miserie e fortune dell’operaio sociale

Giorni fa, l’avrete sentito, c’è stato il primo sciopero alle librerie Feltrinelli. La cosa mi pare interessante non tanto perché Feltrinelli sia di sinistra (uh?), ma perché è l’unica catena di vendita libraria italiana degna di questo nome, anche se infinitamente più piccola di omologhe straniere.

Ecco un significativo estratto del pezzo del Corriere:

«I nuovi assunti hanno turni massacranti – spiega Jonas -, la domenica hanno straordinari più bassi, vengono presi senza integrativo». Ma il punto non sono solo i soldi: «Lavorare qui, un tempo voleva dire avere una grande professionalità. E tutti, nel loro piccolo, si sentivano parte di un’azienda che fa cultura. Poi sono arrivati i manager dell’Esselunga, della Decathlon. La famiglia Feltrinelli s’è affidata a loro. Abbiamo chiesto un colloquio a Carlo, il figlio di Inge. S’è fatto vivo solo un mese fa, per lettera, proponendoci l’improponibile: niente soldi, niente orari, integrativo limitato ad alcuni lavoratori… Tanta durezza non ce l’aspettavamo».

Ha provato a esprimere un parere, diremmo dal punto di vista del consumatore, Massimo su Leftwing. Lettura interessante come al solito.

Anche Marco esprime una sensazione
«m’è venuto da pensare, istintivamente, che ci fosse qualcosa che non andava. Non tanto nello sciopero, figurarsi, ma nella pletora delle motivazioni addotte. Che somigliano tanto, per dire, a quelle che sento ogni giorno a scuola quando colleghi che non smuoverebbero di un millimetro il loro modo di concepire l’insegnamento berciano che, in virtù del sublime ruolo sociale che l’insegnamento dovrebbe ricoprire eccetera eccetera, sarebbero auspicabili stipendi triplicati e chissà quali altri benefit in termini di riconoscimento sociale in un florilegio di "signora mia"».

Da inesperto, direi che si deve ribaltare l’approccio: la battaglia per l’adeguamento del salario e delle condizioni di lavoro è in genere spinta, oltre che dalla necessità, dall’esigenza di rendere accettabile a un trentenne la frustrazione dovuta alle aspettative, prima caricate a molla da 20 anni di acculturazione medio-superiore, e poi frustrate causa mercato globale, vincoli di competitività e miseria del welfare nostrano in un lavoro di commesso sottopagato, precario e fungibile in una grande catena – di libri o di salsicce. Una battaglia che, in un giorno di depressione, diremmo che probabilmente non si può vincere per principio, non solo per la difficoltà di ottenere miglioramenti salariali – superabile – ma perché quel mix di motivazioni non allude a elementi oggettivi (non esiste "il libro" in quanto dato di natura, come ben spiega Massimo, e forse nemmeno il modo giusto per formare gli addetti alla sua vendita) ma a intepretazioni di sé e del proprio ruolo sociale. L’ideologia insomma vorrebbe che un conto sono i commessi di una catena low cost, Decathlon o Ikea, un conto è un libraio, e che cavolo (e magari un conto è un professore, vien da aggiungere seguendo Marco, o un giornalista, seguendo me stesso).
Invece le trasformazioni della struttura economica e del mercato sembrano mischiare parecchio le carte a questo proposito e smentire del tutto l’assunto.

Ciò spiega perché quella che è una "mera richiesta di soldi e garanzie" si travesta di motivazioni che appaiono dal di fuori pretestuose, ma che invece gli sono ben coessenziali, pena il precipizio della stima di sé.

Dilemmi del lavoro immateriale, si direbbe. Sulle cui avventure ecco un tortuoso pezzo del sempre ineffabile Slavoj Zizek (e qui non posso che invocare di nuovo l’intercessione di Massimo…)

6 thoughts on “miserie e fortune dell’operaio sociale

  1. Mi verrebbe da dire che uno l’autostima se la coltiva a prescindere, insomma. Non l’ha prescritto il medico di vendere libri o insegnare, no? Se trovassi inaccettabili le condizioni alle quali fossi costretto a fare il mio lavoro me ne inventerei un altro. Poi, certo, c’è il sacrosanto problema di mettere insieme il pranzo con la cena, e quindi ben vengano gli scioperi (anche se, da quando lavoro nella scuola, praticamente mai è stato indetto uno sciopero per motivi prettamente economici, e pertanto).

  2. Il fatto strano in feltrinelli, come ha notato gia’ http://theretailer.blogosfere.it, è che lo sciopero abbia fatto cosi’ notizia perche’ era il primo. Una azienda editoriale grande, con molti negozi e grandi profitti, non una libreria gestita da un collettivo. E il fatto e’ che ikea o fnac, sempre commessi si e’. Con i computer e gli archivi e gli indici ed i cataloghi, raramente il consumatore ha bisogno di “consigli”. E se gli servono si affida volentieri ai giovani commessi, anche se signora mia non sanno nemmeno come si scrive Heidegger. E’ un lavoro, e il suo valore e’ determinato dal mercato. Gli scioperi possono migliorare le cose, e sono utili per questo, ma il libraio e’ un’altra cosa. I librai infatti esistono, ma non assumono. Si tramandano il mestiere di padre in figlio. E direi proprio che se uno vuole mettere insieme il pranzo con la cena sta molto meglio da feltrinelli che dal libraio che ama tanto l’odore della carta ma che non ci pensa proprio a pagarti i contributi.

    Idraulico Polacco

  3. @ idraulico, è interessante perché in italia è uno dei primi in una catena. Il fatto che sia feltrinelli aggiunge poi gli aspetti che abbiamo notato (ma sarebbe significativo anche a Ikea).

    L’ultima tua frase è drammaticamente vera.

    @ Marco, però sbaglio anch’io se limito il discorso “autostima” a questioni da psicanalista: quando si rivendica un ruolo sociale, usando categorie usurate quanto si vuole come quella di “cultura” (immaginando cioè un mondo inesistente e mai esistito in cui la cultura e i suoi operatori sono “puri” e alieni da interessi economici), si tocca comunque un punto centrale di quello che alcuni chiamano appunto “lavoro immateriale”, cioè della “produzione di società – di senso sociale – mediante la produzione di beni”, e il ruolo che in essa svolge quella che gli economisti chiamano cooperazione sociale (tanto essenziale alla produzione complessiva quanto estranea al vincolo di salario). L’elemento ideologico – in quanto implicitamente segmenta su basi estrinseche lavori degni da lavori indegni – è senz’altro falso, ma pare alludere a una verità tanto dura quanto difficile.

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