Learlusconi

Tema dell’opera.

Fino a che punto nobili e baroni, già piegati dalla forza e poi dalla convenienza, accetteranno un re che pur li ha resi ricchi e potenti, ma che ormai pare aver perso il senno e ogni giorno che passa si rivela più bizzarro, privo di equilibrio, smodato e incapace di reggere la nazione, mentre i nemici dello stato rialzano la testa ed escono dalle loro fogne organizzando sedizioni e rivolte nei villaggi, gli attori recitano nelle sagre commedie e satire che offendono l’onore del re e mentre il popolo, smarrito, comincia a rumoreggiare, fino a che punto costoro penseranno al proprio destino e al suo come inseparabili, il proprio potere inscindibile dal suo naufragio, prima di vedere come opportuna la strada del tradimento e prendere così la decisione di pugnalarlo, di liberarsi in un colpo dei suoi lacché e di ingaggiare infine una lotta mortale con la guardia pretoriana e i comandanti per spartirsi le spoglie del regno?

Svolgimento.

l’indagine, la chiave, i giochi

«Io ricordo bene i miei quattro nonni, ma dei miei otto nonni mi restano solo aneddoti frammentari. Quando si allacciava le scarpe, un bisnonno cantava una demenziale canzoncina in rima (che canto tuttora). Un altro era ghiotto di panna e rovesciava la scacchiera quando perdeva. Un terzo era medico di campagna. Sono tutti qui, i miei ricordi. Come possono, otto intere vite, essere ridotte a così poco? Perché, considerata la brevità della catena di informazioni che ci collega con i testimoni oculari e la ricchezza della conversazione umana, gli innumerevoli dettagli che compongono l’arco di vita di otto persone vengono dimenticati così in fretta?»

R. Dawkins, Il racconto dell’antenato, Mondadori, pag. 16.

(il post precedente è in buona parte una parafrasi non troppo mascherata del passo sopra riportato – e di altri due brani di altri due libri, citati in modo minore. Nascosti nella punteggiatura, il link alla pagina di Ibs relativa al libro di Dawkins, e il link della persona cui ne devo l’acquisto, circoscrivono il perimetro di questo esercizio alquanto futile incastrato dentro un tema così serio; realtà opposte unite dal loro carattere impervio. Il solutore-recensore, riconoscendo nella parafrasi il passo da cui è ripreso, avrebbe inverato la previsione e chiuso così un piccolo cerchio di senso legato a un ricordo, a una relazione. Purtroppo, o per fortuna, così come i ricordi sfumano e ogni vita sembra andare perduta, anche i nostri tentativi di costruire significati si rivelano spesso piuttosto balordi e per di più fragili e le tracce che devono guidare la presunta indagine che salva una porzione di senso in mezzo all’insensato sono quasi sempre invisibili, indistinguibili da macchie accidentali che non "indicano" nulla. La chiave del "gioco", si può dedurne con sentenziosità un po’ pomposa, non è mai diversa da un mucchietto, che sembra casuale, di legnetti o paglie accumulati sul terreno franoso cui solo la solerzia dell’animale che li ha messi lì, con saggezza ignota a lui per primo, fornirà una possibilità di sviluppo inattesa.)

nei tempi lunghi

So molte cose di mia nonna paterna, che ho conosciuto bene e che ci ha lasciati qualche anno fa. So molto meno della mia dolcissima nonna materna che è morta quando ero bambino (anche se il suo gesto, senza che lei lo volesse, ha tortuosamente segnato la mia vita e rimane per me indistruttibilmente inciso in un ricordo laterale, deviato, sviante; allusivo come la scena di un sogno.)
Dei miei nonni maschi invece so pochissimo, anzi quasi niente, se non che entrambi sono morti decenni prima che io nascessi, entrambi in guerra, entrambi giovani. Del secondo compagno di mia nonna materna, anch’egli defunto prima della mia nascita, so che era barelliere all’Ospedale Maggiore, quando la sua condizione di ubriacone glielo permetteva, che si ammalò e morì di cirrosi e che fu mio padre ad assisterlo negli ultimi tempi e so che lui, mio padre, ne conserva un ricordo insieme colmo di pietà e di disgusto. Questo è tutto quello che so.

È agghiacciante e banale, ma non puoi fare a meno di chiedertelo. Di tutta l’enorme, incalcolabile quantità di eventi, azioni, parole, sensazioni, decisioni di cui una vita apprezzabilmente lunga è fatta per come noi stessi la percepiamo dal punto centrale di osservazione che supponiamo di essere, di tutto questo a distanza di pochi anni rimane così poco? Anzi ancora meno: quando la mia generazione se ne andrà, coi nostri ricordi svanirà la nozione stessa che qualcuno di un tempo così evidentemente singolare come "lei" o "lui" ci sia mai stato. "Si rimane nel ricordo", ma il ricordo è fragilissimo, oltre che fuorviante e illusorio, e precipita rapidamente nel generale, nella storia, nella specie o in quel fluido movimento anonimo che la descrive. Ed è così per tutti, qualsiasi sforzo si faccia e a qualunque fede si aderisca: un continuo levarsi di torno.

Lo si può chiamare sentimento del tempo e, per quanto ne so, nessun pensiero è mai stato lontanamente all’altezza di questo baratro, di questo bordo, né è possibile che lo sia. E non perché non si possa dirlo o si debba restare in religioso silenzio. Probabilmente, intuisco, perché qualsiasi parola tu dica nasce proprio da quel bordo, lo presuppone e pur se in modo laterale e deviato non sa parlare d’altro che di quel bordo, del costante perdere e provvisorio ritrovare di cui acquisendo la parola abbiamo scoperto d’essere fatti.

il corpo della servitù

«Non so perchè, ma a me l’idea che esistano i lustrascarpe dà fastidio. Dice: e quelli che fanno le pulizie? Chi stira per conto terzi? Tutto vero. Però è così, non so cosa farci, è proprio questa cosa di un uomo chino a pulirti i piedi, in quella posizione da schiavo, che mi risulta insopportabile.»

Sergio parla di lustrascarpe, di fastidio e di amarezza inspiegabili.

Leggendolo, penso ai racconti che circolavano nella mia famiglia quando ero bambino. La mia bisnonna, narra la saga, era serva di ricchi possidenti nella natia Brianza e quando partorì mia nonna lo fece di nascosto in campagna, da parenti, abbandonando lì il frutto del piacere di un padrone un po’ incontinente che di lei si era, appunto, servito. Mia nonna non la perdonò mai e novantenne sul letto di morte biascicava ancora la ferocia e il delirio del suo odio per una madre in miseria e in vergogna, una sola volta riveduta in vita, che l’aveva lasciata a crescere nei campi come una selvaggia ribelle.

Una volta, penso cercando di dare un senso razionale alle nozioni, quelli che chiamiamo con gergo sterile "servizi alla persona" erano prestazioni familiari oppure servili. O avevi i servi per farteli fare, o eri un servo che li faceva agli altri, oltre che ai tuoi familiari. Quelli che non avevano servi ma non erano servi, che oggi chiameremmo classe media, erano una minoranza e lo sono rimasti per molto. Oggi, nelle cosiddette economie sviluppate, quei servizi sono stati incorporati come praticamente tutto il resto dal mercato (in qualche caso dallo stato), che sostituisce rapporti servili con rapporti di dipendenza e tendenzialmente fa svolgere quei lavori al "terzo" sfigato, meglio se straniero. Oppure rimangono ai margini, come un antiquariato della miseria, in nicchie orribilmente postmoderne: il lustrascarpe nella city, il lavavetri agli incroci…

Negli individui più consapevoli, cioè meno assimilati agli usi del luogo, il rifiuto di quei vecchi rapporti si esprimeva un tempo in vari modi e gradi: nella carità compassionevole oppure timorata della religione dei ricchi, nella solidarietà rispettosa tra poveri, nel senso di colpa dei primi, nel fastidio muto o nella ribellione dei secondi.
Non serve dire che tutto ciò viene sottoposto a potente narcosi quando a rapporti di dominio diretto sui corpi si sostituiscono rapporti commerciali tra "formalmente liberi e uguali". Una narcosi che evidentemente non funziona ma del tutto, se certi sentimenti riemergono come da arti amputati.

Per quel che mi riguarda, io che oggi sono classe media, la più esposta al precipizio dei timori sociali e ai ripiegamenti ideologici, alle ribellioni più vuote e ambigue, al gregarimo verso i potenti e alla generosità inconcludente verso gli impotenti, ai sentimentalismi e ai rischi della dignitosa austerità, io immagino e spero ma non so esserne certo che il mio personale fastidio venga da laggiù, esattamente dalla mia stessa carne, da quel corpo mai morto del tutto da cui provengo per linea diretta.

una settimana di nausea assoluta

Qualcuno suggerì parecchio tempo fa che la novità dei social media rispetto ad altri conosciuti in passato stava nel fatto che, per essere installati sopra un ambiente che imita la realtà sociale meglio di tutti quelli mai visti, essi si presentano come uno sterminato esperimento comune, anzi "del comune". In essi cioè le tendenze dell’ego e insieme lo specchio altrui si presentano come ripiegati, autosservati, moltiplicati, e ciò che emerge di continuo sono quindi sprazzi di consapevolezza distribuita.
Le tensioni collaborative tipiche del web precedente non emergono senza analoghe tendenze egolatriche intessute assieme, né la socialità si dà mai se non come guerra condotta con altri mezzi: guerre per l’attenzione, guerre per l’amicizia, guerre per la collaborazione. Ciò che emerge alla fine, per chi usare il calibro, è il mostro: monstruum, la singolarità, ciò che ci fa nauseare di noi stessi e assieme ciò in cui si mostra una possibilità infinita. Indissolubilmente.
Che questo costituisca una crescita "del comune" è vera la domanda da porsi.

talebani dello stile

"Studente inglese, colpito da una chiave della stessa nazionalità, cade bocconi davanti all’università omonima".

Pare che nei bassifondi del Corriere circolasse un tempo questo leggendario catenaccio, nemesi di un diktat anti-ripetizioni capace di ispirare sacro terrore nel povero redattore titolista, con conseguenze catastrofiche…

utilizzo stupido della carta

L’altro giorno ho avuto tra le mani il secondo numero di Wired in italiano. Io sono del tutto "fuori target", per cui il mio giudizio è senza valore. Sfogliandolo, comunque, la sola cosa su cui sono riuscito a fermarmi per almeno 30 secondi è stata l’intervista a Clay Shirky.

Purtroppo devo confessare che l’avevo già letta in rete nei giorni precedenti. Ops.

In quell’intervista Shirky (che, data l’ignoranza crassa che mi contraddistingue, non avevo idea di chi fosse) dice in pratica due cose.

1) L’utilizzo "stupido" della rete – condividere le foto dei gatti, per dire – è importante quanto l’utilizzo "serio". La motivazione di Shirky: è tutto il tempo sottratto alla tv, cioè a un mezzo che rende passivi, quindi è tempo guadagnato perché rende attivi.

2) La sindrome più temibile che può colpire chi usa la rete è l’ansia di perdersi qualcosa, fosse anche l’ultimo pettegolezzo del subamico di quarta categoria; il bisogno di consultare continuamente le proprie fonti, di rimanere connessi. Dice, Shirky, che a rimanere connessi certamente non c’è niente di male, purché si sappia che qualcosa lo si perderà per forza, è la natura.

Niente di nuovo, insomma, ma interessante.

Forse però si può essere più circostanziati: più che essere tuile per limitare l’uso della tv, giustificazione che andrebbe bene anche per «esco la sera per fare il serial killer», l’utilizzo "stupido" della "parte abitata della rete" ha un senso proprio: in quanto uso di massa, costruisce il tessuto stesso delle relazioni e di conseguenza il transito delle informazioni – anche delle informazioni che definiremmo inutili o dannose, va da sé (consiglio sempre di non sovrapporre i giudizi sull’utilità tecnica con quelli sulla bontà etica).

Inoltre l’utilizzo "stupido" di piattaforme relazionali non è affatto stupido da un altro punto di vista, più "pratico", che riguarda il rapporto tra gestualità, relazioni, manipolazione di strumenti, estensione di protesi sensibili. Anzi, da questo punto di vista l’uso basic di massa è una delle molle più potenti, se ben interpretato dagli utenti/tecnici, che spingono l’evoluzione tecnica delle interfacce, ossia il mutamento morfologico degli ambienti, che decide ciò che si può o non si può dire/fare al loro interno. L’uso indica implicitamente ed esplicitamente quali ambienti sarebbe desiderabile abitare, prefigurando interfacce future.

Infine: la memoria che si può attivare in una rete fatta di relazioni non è cumulativa e sequenziale, ma regionale e a macchie di densità, e quindi sintesi e sguardi di insieme sono impossibili. Ne consegue che "perdere" e più ancora perdersi non va considerata l’eccezione, ma la regola.

Niente di nuovo, appunto.

Dimenticavo: la mia copia di Wired non l’ho pagata, la davano gratis all’incontro con Lessig. So che a volte fuziona così. Decisamente non sono in target. Mi chiedo chi lo sia, però.

socialità 1.0

Stasera vado qui.

Siccome da quando c’è lui la mia già scarsissima attitudine alla relazione umana ha trovato nuove motivazioni per latitare, temo che potrei avere qualche problemino coi fondamentali. Se tu, vecchio blogger dei miei stivali, per caso passi di lì e ti ricordi il mio faccione, abbi un gesto di pietà, non lasciarmi vagare perso tra la folla di iperconnessi con l’unico conforto di una birra svaporatissima.
Abbattimi subito.

Meet Lawrence Lessig, Mediateca Santa Teresa, Milano

il corpo della parola

Vabbé, qualcuno saprà che ogni tanto scrivo delle specie di poesie. Ognuno ha le sue debolezze. Ma non è di questo che. Mi sono sempre chiesto invece se solo a me risulta quasi impossibile progettarne la scrittura, come si fa con qualsiasi altra forma letteraria (o pseudoletteraria): hai un’idea, poi ti metti lì e per molti versi è questione di volontà e di mestiere.
Nel mio caso, ma credo valga anche per versificatori più seri e costanti di me, non c’è verso (ehm). Il "pezzo" viene fuori quando vuole lui. Poi lo sistemi, lo riscrivi, lo adatti, e va bene. Ma se ti metti lì e dici: mi piacerebbe scrivere di questo, è il vuoto, o anche peggio, è lammerda.
Così possono passare mesi, persino anni di silenzio.
Questa è una cosa nota e so che succede anche ai veri poeti e non ci possono fare niente. Poeti fantastici hanno scritto quattro o cinque raccolte in tutta la vita, a ritmi tartarugheschi di una poesia ogni quattro mesi… E spesso tra una raccolta e l’altra è come se fossero cambiati interi universi di presupposti, si vede a occhio nudo la traccia dello slittamento, come se una stessa voce parlasse da luoghi mentali sconosciuti prima.

A parte che non è una roba così grave, comunque qui ci sono due teorie, secondo me. Una più drastica che si rifà a forze superiori. Un demone che ti visita quando pare a lui.
Tendo a considerare al massimo una metafora questa versione.

Io la vedo più così: nei versi le parole vengono usate in modo diverso rispetto al solito, per così dire al quadrato, come se la "funzione linguistica" si piegasse su di sé a osservarsi osservando nel contempo i suoi oggetti. Sto usando termini che non piacciono nemmeno a me, ma è per capirsi…
Queste parole non parlano solo di ciò di cui parlano, ma anche del fatto che ne parlano, e quindi di colui che le usa non solo o non tanto come individuo (anche se molta lirica prende la cosa alla lettera…), ma come prototipo di parlante colto in una sua possibilità, in un suo modo d’essere tra le "cose".
Per operare questa piegatura non serve la volontà, e nemmeno parlerei di ispirazione.

Serve che tutto il "corpo parlante" di chi scrive (ognuno di noi è ed ha un corpo parlante… fidatevi) venga lentamente orientato in una direzione, o in una sorta di autodirezione, che comprende la ragione quanto i sentimenti, le percezioni quanto le opinioni, le esperienze quanto… ok. Così che a un certo punto, quando tutti gli assi sono allineati e coordinati tra loro, quel che esce non è un filo di voce in sequenza ma un quadro intero, tutto presente, contemporaneamente, in cui l’autore stesso è presente in figura, anche se a volte al modo del non esserci.
Tutto chiaro no?

Per dire che magari se riesco a sistemarle passeranno di qui in futuro un paio di cagatielle recentissime.