assessorile di tizio e di caio, porta alla proliferazione e alla varietà (o forse il processo è l’inverso, ma ciò che conta qui è il risultato); proliferazione che in sé non è affatto il male, anzi; se non fosse che si dà come scarto, come arraffamento e consumo privato di un minimo Versus un massimo (la determinazione del sé pubblico, "civile") che pare sottratto a priori, perduto nei labirinti immobili e bizantini di un potere lontanissimo e canuto – e probabilmente ugualmente im-potente.

(La chiara visibilità del male e del turpe nella forma dell’affermazione sgangherata e provvisoria di sé contro ogni obiezione nell’esistenza altrui, è sempre buon ammaestramento morale contro il bigottismo paternalistico dei buoni sentimenti; purtroppo l’effetto di tale visione spesso non è la via stretta della "pietà" e della dolcezza, la spinta alla cura, ma cinismo e impotenza, frustrazione e inazione.)

Il programma minimo di un ministero del territorio del prossimo governo qualunque sia dovrebbe essere:
decostruire, codificare, regolare, proteggere, sottrarre.

(magari prosegue)

Il corpo della poltrona


"La sala da pranzo e la biblioteca dei miei ricordi, abbattuta la parete divisoria, erano diventate un’unica stanza, grande e spoglia, con pochissimi mobili. Non cercherò di descriverli, perché non sono sicuro di averli visti, malgrado la spietata luce bianca. Mi spiego. Per vedere una cosa bisogna comprenderla. Una poltrona presuppone il corpo umano, le sue membra e le sue articolazioni; le forbici, l’atto di tagliare. Che dire di una lampada o di un veicolo? Il selvaggio non può percepire la Bibbia del missionario; il passeggero non vede lo stesso cordame che vede la gente di bordo. Se vedessimo davvero l’universo, forse lo capiremmo".

Certo, posto che fraintendere è regola del comprendere, si può imboccare una direzione semplice nell’intendere questo bel passo di Borges: vedete, gli eschimesi hanno venti nomi per "neve", che restituiscono sfumature di bianco e ghiaccio che noi non vediamo neppure, in rapporto ai loro usi di sé e della neve. Quindi diciamo: c’è una realtà stabile ma di per sé inattingibile, che le svariate visioni del mondo, ricalcate dal linguaggio inteso come loro strumento, ci restituiscono ogni volta diversamente. Ognuno dice e abita la sua visione, la storia è varia, oggi succede questo, domani quello; ma ahimé, infine è anche così vana

Allo stesso modo, quel passo vi può forse suggerire l’idea – insieme ovvia e invisibile – che mente, mondo e corpo sorgano assieme e reciprocamente, e che nella tecnica risieda la struttura di ogni conoscenza, e nel corpo – il corpo disseminato nel e di mondo – la struttura di ogni tecnica. Il che, forse, non è detto, potrebbe spostare un po’ la nostra idea di cosa sia uno "strumento", e anche di cosa sia un "atto" o un "pensiero", redistribuendo diversamente la classica divisione e i paradossi di un contingente insensato ma ubiquo e di un necessario sensatissimo ma assente.

Nel mio piccolo poco professionale avevo tempo fa proposto alcune elementari ed eclettiche (nel senso di copiate qua e là) riflessioni sul tema, obiettando a un opposto modo di intendere la tecnica; ad esempio qui oppure qui.
Non sono proprio letture da spiaggia, ma forse va a rinfrescare…

Il morto guida il vivo


Una curiosa tropologia del revival

due volte questa stòria mi è apparsa
e se tu eri la farsa, lei ora è la mia nòia
(K. Marx, U. Tozzi)

Secondo un’opinione corrente la storia va in una direzione, ovvero dal passato al futuro. Il che significa almeno due cose, che vi è una direzione e che essa è una. Menti più raffinate dubitano di questo sguardo affrettato, fanno notare che il numero delle storie dipende dalla scelta degli attori e degli eventi da considerare degni di figurarvi, così che le storie possono essere tante quanti gli individui, o si può fare storia di concetti, di classi, di istituzioni e di tutto quel che si voglia e tali storie possono andare anche a velocità differenti e in "versi" tra loro incongruenti.

Altri hanno obiettato che parlare di versi o direzioni è un’evidente proiezione del proprio punto di osservazione e persino della propria facoltà di parlarne, o della possibilità che ad alcuni ciò sia consentito a dispetto di altri. Si dubita poi che su tutto regni in realtà l’immobilità, o al più una circolare ricorsività. Altri infine, ancora più raffinati, obiettano che invece ogni azione, staccandosi da un passato che gli fa da sfondo, da una parte ne dipende, dall’altra lo rende inattuale aprendosi un proprio futuro e nel "contempo", per così dire, rilegge il passato a partire da sé, così che in ogni istante di ogni azione che accade, infiniti passati vengono di nuovo partoriti da infiniti presenti che si gettano a capofitto in altrettanti infiniti destini. Una visione vertiginosa e labirintica che non è qui il caso di discutere.
A noi, e per i nostri fini di invenzione, basta dubitare dei due assunti che l’opinione corrente si fa intorno alla storia: può non essere una, può andare in più versi.


Alle volte sembra che un tempo passato possa ritornare, non solo nei ricordi, o nella casualità di eventi che si ripetono simili: piuttosto in un’immagine riassuntiva che la mente si fa di un periodo e nel pellegrinaggio spirituale che si decide di compiere continuamente presso quel tempo immaginato.
Ciò che chiamiamo revival rispecchia questa definizione. Il presente allora si sdoppia e accoglie presso di sé un’immagine, l’ologramma di un altro tempo fuori tempo che viene fatto risiedere tra noi. Il presente insomma accoglie i trapassati; noi stessi ci mettiamo la pelle dei morti. Questo fenomeno che diciamo di costume non è inconsueto e nemmeno insignificante. Consideriamone l’esempio a noi più vicino: l’Italia degli ultimi venticinque anni.

È a partire da un anno preciso, il 1979, che una linea di revival si è attivata dentro la nostra cultura cosiddetta di massa ed è proseguita fino quasi a oggi. È come se a partire da quell’anno, due linee temporali abbiano iniziato a scorrere parallele e continue: così il 1980 ospitava in sé il 1950 e in esso si guardava come dentro uno specchio, il 1985 ospitava il 1960, il 1990 ospitava il 1970 e così via: mentre nella prima linea, quella ospite, il tempo avanzava alla velocità astronomica che gli conosciamo, in quella ospitata scorreva a velocità quasi doppia, come se tentasse in tutti i modi di raggiungere la prima, di ricongiungersi. Quello che si vuol dire è che questa linea di revival, questa coazione a ripetere che nel 1979 ha partorito dentro di sé la memoria reinterpretata di 30 anni prima, e da lì in poi ha prodotto il successivo e ventennale tentativo di riunire il tempo collettivo e la coscienza del suo scorrere, non è innocente o casuale, ma è lo specchio entro cui leggere ciò che la nostra società, o una sua parte, ha oscuramente pensato di sé e delle proprie sorti pubbliche e private.

Infatti fino alla fine degli anni ’70 del novecento la storia, almeno dal nostro punto di sguardo che evidentemente non è estraneo a questo gioco, pare procedere diciamo così in avanti, o perlomeno così pareva a quell’opinione comune cui si è accennato all’inizio, e procedeva pur con alti e bassi, come suo costume, senza che quell’avanti volesse dire qualcosa: allo stesso modo si sarebbe potuto sostenere che fosse un indietro, o un di lato, poco importa. In quell’anno di colpo essa invece si sdoppia. Come accade in quelle pellicole di dubbia fattura in cui la diafana immagine del paziente in coma si stacca dal letto d’ospedale e si solleva non vista vagando verso il soffitto e guardandosi dall’alto, nel 1979 e con non migliore fattura l’anima della nostra piccola e periferica storia si scolla dal suo corpo, come per un botto, e rimbalza indietro, mentre il corpo procede inanimato in avanti. Da allora è tutto un inseguire, un cercare di colmare lo iato, la fessura. Ma chi segue, chi si scolla? Difficile da dire.

Immaginiamo un bambino di fronte al suo desiderio, o dentro di esso. Se a quel desiderio, che costruisce e inventa il mondo stesso del bambino e ciò che egli è o vuole diventare, viene impedito di svilupparsi, egli diventa infelice. Allora ha un modo tutto suo di convivere col suo lutto: tornare indietro alla propria genesi. Ricostruendosi, ritrovando se stesso col dimenticarsi di sé, col disperdersi, disseminandosi nel proprio percorso e infine tentando di tornare a sé risaputo, spera forse di superare il muro che lo ostacola, o forse solo di fuggirlo. In lui si agita la consapevolezza della sconfitta, ma assieme l’ansia di sopravvivere e forse d’averla vinta alla fine.

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Il revival è un calco e nel vivo che si porta sulle spalle il morto c’è un insegnamento da trarre. Qui di seguito, come esercizio ulteriore di ricostruzione fantastica, ci limitiamo a dare qualche traccia di approfondimento, una bozza di cartografia temporale dell’inseguimento tra i due tempi incastonati uno nell’altro. Ai lettori più dotati di memoria il compito di approfondire la mappa.

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Fine anni Settanta. Le premesse del revival come remortum
Il fallimento politico-pratico di un’intera generazione nel suo tentativo di costruire a propria immagine una società, consumato nel triennio 1976-1979 in forma di catastrofe, per proprie e altrui colpe che covavano da un decennio almeno e che non è qui l’occasione di rivangare, produce nel corpo più esposto della società una sorta di congelamento, di immobilità attonita, e una regressione collettiva. Il 1979, annus horribilis di grande ferocia e scialo di morte, accade senza che un suo solo giorno scorra per davvero. Il suo fantasma orrendo attraversa le strade e al suo passaggio, come fosse sfiorato da un tocco ferale e dopo una lunga zona di silenzio, sullo specchio della riproduzione immaginaria, della narrazione di sé con cui si conosce ciò che siamo costruendolo di nuovo, riemerge l’immagine di un eternamente giovane passato, avvolta in un indecifrabile sorriso. È la soluzione nevrotica, il sintomo guida, che la società sceglie di raccontarsi e di raccontare a tutti: il ritorno fantasmatico all’infanzia della storia, infanzia soggettiva dei protagonisti e collettiva della repubblica: gli Anni Cinquanta. Il gioco infantile del “facciamo finta che” è una compensazione fallace e insieme una sorda e profondissima resistenza, la soddisfazione sviata del desiderio in un oggetto sostitutivo e tuttavia materiale, denso di risultati e di conseguenze, permanenza di una vita oltre la morte e la sconfitta. Nascerà il revival come prodotto originale e crasi immaginaria tra la coscienza degli sconfitti, ormai integrati nei meccanismi produttivi e proiettivi – si chiamò "il riflusso" con metafora acquatica o gastrica – e quella dei vincitori, che amministrano ciò che pubblicamente può essere detto. Insieme e tuttavia separati da tutto, inizieranno a fantasticare, a intrecciare un racconto, un sogno terribile.
Per ora tuttavia, fermi su questo limite silenzioso e privo di materia, l’unica consapevolezza è un’altra: il tempo è finito. nofuture. Il sosia si mostrerà nel mondo, il corpo occultato è costretto a sanguinare.

Primi Anni Ottanta. Noi siamo i Felici Anni Cinquanta
Il fallimento politico e militare delle utopie degli Anni Settanta fa tornare la "coscienza incosciente" delle forze sociali all’ultimo periodo felice, all’infanzia mitologica dei protagonisti, il tempo dell’ottimismo traboccante in cui si respirava piena la promessa del consumo. Ma, come ogni riproposizione è consapevole degli esiti infausti di ciò che ripropone, così l’edonismo esasperato dei Primi Ottanta non riproduce l’ottimismo dei Cinquanta, ma si limita a recitarlo con una sorda, materiale consapevolezza della finitezza dei corpi, del loro degradarsi, con una barocca passione per la carne mortale, con la distopia che sa fallita l’utopia che recita, il medesimo mutato di segno. La promessa del consumo non è stata mantenuta: oggi recitiamo la potenza felice della nostra capacità di creare il mondo, sapendo che dalle nostre mani nascerà il dolore. Intanto, ridiamo.

Secondi Anni Ottanta. Gli Spensierati e Rombanti Primi Sessanta
I secondi Anni Ottanta sono un rapido passaggio nei felici primi Anni Sessanta del tutto consegnati a un’immobile mitologia, in cui all’eroismo ingenuo degli esploratori solitari si è andata via via sostituendo la macchina rombante della produzione collettiva di felicità come orizzonte condiviso. Il boom economico e le rotonde sul mare.

La Parentesi. Fine Anni Ottanta, Fine Anni Sessanta: l’impossibile
Il corpo vivo della storia si preoccupa di ricordare la sua presenza con inciampi e cadute. Alla fine degli Anni Ottanta il contemporaneo crollo del sovietismo sul piano internazionale e del democristianismo su quello interno, perfetti gemelli siamesi e avversari a sovranità limitata, consegna per un istante la società a una nuova apertura e speranza. Ma i due tempi spirituali in cui essa è scissa sono in piena sincope, non sono pronti a ricongiungersi: l’anima, perduta indietro nella propria rimemorazione recitata nel mondo attraverso il revival, è giunta ora per coincidenza preziosa nel passaggio tra i Tardi Sessanta e i Primi Settanta e qui trova le nuove figure del suo percorso onirico. Quel tempo perduto condensa in sé l’immagine di ciò che ora, di fronte al crollo reale un tempo agognato, si dovrebbe saper produrre ma non si può: la ricerca del nuovo, il tentativo di rompere i limiti, la ribellione. Incapace di coordinare corpo e mente, che si muovono asincroni in due diversi tempi, tale istanza incapace d’essere si traduce in un fantasma irrigidito e tetro, senza corpo: il giustizialismo.

Anni Novanta. Il ritorno dei Settanta, revival della rivolta e della sconfitta
Gli Anni Settanta avevano consumato il fallimento che è all’origine del fenomeno dello sdoppiamento di cui stiamo narrando le forme. Il revival, nel suo decorso, torna dunque ora sul luogo del delitto che è anche quello della sua nascita, il suo motivo d’essere. In tale pietosa e inconsapevole frequentazione della propria matura ascesa e rapida caduta, si consuma il tentativo disperato di riconsegnarsi a un’innocenza perduta, di ritrovare la carne del desiderio non ancora distolta da sé: la politica. La coscienza ritrova il suo sogno, ma ne percepisce tutta l’impossibilità retrospettiva: il suicidio si mostra come esasperata e fasulla recita di un essere perduto, che non si può possedere.
L’apoteosi di questa mostra di impotenza si fa prototipo a Seattle e da Seattle, prima come costume di recitata autodistruzione e poi come atto di volontarismo politico assoluto. Nella pantomima del suo modello (il movimento contro la guerra in Vietnam e poi l’esplosione planetaria della rivolta degli anni Sessanta-Settanta) si offre in tutta la sua estenuazione sul finire dei Novanta e all’esordio del nuovo secolo: pura rivolta etica e morale, recita di anime belle e immateriali che incontrano inaspettata e immancabile, all’appuntamento non più rammentato, la tragica eterogenesi dei fini e il potenziale di dolore che la fede nel futuro può mettere in moto. Il cerchio sta per chiudersi, manca un solo passo.

Fine Anni Novanta e Nuovo Secolo. Il revival autoreferenziale terminale
Il meccanismo del revival, giunto a questo punto, cioè alla soglia del revival di se stesso e del proprio esordio, si avvita fino all’assurdo e mostra la sua natura duplice, di muta resistenza da un lato, ma di giocata rinuncia dall’altro. Sono questi gli anni in cui tornano ma in ferale immagine proprio gli Anni Ottanta, che per primi inaugurarono questa pratica di frequentazione delle tombe. Revival di un revival, i Primi  ’00 ci riconsegnano gli "stessi" protagonisti degli Ottanta che allora mimavano i Cinquanta: un presidente figlio che ricalca le orme del presidente cowboy, un premier rifatto con la chirurgia a fotocopia di se stesso palazzinaro e fresco comunicatore, il "ritorno religioso" dell’antimodernismo newage, ultimo cascame hippy sopravvissuto negli Ottanta, rivisitato come neo-medievalismo cattolico. Il gioco è sempre più scoperto e ribaltato, più confuso, fragile, terminale: il diaframma di nulla sta per essere strappato e le forze tornano a congiungersi con se stesse, ad avere a che fare con la costruzione di sé come compito infinito e ignoto. Il revival è svuotato, finito. Resiste come meccanismo eterodiretto. Quando il protagonista si riunisce col suo sosia, la storia ottiene il suo agognato corto circuito.

La politica della politica (della politica)


Di nuovo il gioco di ieri, gioco di fantasia astratta, di ricostruzione immaginaria che rintraccia lo scorrere apparente degli eventi nella più generale immobilità impaludata e malsana.


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Più o meno come in altri Paesi europei, anche da noi ci sono quelle tre o quattro tradizioni politiche che fanno orgoglioso un Paese della sua storia democratica, specialmente nei documentari e nei pastoni di mezza sera. C’è infatti una tradizione socialista, una cattolica, una liberale (si può discutere dell’esistenza in vita d’una tradizione repubblicana o se la verde sia un’ideologia o un carburante, o che pensare del poppulismo xenofobo e valpadano, ma insomma…). Da noi, come da altri ma in modo più ostentato, ci si sbizzarrisce con le varianti: socialista o socialdemocratica? Cattolico democratica o cattolico conservatrice? Liberal democratica, libertaria o liberal conservatrice? Se poi si vuole mettere in conto le eresie il gioco va ancora oltre: la tradizione comunista democratica, gemella della socialdemocratica, o la tradizione nazional-conservatrice, gemella della cattolico conservatrice: entrambe conservarono il nome di qualcosa – il comunismo, il fascismo – ma non ne ebbero mai la sostanza, da sempre più o meno acquisite a forme più o meno mature di democrazia più o meno parlamentare.
Ma a che serve questa raccolta di ovvietà?


A far vedere un’altra cosa ovvia, e cioè che tali tradizioni sono rappresentate oggi dentro una miriade di organizzazioni politiche diverse. Basti pensare alla tradizione socialista. Abbiamo: sdi, nuovo psi, ds, pcdi, rifondazione. Ora, rifondazione è un partito socialdemocratico, al di là delle balle propagandistiche che il Fausto ogni tanto ci racconta. Tutta ‘sta gente dovrebbe stare assieme. Perché non lo fa? La risposta che richiama il mercato politico spiega, ma non giustifica. Sarà anche vero che ci sono fasce sociali deboli che pretendono politiche radicali e quindi rifonda farebbe bene a rappresentarle. Ma che le debba rappresentare in un corpo separato e non dentro un contenitore più vasto (in cui magari avrebbero anche più possibilità di contare) è faccenda tutta interna a meccanismi politici autoreferenziali. Senza contare che la pretesa radicalità delle estreme è più una favola retorica che non oggettività programmatica.
Lo stesso dicasi della tradizione cattolica, che sta dispersa in almeno 5 partiti (an, fi, udc, margherita, truppe mastellate). Non parliamo dei liberali, che un partito serio non l’hanno nemmeno mai avuto. Si potrebbe proseguire.

Ora, tutto sto spezzatino non sarebbe di per sé nemmeno un gran problema. Anche la faccenda della governabilità è sempre stata un po’ montata ad arte: nella prima repubblica (usiamo questo eufemismo) i governi duravano un batter di ciglia, ma chi governava erano poi sempre gli stessi. Si trattava di accontentare un po’ tutti, insomma, e l’andirivieni di ministri e poltrone, di refoli e correnti, garantiva col meccanismo delle clientele che tutti gli strati sociali ricevessero ogni tanto qualcosa, a condizione di avere un aggancio alla macchina politica e che questa potesse occupare tutti gli spazi, non attraverso meccanismi istituzionali – quindi trasparenti, ma anche irrigiditi in una gabbia statuale – ma per via di aderenze, solidarietà, del vecchio buon cuore democristiano, di tutta la trafila delle relazioni e dell’amicizia, mai tramontata parola d’ordine. La pace sociale tanto cara alle gerarchie di oltretevere: un occhio al portafogli, l’altro al crocefisso. Un partito stato non così differente da altri di peggior fama, e tuttavia anche diversissimo.

Con la sedicente seconda repubblica il problema della governabilità si dà in altro modo: svanito, a causa dell’irruzione socialista, il sistema di governo capillare della società, che con i suoi flussi verso l’altro e verso il basso permeava tutto quanto, trasformata proditoriamente la famiglia in cosca e la lotta politica in scontro tra nomenklatura di boss e giacobinismo giudiziario, sfasciato insomma il giocattolo, si tratta ora di garantire una qualche legittimazione al governo dopo che le tradizioni da cui siamo partiti sono esplose diffondendo schegge ovunque.

Nella prima fase si è risolto il problema con il culto della personalità, importato a basso prezzo dalla Russia da poco ritrovata. Non sappiamo cosa pensa tizio o caio, però è lui, e ci rappresenta. Berlusconi, Prodi, Rutelli sono gli esempi meglio riusciti (sorvoliamo su altri, che so, Di Pietro, Segni…). Intorno a tali personalità le forze politiche superstiti o le nuove hanno tentato di costruire i due poli (il muro berlinese è crollato, non dimentichiamo: anche noi oggi siam liberi di cambiare governo), avvicinandosi più per contrastare il polo avverso e la personalità guida che sforzandosi di darsi obiettivi comuni.
Il gioco è durato un po’, ora mostra fibre, toppe e cuciture: le ambizioni di parte spingono ogni gruppo organizzato interno ai poli a marcare la propria identità (anche fasulla), al fine di guadagnare visibilità nel mercato politico, facendo alla fine collassare la possibilità stessa dell’accordo costruito sulla base della personalità garante. I poli sono poco più che cartelli elettorali, incapaci sia di garantire governo per via clientelare, che di impostare politiche trasparenti e coraggiose, dotate in un minimo di coerenza.

Ci sono varie teorie per uscire dall’impasse, teorie cioè che riguardino la pratica politica, non suggerimenti di meccanismi tecnici, tipo leggi elettorali o riforme istituzionali. E la loro stessa esistenza è in fondo proprio concausa della debolezza dei poli.
Una teoria punta alla riaggregazione: le vecchie famiglie devono ricostituirsi. Socialisti con socialisti, democristiani con democristiani e così via. Solo la sorgente delle tradizioni di appartenenza, pur aggiornate, può fornire carburante per costruire programmi coerenti e identità politiche stabili e riconoscibili
L’altra teoria dice che occorre costruire nuove aggregazioni inedite mischiando elementi delle tradizioni precedenti: le vecchie divisioni sono superate, i muri caduti, e i problemi nuovi impongono nuove visioni, che certo traggono l’ispirazione da quanto sopravvive delle vecchie famiglie in termini dei sempre nominati "valori", ma non molto di più. L’ulivo, come tentativo di mettere assieme socialisti e socialdemocratici con cristiano democratici e liberal democratici è l’esperimento in vitro più avanzato. Il "partito unitario" di centrodestra, sempre non sia un giochetto dell’ultim’ora, pure.

Entrambe le strade al momento si scontrano con problemi inediti e spesso insormontabili. Tornare alle vecchie famiglie pare ostacolato dai nuovi poteri che nel frattempo si sono consolidati, e che non intendono togliersi di mezzo senza tornaconti. Il tentativo di costruirne di nuove sembra sempre sul punto di soccombere sia ai suddetti nuovi poteri che alle nostalgie delle vecchie identità, ossia alla prima teoria, nonché alle alleanze tattiche tra primi e seconde. Sopra tutto aleggia la consapevolezza dell’evidentissima autoreferenzialità "politicistica" della situazione, senza che ciò diminuisca tuttavia la difficoltà per i singoli attori di risolvere il rebus.

Al momento, sono notizie dell’ultim’ora, pare che l’ipotesi di uscita dalla crisi della seconda repubblica proposta dal Professor Prodi, l’ulivista, consistente come detto in una fusione fredda tra cattolicesimo democratico, socialdemocrazia e liberalismo progressista, che doveva preludere ad analoga fusione dall’altra parte tra cattolicesimo conservatore, liberalismo sregolato e nazional-conservatorismo, se non è fallita è per lo meno sospesa. Di fatto si congela la situazione ritenendola immatura, dato che ancora non è chiaro se convenga andare per questa via di meticciamento generale, o se sia preferibile la ricostruzione identitaria delle tradizioni d’antan, che sotterraneamente continua a lavorare.
Di fatto Sor Mortadella, semmai ci debba governare, sarà un re senza corona, salvo improbabili e finora mai notate sue capacità di smarcarsi dalle tutele e governare da solo sulla base di idee forti. A decidere tutto saranno gli accordi tra segreterie. L’Unione torna ad essere un cartello elettorale.

Cosa accadrà domani non è dato chiedere. Che qualcosa di estraneo del tutto, piacevole o temibile che sia, finisca prima o poi per irrompere come ventata d’aria pura o di fuoco vivo, non perché se ne dia sentore, appare probabile se non altro per via delle lezioni della storia, o forse della statistica, che potrebbero anche essere la stessa cosa.


Il gioco del mattone


Una delle prospettive
con cui guardare la politica, certo non la più intelligente ma piuttosto divertente, se uno è perverso, è quella dei cosiddetti "retroscena", quegli articoli che compaiono nelle pagine interne dei quotidiani e provano a spiegare ai non addetti ai lavori cosa si muove dietro le quinte delle dichiarazioni di leader e comprimari. È un passatempo gustoso, spesso c’è una buona dose di invenzione, alle volte mestiere e acume, non mancano pettegolezzi e venticelli, e ogni tanto ci azzeccano. Un po’ come il calciomercato. Di seguito un esercizio di stile su quella falsariga. Come nel calciomercato fa notizia l’inter, qui fa notizia il centrosinistra. La sfiga vende copie, questa è una legge antica del giornalismo.

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La rottura tra Prodi e la componente popolare della Margherita è a un passo. Ma cosa accadrà se il passo si compie? Possiamo immaginarlo in un gioco di azione e reazione, in una catena di eventi collegati simile a quelle macchine immaginarie in cui una candela brucia un filo, un filo non trattiene più un vaso, un vaso svuota l’acqua, l’acqua riempie un bacile, una bilancia si squilibra e alla fine di tutto un mattone cade in testa a un malcapitato ignaro o in tremebonda attesa.

Dunque, se Prodi rompe definitivamente con Rutelli e fa una cosiddetta Lista Prodi, la Margherita si spacca, è matematico. A quel punto è molto improbabile che Prodi possa continuare a fare il premier designato: la Margherita, proprio perché spaccata, non lo accetterebbe mai, piuttosto corre da sola. Ma questo sarebbe inaccettabile anche per i Ds, che sanno che in questo modo si andrebbe al massacro e vincerebbe il berlusca pur decotto (o Casini, come è più probabile). Né è pensabile che in ipotetiche primarie volute da Prodi per cautelarsi, Rutelli si presenti come antagonista togliendo d’impiccio il Professor Mortadella: il ragazzo non è un suicida. E le primarie con Prodi unico candidato non risolverebbero il suo problema, che è di garantirsi un’area di manovra post-elettorale che tenga dentro sia Ds che Margherita.

Quindi, nell’impossibilità di sciogliere il nodo con i tecnicismi, e a seguito del diniego rutelliano, i Ds scaricheranno Prodi. Per fare cosa? Se passerà la scissione nella Margherita Rutelli proporrà ai Ds di sostituire Prodi con Veltroni, con esiti incerti (andrebbe bene alla minoranza Ds, forse sarebbe digeribile da Fassino, ma risulterebbe del tutto indigesto a D’Alema) o con lo stesso Fassino.
Una Lista Prodi intesa come "ulivetto" (l’Ulivo con chi ci sta, cioè prodiani, Sdi, Ds, Repubblicani e Verdi, ma senza Margherita) a quel punto sarebbe insensata: i Ds non stanno in una lista a guida Prodi quando Prodi non è più il candidato premier e col rischio di rompere del tutto con Rutelli. La lista Prodi diventerebbe quindi una lista personale e terrebbe assieme solo i prodiani della Margherita (e il 18% che gli attribuiscono ora i sondaggi a quel punto se lo sogna). Tale Lista Prodi così configurata, potrebbe poi pensare di associarsi anche al proporzionale con i DS, ammesso che questi esprimano il candidato premier (Fassino o Veltroni), nonché con Sdi, Repubblicani e forse con i Verdi. Non con la Margherita, ovviamente, cui però potrebbe allearsi al maggioritario senza eccessivi mal di pancia. Si avrebbe una nuova edizione del Listone, insomma, senza la Margherita ma con una nuova componente cattolico-democratica al suo posto, per quanto ipotetica.

Così forse si raggiungerebbe una specie quadratura: un candidato premier espresso dai Ds non avrebbe i timori che ha Prodi di rimanere in mutande una volta diventato premier, perché avrebbe un partito sostanzioso dietro di sé, e quindi non dovrebbe temere la corsa solitaria della Margherita nel proporzionale. Rutelli da parte sua potrebbe andare da solo al proporzionale e prendersi un po’ di voti in uscita da ForzaIndia senza più timore di venir fagocitato e morire socialdemocratico. Prodi infine avrebbe una sua forza politica con cui baloccarsi. E il suo progetto di unificazione delle tradizioni socialista e cattolica democratica forse avrebbe ancora qualche possibilità di vita, seppur attaccato a un respiratore e riconsegnato alle segreterie dei partiti. Ma tant’è. Nell’attesa che la Margherita rutelliana – e non solo lei – decida cosa vuole fare da grande.

Rimane il problema del mattone e del malcapitato. Chi sia costui lo lascio al vostro intuito.

Conflitto di disinteresse


Qui si fa bassa macelleria, non massimi sistemi, e si dicono cose scontate, abbiate pazienza.
Non mi è chiaro il disgusto "per il paese" e lo scoramento che si è fatto largo in molti sostenitori del sì. Alcuni sono disgustati perché ritengono gli italiani schiavi della chiesa, altri li ritengono alfieri del menefreghismo (delle due, l’una, per cominciare). In generale, ignoranti e indegni di un paese democratico moderno e civile.


Ovvio, si può sempre pensare che gli italiani siano un popolo ignorante e codino, e persino che il "popolo" in sé, dagli Urali al Madagascar, sia una roba disgustosa e rivoltante. Un certo spazio per l’oasi letteraria che consola i cuori nel dolce dolore del resto è sempre consentito.

Venendo alle cose serie: la percentuale dei contrari (i laici convinti, i libertari, i liberali, i socialdemocratici) e dei favorevoli alla legge 40 (i cattolici praticanti e obbedienti di centro destra, i cattolici pur combattuti di sinistra e i "rivoluzionari di destra" – i neo-teo-beo-con), per quello che io posso capire dei fenomeni, più o meno si equivale. Il resto, cioè più della metà dei connazionali, diciamo il 55%, è astenuto tout court.

Ora, come distribuire dentro questo 55%:
a) gli astenuti fisiologici che non votano mai e poi mai
b) quelli che votano alle politiche ma non ai referendum
c) quelli che comunque votano solo in base a interessi immediati e personali
d) quelli che non ci hanno capito una mazza dei quesiti perché in generale non si occupano di politica
e) quelli che si sono spaventati all’idea di passare per nazisti mangiabambini e sono rimasti paralizzati
f) quelli che non hanno votato perché, come "astensionisti attivi", hanno seguito il richiamo della foresta della chiesa
g) varie ed eventuali;
come distribuire tutto ciò in quel 55% è operazione scontata per i fanatici, impossibile per tutti gli altri.

(alla prima categoria, comunque, va assegnato d’obbligo un bel 25%, per motivi ovvi).

Analisi politiche nel merito quindi si possono fare solo da posizioni partigiane, e saranno delle scommesse dato che, si sa, un po’ di scommessa in politica ci vuole. Salvo non scommettere contro se stessi…

Dire però che "gli italiani" hanno obbedito alla chiesa è almeno azzardato. Sarebbe un po’ come dire che quando non votarono con analoga percentuale il referendum per l’art. 18, obbedirono a confindustria. Se poi i pasdaran integralisti vogliono crederlo, son cose loro, ci sbatteranno il naso.
Dire invece al contrario che gli italiani sono menefreghisti: sì certo, molti se ne fottono, se un problema non tocca loro manco si informano, il giusto e l’ingiusto si fermano al limite dei loro interessi privati. Però, scoprire questa cosa e stigmatizzarla è un po’ come scoprire che a sputare controvento ci si bagna. La politica ha a che fare con interessi singolari e organizzati e con conflitti di codesti interessi(*).

Mi direte: ma l’etica, la visione superiore?
Io sarò anche schifosamente semplificatorio, ma secondo me fare politica laicamente significa che l’etica è un presupposto, semmai, magari, sperabilmente, chi lo sa, chi può dirlo? forse in confessione… ma che di certo pretendere di organizzare politicamente l’etica propria o altrui è esattamente quello che non va nelle posizioni integraliste. Uno che ha votato sì e ora giudica menefreghisti i suoi connazionali che sono andati al mare senza ascoltare più di tanto né gli uni né gli altri, dovrebbe probabilmente consolarsi col fatto che gli interessi contino ancora e semmai dovrebbe darsi gran botte in testa per la propria stupidità e imperizia pratica. Già, dovrebbe intristirsi non perché "il paese non è come vuole lui" (ma che razza di minchiata è questa? Si può mai far politica con questo orizzonte?), o perché "la sinistra non conosce più il paese in cui vive", come farnetica qualcuno – è pur vero ma è la stessa sinistra che ha vinto a mani basse due mesi fa, e non è poi che gli avversari conoscano altri che se stessi – ma perché chi fa politica dalla sua parte, chi dirige, a volte proprio non sa fare il suo mestiere. Non sa fare politica. E lo espone a simili figuracce.

Ecco, se un’analisi di quel 55% non si può fare che da posizioni partigiane, un giudizio oggettivo in generale invece lo si può dare. Ed è questo: intanto e prima di tutto, i radicali non sono più capaci, e da un bel pezzo, di fare politica, e seguirli in azioni di massa, per quanto magari ideologicamente nobili, è sempre suicida. Non sto parlando del merito. Parlo del metodo. Non so a cosa attribuirlo. Immagino che una leadership che dura così tanto senza ricambi credibili si logori per forza. Ma non è affar mio. Io mi preoccupo di partiti che hanno il 20 e passa per cento dei voti.

Ora, quello che è ovvio è che di fronte a:
1) uno strumento come il referendum palesemente del tutto usurato, come è evidente dalle consultazioni degli ultimi 10 anni in cui raramente il quorum si è raggiunto
2) una materia percepita come complicata (o complicata ad arte da alcuni con masturbatorie questioni metafisiche, quando dovrebbe esser chiaro che si tratta di una questione, ovviamente opinabile – e infatti in parlamento la si è votata – di bilanciamento tra diritti)
3) e comunque ideologicamente delicata e sottoposta al vento invero piuttosto misterioso del moderatismo (un conto è Vendola al governo della Puglia, su cui nessuno guarda caso ha da ridire, o l’aborto, guarda caso difeso dall’84% degli italiani – sondaggi recenti – un altro è l’agitarsi di spauracchi insensati ma di facile presa tipo la clonazione, l’eugenetica, le cliniche che "sperimentano sui bambini", la teknocrazia, i bimbi comprati e venduti dalle lesbiche e altro becerume)
4) questione che, a ragione o a torto, è parso toccare direttamente e sul vivo gli interessi del tutto privati di una stretta minoranza di persone (le coppie sterili) e dover interessare tutti gli altri semmai solo per questioni di empatia con i tristi casi altrui
5) e di fronte a schieramenti politici e religiosi per convinzione o per convenienza schierati in maggioranza contro (il che significa anche visibilità mediatica);

ecco, un politico un minimo – ma dico, un minimo – avveduto secondo me avrebbe fatto in modo che si aspettasse la prossima legislatura, con una nuova maggioranza plausibilmente di centro-sinistra (salvo continuare così a suicidarsi) e, esauriti gli strumentalismi filoclericali berlusconiani, soddisfatti col voto gli appetiti elettorali tattici rutelliani, deposti gli estremismi isterici utili solo in fase propaganda, in parlamento avrebbe fatto passare, in commissione e a maggioranza anche trasversale, gli aggiustamenti principali alla legge su cui, sottobanco, quasi tutti sono d’accordo, ad onta della minoranza clericale.
Non tutti gli aggiustamenti? Non con la necessaria radicalità? Sì, può darsi, ma quello che si è imparato della radicalità in politica, speriamo, è che essa non è questione di quel che si pensa, che a pensare son bravi tutti, ma del saperlo o meno tradurre in atti politici sensati e costruirci sopra consenso (progetto, visione, e non superiore, ma immanente).
Chi poi pensa che la democrazia diretta sia in sé "più vera" di quella rappresentativa, ecco, si faccia un giretto, va là, e torni tra un anno.

(*) Altro sarebbe discutere cosa voglia dire "interesse", giacché è qui che si radicano le divisioni reali e sensate. Io posso persino pensare – e magari devo – che "interesse" sia una faccenda complicata, stratificata, che non va in un senso solo, e che la distinzione tra interesse e conoscenza, tra ragione comunicativa e strumentale sia una distinzione un po’ astratta e da decostruire del tutto: mi sarà utile, ma se faccio politica devo sapere che avrò comunque a che fare con tali "interessi complicati" e non con le mie fantasie. "Il popolo è buono, intelligente e maturo" serve per fare i santoni; "il popolo è cattivo, stupido e volgare" per scrivere ottimi romanzi. Entrambe le posizioni, nel mio modesto sapere, mi paiono non proprio utili nel far politica.