più natiche per tutti

Un autore satirico non è migliore dei suoi bersagli
(Lenny Bruce)

La satira fa ridere; fa anche un po’ male, le due cose assieme – nel senso che a volte provoca dolore: senza esagerare, mica è una fucilata. Chi ne è colpito e soffre ahilui ferito nell’orgoglio, ha l’impressione spiacevole di essere vittima di una specie di piccolo linciaggio, una gogna verbale e in più ingiustificata: i più, infatti, si pensano innocenti e malintesi (non è il caso dei manigoldi consapevoli, che dalla satira non sono nemmeno scalfiti poiché la sanno nemmeno metà del vero).

Si potrebbe pensare che tra la satira, l’insulto fatto senso comune, e l’invito alla soppressione fisica della vittima per moto popolare non passi poi molto, e che la gogna verbale evochi senza troppa timidezza per l’appunto la gogna vera, il linciaggio manesco, la folla belluina che sciama dal teatro e appende l’oggetto della pubblica disapprovazione per i piedi sulla pubblica via (notina*).

Ma no, ovviamente, le cose non stanno così.
La gogna, lo spettacolo pubblico della tortura, non fa ridere. Di per sé è solo un fatto tecnico, in genere violento. Per via collaterale il pubblico presente ride, e l’ha sempre fatto a partire dai giochi romani passando per i ceppi medievali fin su alla gogna mediatica, perché la gogna serve a far sbavare di piacere e di vendetta consumata chi abbia un odio pregresso per la vittima o non avendolo se lo possa inventare lì per lì.
Magari l’idea stessa di "pubblico" ha a che fare con le gogne, chi lo sa.
Ma nella gogna non c’è arguzia, non si vede umorismo, se non vogliamo considerare umoristica l’immagine dell’uomo scimmiescamente seduto e immobilizzato ai ceppi (e capita che chi umili il debole assieme ne rida: natura ambigua del riso o abisso della ferocia?). Nella gogna non c’è costruzione culturale, anzi il "fatto culturale" manca proprio. C’è solo scambio di ruoli veri o presunti che siano. E scambio effettivo, reale, non per modo di dire: chi stava in alto ora è rotolato ai nostri piedi e scambia due parole con fanghiglia e topi.

Chi sghignazza dicendo "ora ridiamo noi", spesso dunque non sa distinguere le persone dai personaggi, non conosce la differenza tra scrivere "una sberla" e darla.

L’esser pubblica della gogna è infine lo strumento bellamente usato da qualcuno per "insegnare" a qualcun altro la civiltà, cioè il comando, ossia alla fine il governo dello spirito sul corpo e del ricco sul volgo (il gatto tortura il topo, e i bambini possono torturare il più debole tra loro per anni: da questo punto di vista non abbiamo inventato niente), ma essa è insieme il prototipo dell’"inciviltà", se si intende invece con civiltà il tentativo di ricomprendere la natura su un livello più proprio: è anzi un appello al peggio, al branco, a colpire l’indifeso sapendosi protetti.

Mentre la satira è proprio il contrario: colpendo attraverso una mediazione culturale – le parole letterariamente costruite, l’immagine, il motto di spirito – vuole "incivilire", non vuole far sbavare. Vediamo come.

Se un tizio viene satireggiato e si incazza, può voler dire che la satira ha colpito un punto vivo, infatti quando è moscia fa solo sbadigliare.
Ma: per convenzione l’incazzato non deve far vedere il proprio livore! Infatti si ritiene, per convenzione, che il colpito debba dimostrarsi "incivilito" e quindi debba riderne, "stare al gioco", anche se invero deve solo recitare questa parte, deve cioè ridere ritualmente, non essendo in genere affatto incivilito e volendo anzi dentro di sé con tutto il cuore gettare il satireggiante in pasto a piranha da lungo tempo digiunanti. Ma il riso rituale del satireggiato, pur abbozzato, è già sufficiente per dichiarare assolta la funzione incivilente della satira, dato che civiltà e rito pressoché coincidono, e di ciò che accade "dentro", "nella testa", le persone serie non si occupano.
(Va anche detto che spesso, debolezza dell’umano, il satireggiato reagisce andando oltre le convenzioni, in un range che va dalla controbattuta stentata all’acidità manifesta, fino alla richiesta di censura o alle minacce fisiche immaginarie o reali.)

Ma se invece un poverocristo è sottoposto alla gogna, quella vera, sarebbe curioso che si pretendesse da lui anche la risata; tuttavia la si pretende dicendo: "Che fai, non ridi più? Ridi, su". Questo però fa parte della tortura, che non è un gioco né una finzione.

Ma perché la satira è interessante?

Ovviamente c’è il caso in cui essa riveli il verminaio del potente dietro l’oro che luccica – tradotto, il lato criminale della rispettabilità. Tuttavia difficilmente chi ha vero potere ignora questo lato di sé, così che la satira non gli rivela proprio nulla, semmai lo rivela al mondo. Il che spiega perché l’autore satirico debba sempre guardarsi le spalle.

Ma più in generale, tolti questi casi coraggiosi ed eclatanti, la satira vive anche di piccolo cabotaggio, di piccoli bersagli, di piccoli atteggiamenti sbertucciati.
In questi casi è interessante perché rivela un lato mostruoso, spiacevole, imbarazzante. Animale. Diciamo: rivela l’esistenza delle natiche. E lo rivela prima di tutto al satireggiato. Non che quel lato sia di per sé mostruoso: anzi è normale. Tutti hanno le natiche. Solo che lui, noblesse oblige, le ha scordate al bordo del suo campo visuale, o smaccatamente le ha nascoste.
Diciamo che si preferisce a volte fingere, anche senza averlo programmato, che in noi trovino posto solo interessi astratti, nobili, oppure genuini, benigni, pura espressione dei nostri moti più "personali". Invece ce ne sono anche di personali in senso meno nobile, intrecciati assieme: che ne so, l’ambizione malcelata, una paura sorda, qualcosa da ottenere, il gregarismo, un volersi mostrare così, con una faccia appena un po’ migliore della propria (o un po’ peggiore nel caso il maledettismo sia di moda). Il che è banale e normale: non saremmo persone se non avessimo moventi personali. Cucire su questo una "metafisica della natica" o della malvagità umana è un’attività rispettabile, ma un po’ ossessiva, e spesso soporifera.

Alludendo alla "naticità", la satira rivela dunque un non-mostro (e non mostrato) che viene fatto passare, dalla vittima stessa, per mostro: infatti non lo mostra (o meglio crede di non farlo). E se qualcuno adombra il sospetto, si incazza: "Io non sono affatto così"!
Invece sì, caromio, sei anche così.

Ciò vuol dire che la satira corre un rischio: il moralismo e per contrappasso l’ipocrisia, cioè il trombonismo rovesciato, nelle forme dell’indignazione permanente o del cinismo di maniera, o della rabbia rancida dei bei tempi andati. Come se il satireggiante fosse immune da ciò che scova nel satireggiato e non invece ne rivelasse il tratto comune: anzi "il" comune.  Un satireggiante senza natiche non s’è mai visto, checché se ne dica.

Ma nei casi migliori la satira ha una possibilità, tutta giocata sulla natura "culturale" del suo gioco: permettere al mostro di manifestarsi per ciò che è ossia: singolarità. "Monstrum" è ciò che non è comune, l’evento singolare, straordinario, che ci avverte della volontà degli dei. Dunque, in modo che sta al di là della capacità di comprensione del qui presente, il comune parrebbe essere il non comune.
Non c’è persona senza natica, ma ognuno ha la sua e se la deve portare dietro che lo voglia o no.

notina*
Vale anche l’inverso di chi a teatro satireggia facendo impiccare per finta Cinna il poeta per scambio di persona durante la sommossa postcesaricidio, ma coi versi che faceva in fondo non se l’era meritato? Sublime doppio gioco dell’autore.

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