sei precario? parliamone

Luca e Leibniz riprendono un pezzo di Ichino sulla precarietà, comparso pochi giorni fa sul Corriere, citando questo passo:

Resta da chiedersi perché il precariato sia oggi percepito diffusamente come problema più grave rispetto al passato, visto che la statistica non ne conferma un aumento complessivo rilevante. È ben vero che, secondo gli ultimi dati forniti dalla Banca d’Italia, di coloro che sono passati dal non lavoro nel 2004 a un lavoro dipendente o autonomo nel 2005, il 40,5% l’ha trovato nella forma del contratto a termine, del lavoro interinale o del lavoro a progetto: percentuale che era andata lentamente crescendo negli ultimi anni. Ma se la quota complessiva di quei contratti di lavoro precario resta contenuta ben al di sotto del 20% del totale, questo significa che in due casi su tre (se non tre su quattro) essi si trasformano abbastanza rapidamente in lavoro a tempo indeterminato.

Io direi che la sintesi di Ichino è forse un po’ ottimistica, e come De Mita vorrei fare un ragionamendo.

Ovviamente, l’essere fisso del rapporto "entrate nei lavori flessibili-uscite nei lavori stabili", di per sé non dice nulla circa il tempo in cui quel passaggio avviene (potrebbero anche essere 10 anni!). Tutto sta a vedere cosa significa "abbastanza rapidamente". Il che, come ovvio, cambia molto le cose.

Ma, si dice, i disoccupati che nel 2004 non lavoravano e che nel 2005 hanno lavorato, quasi per metà hanno trovato lavoro con contratti flessibili: se non ci fosse passaggio "abbastanza rapido" a contratti stabili, la quota di contratti flessibili dovrebbe esplodere, invece non accade.

Posto che lavorare è in generale meglio che essere disoccupati (questo non va dimenticato nel valutare i contratti flessibili), occorre però guardare bene l’analisi.
Intanto, i dati della Banca d’Italia si riferiscono al 2005; direi che per prudenza occorrerebbe aspettare almeno i dati del 2006 circa il rapporto flessibili-stabili per vedere se davvero il turn over si è mantenuto simile. Basarsi sui dati del 2005 per affermarlo (Ichino: «tra il 2001 e il 2005 la quota di contratti a termine è rimasta stazionaria») non mi sembra proprio il massimo.
Ma poi occorrerebbe considerare i numeri reali. Non disponendo delle cifre, faccio un’obiezione di metodo, pronto a farmi smentire: quanti devono essere in un anno i nuovi lavoratori flessibili (o quanti anni devono passare) per cambiare decisamente il rapporto 85-15, posto che tutti i lavoratori con contratti stabili non si suicidano di colpo né vanno in pensione tutti assieme?
La percentuale di 40,5%  sopra citata è senz’altro alta (e significativa), ma non riguarda, si noti, "tutti i nuovi contratti", ma "i contratti di quelli che prima non lavoravano". Cioè, se io avevo un contratto flessibile nel 2004, e nel 2005 ho un altro contratto flessibile, non entro nel conto della Banca d’Italia. Quell’esplosione percentuale, è anche un’esplosione numerica? C’è davvero da aspettarsi un aumento drastico e immediato della quota generale dei contratti flessibili, oppure questa semplicemente accelererà un po’ la sua curva?

Se questa obiezione fosse plausibile, dire che "la quota complessiva rimane stabile" sarebbe almeno prematuro. Dire che "la precarietà" è un problema solo per un tempo "abbastanza rapido", sarebbe un po’ semplicistico, e non considererebbe il contesto, che è lui, non la precarietà, il vero problema.

Del resto – ma credo che su questo Ichino sarebbe del tutto d’accordo con me – proprio il fatto che la percezione della precarietà sia "settoriale", cioè non venga percepita se non dai giovani, in primo luogo segnala che si sono fatte negli ultimi anni riforme "di comodo"  – e questo è il "contesto problematico": invece di riformare i contratti di tutti, introducendo qualche criterio di flessibilità generale sopportabile perché "spalmato" e supportato da qualche nuovo istituto di welfare, come i redditi di disoccupazione o reinserimento o simili, si è preferito far pagare i costi della flessibilità a quelli che verranno, creando artatamente un serbatoio di ipo-garantiti contro un blocco di super-garantiti; allo stesso modo invece che riformare le pensioni di tutti, si è preferito far pagare il deficit a quelli che verranno, riducendogli i contributi – con curva di rientro prevedibilmente lunghissima. Motivo: chi c’è adesso, vota i governi di adesso, chi ci sarà quando la curva farà vedere i suoi effetti – pensioni da fame – voterà i governi di allora: cazzi loro (nel tavolo del consociativismo c’è sempre una sedia vuota, quella della lungimiranza, che notoriamente non vota).
 
E in secondo luogo spiega perché tale percezione superi la dimensione "oggettiva"  e appaia ad alcuni "un grave problema" (e ad altri provochi stupore: "ma perché si lamentano? Solo il 20% è precario, come sempre"): il fatto non è che ci sono "tanti" precari, è che sono (stati) tutti concentrati in un settore.
Cioè: proprio il fatto che l’80% della forza lavoro non si percepisca precaria (e non lo sia) aumenta la percezione di precarietà di quel 20%, e proprio perché esso non è "spalmato" su tutto il fronte del lavoro, ma concentrato su una categoria peraltro estrinseca: i giovani.

Lo stesso Ichino dice:
Ora, può essere che la quota dei «precari impigliati» rispetto al totale sia aumentata più di quanto sia aumentato complessivamente il lavoro precario; ma se questo è il problema, esso non nasce né dalla legge Treu né dalla legge Biagi: esso nasce invece dall’aumento delle disuguaglianze di produttività tra gli individui nella società postindustriale, cui le imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento. Questo problema può essere affrontato soltanto col rafforzare professionalmente i più deboli, o aiutarli a trovare la collocazione in cui possono rendere di più (ciò per cui una fase di maggiore mobilità all’inizio della carriera lavorativa è indispensabile); mentre aumentare il costo del loro lavoro rischia di condannarli alla disoccupazione.

"Abbastanza rapidamente" potrebbe significare in questi casi, per un laureato, che dopo la tesi egli inizia a lavorare e, se la sua qualifica non è molto ricercata, ha buone probabilità di farlo per un paio d’anni in nero (se lavora in una regione che lo permette, se no diventano di più), e poi potrebbe farne 5-7 di cocopro con contributi minimi.
Questo vuol dire in soldoni che fino oltre i 30 anni, se non ha la rendita dei genitori e se non ha scelto un settore lavorativo in cui si è ben pagati:
A) campa maluccio, lasciando metà dello stipendio in affitto;
B) butta nello sciaquone 10 anni ai fini pensionistici.
(Basta un rapido calcolo per vedere a che età andrà in pensione uno che inizia a pagare i contributi in modo decente a 30-33 anni).
Se moltiplichiamo questa vicenda, avremo una bella cifra di persone, di giovane età, con possibilità di spesa ridotta e altissimo tasso di frustrazione sociale.

Rimangono quindi due questioni:
1) Quanto è aumentata la quota dei "precari impigliati"? Qual è il numero di anni oltre il quale non si sta semplicemente "sondando il mercato per cercare la propria collocazione" (e pazienza, noblesse oblige, se in questo periodo di frivola e spensierata bohéme, si prende la metà del collega che in genere fa lo stesso lavoro e anzi spesso lavora meno, ma ha un contratto stabile, e soprattutto si percepiscono contributi pensionistici risibili e frazionati), ma più precisamente si passa da un contratto flessibile all’altro senza troppa convinzione?
Oltre che percentuale questa quota è tale da giustificare la percezione della precarietà come un problema sociale?

2) Come si fa a "rafforzare professionalmente i più deboli", cioè a impostare un moderno welfare universalistico tarato sul lavoro flessibile di tutti (che sensatamente non va abolito, ma supportato e fornito di limiti e garanzie) che preveda solidi sistemi di sostegno nei periodi di non lavoro e costruisca, assieme a scuole e università efficienti, cultura diffusa e disponibile, ricerca di buon livello, mercato abitativo non impraticabile, una "moderna" società delle opportunità, che invece di "assistere", cerca di portare il maggior numero possibile di persone in condizione di "esistere socialmente" e di cavarsela autonomamente? La risposta è semplice: per farlo si devono spendere soldi in questa direzione.
Il che ci richiama un’altra domanda, che è poi l’unica roba seria detta qui: come si fa a trovare questi soldi, se per il 65% il welfare italiano continua a essere familistico e assicurativo? La favola che in Italia si spende troppo in servizi è, appunto, una favola. Il 65% della spesa di welfare va in pensioni (contro il 40% di media europea). Bel problema.




9 thoughts on “sei precario? parliamone

  1. …una cosa che Ichino e tutti i sostenitori del lavoro flessibile si dimenticano sistematicamente è quella di fare una valutazione sulla qualità della retribuzione.

    In tutte le parti del mondo in cui il lavoro è meno garantito (cioè più flessibile) le retribuzioni sono superiori a quelle italiane ed esistono istituti tipo il sussidio di disoccupazione per “coprire” le transizioni da un impiego all’altro.

    Pretendere lavoro flessibile senza dare alcun contrappeso lascia al buon cuore della classe imprenditoriale la gestione della vita dei lavoratori dipendenti.

    Così come è utopistica la visione “collettivista” del lavoro, è anche utopistico pensare che tutti gli imprenditori siano persone illuminate che non approfitterebbero del proprio potere su lavoratori indifesi.

    Quindi se vogliono il lavoro flessibile, che se lo paghino adeguatamente, visto che a quanto risulta la ricchezza negli ultimi 10 anni si è spostata dalle classi medie alle classi alte e medio alte.

  2. a onor del vero, credo che Ichino abbia ben presente la questione degli “ammortizzatori sociali” della flessibilità, cioè la conversione da un welfare fordista a uno postfordista. Quell’articolo era per brevità forzatamente limitato a questioni numeriche.

  3. Come dice anche Brunetta il lavoro precario a queste condizioni è economicamente favorevole al datore di lavoro, costa meno del lavoro ordinario: perchè dovrebbe rinunciare ad una voce che migliora il suo conto economico?

    L’ insegnano ad un qualsiasi corso di microeconomia del 1 anno a scegliere le risorse meno care per massimizzare l’utile complessivo, diventa una scelta strategica usare il lavoro precario, costa meno.

    La sola unica soluzione al problema è renderlo economicamente meno vantaggioso rispetto al lavoro a tempo pieno.L’utilizzo sarebbe limitato a momenti temporanei, di eccesso produttivo, quando anche i ricavi risentono dell’eccezionalità del momento.

    E’ lo stesso discorso che si pone per l’evasione fiscale: la si sconfigge creando conflitti di interesse, non con dichiarazioni di buona volontà.

    Il precariato a 40 anni e’ una condanna definitiva ad un futuro di pensionato precario, stiamo ipotecando un futuro pericolo per il nostro paese.

    Max.

  4. mi pare che ci siano diversi stereotipi che complicano il quadro. Non tutti i “precari” sono i cosiddetti marginali. Ci sono molti precari di alto bordo e che desiderano essere più autonomi e quindi in grado di cambiare e scegliere perché sanno di poterlo fare. I dati sono molto poco indicativi: comprendono anche ad es. i pensionati che lavorano come consulenti esterni e tutti i doppiolavoristi. Non tengono invece in conto le partite iva che in molti casi celano dei rapporti di lavoro subordinati e precari. La questione ha molti colori, come sempre. Di certo questa continua amplificazione mediatica fa apparire il precariato come molto superiore al quantum realistico. In realtà le aziende non amano il lavoro precario: lo utilizzano soltanto in alcuni settori molto specifici e con il nostro tessuto industriale fatto di micro e piccole imprese non farà molta strada. in compenso farà di molto crescere l’accettazione di condizioni di lavoro non adeguate perché “con tutto il precariato che c’è in giro almeno…”

  5. dove posso collocarmi io che muovendomi da precaria tra il mondo della scuola e quello della formazione e dei corsi fatti da docenze e co.co.pro occasionali per capirci…nel 2004 ho lavorato più del 2005 e più dell’anno in corso?

  6. sono al lavoro, più precario che mai.

    Ci tengo a dirti che ogni parola in più sull’argomento è ben spesa.

    che c’è molto dolore in una simile condizione.

    é come quando l’acqua porta via la terra alle piante, anche se l’acqua alle piante serve come la terra.

    ciao e a presto,

    A.

  7. Le statistiche si sa come vanno, la faccenda del mezzo pollo a testa, quando uno muore di fame e l’altro ne mangia due è storia ben nota…

    Io non credo alle statistiche, io credo a quello che provo ogni giorno sulla mia pelle.

    Il Bukaniere

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