la dura verità

sommario

Un uomo colpito sul capo in età precoce da una verità spigolosa si comporta come se
quella verità fosse evidente a tutti. Ma dovrà ricredersi e affrontare un viaggio, al termine del quale…

tutta quanta esposta

Del suo incontro con la verità non è possibile fornire un resoconto certo, se si esclude il fatto acclarato che gli piove sul capo con violenza quand’è ancora troppo piccolo perché possa in seguito ricordare l’episodio. Notizia ugualmente indiscussa è che da quel momento ignoto egli si comporta come se quella spigolosa verità sia evidente a tutti. Anche di questo comportamento non si può tuttavia fornire una spiegazione plausibile che ne faccia risalire la causa a una sua debolezza costitutiva di mente o sentimento piuttosto che a una virtù morale superiore, di quelle inspiegabili che quasi oltrepassano in altezza il limite dell’umano, in ogni tempo convenzionalmente tracciato laddove non si ha alcuna intenzione di arrivare. La fine incresciosa della sua fiducia in questa universale notorietà non depone né a favore né contro una di queste alternative. La rivelazione, lui bambino, potrebbe aver preso ad esempio la forma di una pallonata inaspettata, di quelle precise e fatali che durante i giochi la fronte dell’infante più vicino sembra attirare come una calamita. Forse nel suo caso lo schiocco, piuttosto che grida e pianti provoca un’attonita meraviglia a misura di universo, un esordio in seguito mai più colmato e che al momento dei fatti si presenta al suo più alto grado di sviluppo. Ma si può anche ipotizzare che nessun evento pubblico sia rintracciabile a discolpa della sua condizione; la verità per qualcuno è soltanto quella mano ignota e unghiosa che ancora non nati, trattenendo il calcagno, immerge nel battesimo del destino, così che distinguersi dal liquido infido da cui non si viene più estratti o vedere separato il proprio profilo dal suo specchio, diventa impossibile. Fatto sta che nemmeno l’ombra di un dubbio percorre la fronte spaziosa dell’uomo durante la giovinezza, che passa serena e priva episodi di rilievo: quella rude entrata rimane sotterranea o così diffusa nella sua coscienza da risultare indistinguibile, come un’impercettibile nube. Se del resto escludiamo dall’esperienza una certa dose di contrasti o la capacità di coglierli, è giocoforza che essa ci appaia com’è, né buona né cattiva, tale da non suscitare quell’eccesso di pensieri che ci può rendere infelici. Tra la sapienza e l’ignoranza i saggi non scorgono alcuna differenza, e nemmeno gli idioti, perché tale è il fulgore della luce o la densità del buio che la realtà circostante tende ad apparire alquanto vaga, e comunque non così articolata da rendere necessaria un’indagine ulteriore. Ma questa situazione, immobile come l’acqua nella canicola, è sul punto di scivolare nel buco nero dello scarico.

Divenuto adulto, infatti, l’uomo si accorge in breve tempo che per quanto riguarda la verità le cose stanno diversamente e di molto: egli è l’unico a quanto pare a portare in testa il segno dell’antica collisione. Interrogati a riprova alcuni passanti durante lo svolgimento di una gara podistica cittadina intorno alla natura contundente e manesca di quella sostanza a lui così familiare, tutti indistintamente si limitano a osservare l’uomo con sguardo preoccupato, facendo poi cenno di allontanarsi di un paio di passi, per prudenza. La scena si ripete uguale molte volte, tranne per alcune varianti in cui un ombrello e qualche piccola borsa di pelle animale colma in modo irreale di oggetti ignoti ma singolarmente granitici si trovano a sostituire il flusso verbale, ma in direzione contraria. L’uomo tende a imparare dai propri errori specie se corredati da una quota di dolore fisico; non diversamente dal caso generale, quello particolare giunge in fretta a una conclusione: finora egli aveva creduto che tutti se ne dessero per intesi e come non si sta a questionare sull’esistenza dei nasi o del didietro, anche la verità andasse sotto silenzio per troppa manifestazione. Un grave errore: la faccenda stava – e sta, a dire il vero – proprio al contrario, l’ignoranza sul punto è addirittura universale! Che curiosa situazione, pensa l’uomo: un oggetto così consistente che diventa invisibile. E lui che pare l’unico vedente, poi! Come si spiega? E come rendere visibile l’invisibile? Cioè, come rendere evidente l’evidenza, evidentemente non così evidente? Che imbroglio… Le parole sono così deboli, e pure loro invisibili. Saranno dure a sufficienza per lasciare segni certi sulla testa altrui? Massaggiandosi un doloso e recente rialzo occipitale, l’uomo si scopre a nutrire qualche dubbio circa la gratitudine del mondo.

La sorpresa per la piega inaspettata che la vita adulta gli va riservando rimane a mezz’aria nella sua testa per un breve tempo quando un pomeriggio, fermo davanti a una vetrina di cravatte prodiga di riflessi semoventi, precipita e gli si mette di traverso in zona corticale. Ecco ciò che finora non aveva notato, benché probabilmente risultasse chiaro anche all’ultimo dei menomati: "gli altri" presi insieme possono sembrare uno, ma uno per uno sono sorprendentemente di più! Anche più che sorprendentemente di più: sono un numero sproporzionatamente elevato! Addirittura, nota stupefatto mentre si volta e rivolta girando in tondo sul suo piede, innumerevole è la moltitudine che variamente lo circonda, gli cammina appresso, gli dorme accanto, senza oltretutto che nessuno dia segno di notarlo così che egli pare felicemente trasparente ai loro occhi, e del resto loro lo sono stati colpevolmente ai suoi. Come se appunto di riflessi si discuta e non di esseri in carne e pelle. Anche a voler considerare solo il quartiere in cui abita, computa l’uomo, vi sono più persone di quante egli ne abbia conosciute finora in tutta la vita, che con calcolo giovanile gli pare già dotata di una lunghezza consistente e grave. È poi sufficiente passeggiare lungo una via del centro o fermarsi a osservare la fiumana che procede disattenta e non si può che rinunciare rapidamente alla sovrumana fatica di riepilogare gli individui che scorrono davanti agli occhi uno dopo l’altro o anche tutti assieme. Se poi l’immaginazione cerca di figurarsi per quanto riesce tutte le vie di tutti i centri e magari anche delle periferie, dei borghi, dei paeselli, delle frazioni e delle case isolate che più o meno pittorescamente fanno del mondo un vasto e ambiguo presepe, è facile che l’intelletto perda l’equilibrio. Che ci fa tutta questa gente, si chiede l’uomo, che ci fanno tutti questi umani ognuno fornito di membra in numero generalmente pari, una testa dispari, occhi animati, frasi che escono dalla bocca in ordine imprevedibile e in lingue svariate, ognuno rimemorante anche a richiesta una storia personale fatta di episodi puntuti o di ricordi variamente compendiati a sommario forse in parte persino originali o almeno ad ognuno ugualmente capitati, precipitati addosso e, faccenda scabrosa e imbarazzante, un’abilità nel disconoscere o addirittura opporsi per i motivi più svariati o anche senza motivi alla verità di cui egli pare il solo iniziato? Come si può prenderli uno a uno ed essere sicuri, certi che abbiano davvero capito? E a che serve una verità, altrimenti?

L’incapacità completa di rispondere a queste semplici domande di fronte all’enorme numerabilità del reale lo convince a sufficienza della sorprendente futilità della sua scoperta o vocazione, o chiamata, o come alla fine la si voglia chiamare e lo getta per un certo periodo in una rassegnata accidia e senso di fallimento, che si traduce fin troppo prevedibilmente in un bambinesco moto di protesta e di sciopero a oltranza. Finché un mattino, mentre la saponetta slavata gli scivola dalle mani sul lavabo non immacolato, ecco che una nuova rivelazione non meno indifferente al proprio angolo di impatto delle precedenti lo colpisce chiamandolo all’istante a una nuova impresa che egli, ancora in piedi in abiti succinti davanti allo specchio sbeccato, si figura così: con metodo, ogni giorno, si impegnerà a conoscere una persona nuova nel tentativo in sé disperato ma non inutile né privo di qualche soddisfazione, forse la sola rimasta nel campo avaro del sapere, di limitare giorno per giorno di una quantità ben determinabile la propria ignoranza intorno alla realtà, che così evidentemente si presenta con un’esagerata bulimia di volti e lati.
A questo compito da quel mattino luminescente e saponario si sottomette con dedizione ed entusiasmo. Trascorre dunque tutto il tempo libero sui lunghi marciapiedi della sua città, staziona nei locali fino a notte, si intrattiene nelle pensiline dei tram, sulle panchine dei giardinetti spiantati, conversa con i vicini di carrozza sui treni della metropolitana, si accosta ai crocchi di anziani nelle piazze per inserirsi a tempo in una di quelle conversazioni oziose e sottrarne con garbo uno al gruppo intrattenendosi con quello. Non dimentica di tentare nessuna via tra quelle che il vasto mondo gli offre generosamente e la chiara visione del progetto che si è dato gli rende leggere le brevi difficoltà, i temporanei insuccessi e i limiti personali di imperizia mondana, scadente conversazione e grave timidezza che finora gli avevano reso aliena l’umanità circostante. In breve tempo le persone ogni giorno conosciute diventano da una due, poi cinque, quindi dieci. Fiero dei successi e in pieno incendio per via della fiamma della conoscenza ben nutrita, decide di abbandonare il suo impiego, che ormai costituisce un evidente impedimento alla ricerca, e si licenzia. Nelle molte ore di cui finalmente dispone giunge con metodo e impegno a conoscere ogni giorno una ventina di persone e pur nella brevità e variabilità fugace dello scambio verbale, ritiene di ridurre ogni volta di un tratto certo la propria ignoranza del mondo.

Tuttavia, mentre lento e metodico come i suoi pellegrinaggi pedonali il sapere si accumula, crescono in lui nuove e insperate abilità: impara specialmente a giungere per via diretta, se così si può dire, all’essenza delle persone saltando i preliminari e i luoghi comuni di approccio e di conversazione e tutto quel più e quel meno pomposo o divagante di cui si gonfiano lieti i discorsi, e insomma gli si apre un mondo: rintraccia certe costanti, ricostruisce certe tipologie, certe ricorrenze: impercettibilmente si disegna nella sua mente e si svolge sulla sua lingua una casistica, un’enciclopedia vivente di tic, di sequenze reattive, di smorfie, di sospiri e di slanci, di nostalgie, una tassonomia di sguardi obliqui e diretti, di curve e rette, pieni e vuoti, di odori, di retropensieri e avanpensieri, un catalogo di attitudini, di morfologie e di sintassi, di psicologie e psicocinetiche, un tesaurum di tutto ciò che attiene all’innato e all’appreso, all’influsso celeste e alla presa terrestre, al consapevole e all’ignoto, all’agente e al paziente. L’inaspettata scoperta gli permette di velocizzare enormemente il compito portandolo a uno stato di esaltazione febbrile: ora può notare e noncurare tutto ciò che ricorre tra un caso e l’altro e concentrarsi sulle differenze, ciò che non coincide e si sfalsa tra un volto e l’altro, tra un tono e il successivo. Le persone che ogni giorno riesce a conoscere grazie a questo consistente salto di scienza applicata salgono rapidamente di numero: trentacinque, poi cinquanta e in un crescendo di virtuosismo e dissimulazione settantacinque e poi cento individui penetrati nell’intimo, o meglio nella propria specifica differenza, ogni giorno che arriva sulla terra.
Ma ormai nella sua mente si fa sempre più chiara un’idea – o forse sempre la stessa diversamente coniugata: ricostruire, mettendola per iscritto, la mappa di questo strepitoso intreccio di ricorrenze e variabilità, rintracciarne la regola che elabora gli strati e distribuisce a raggiera i petali delle posture umane in numero esatto, che presiede allo sviluppo immancabile delle ossa impilate, alla curva dei nasi e dei caratteri. Comprato un grande quaderno e due penne biro, chiude la porta di casa e si dedica anima e corpo al tentativo. È un compito di vaste proporzioni, di smisurata difficoltà, che richiede un’infinita accortezza, una memoria fuori dal comune e una capacità di visione complessiva incalcolabile: non senza un certo spavento, cercando di riassumere i dati che si affollano nella sua testa, l’uomo giunge a una prima sintesi operativa che assomma a milleseicentoventicinque variabili, che operano su centosedici livelli, sulla base di quarantasette gradienti, e venticinque angoli di incidenza, ricostruendo così, calcolati i casi spuri e le possibilità nascoste, un totale approssimativo e stimato di centrotredicimilioniseicentoventitremilaquattrocentosessantadue tipologie di base, o "volti", come li chiama. Di buona lena, malgrado un progressivo dimagrimento che comincia a farsi evidente senza intaccarne la disciplina, l’uomo prende a tracciare sull’ampio quaderno una gran quantità di equazioni, grafici, cerchi concentrici, diagrammi con i quali intende riassumere una buona volta il conosciuto e prevedere l’ignoto, e in piena coscienza se ne parte in questo nuovo infiammato viaggio verso il vero. Ciò che per primo difetta al compimento è il supporto, ossia la carta. Dapprima egli cerca di porre rimedio alle limitazioni traspositive con l’acquisto di nuovi quaderni, poi ne incolla i fogli alla dimensione tazebao, li sovrappone, li incrocia, si inventa singolari accrocchi simili a torte nuziali multistrato in un furore di calcoli e impazienza, di visioni e irritazioni che rapidamente dilaga lasciandolo a sera vacillante nel corpo e nella mente. Incolla alle pareti alcuni provvisori risultati e prende a miniarli, istoriarli, compendiarli con frecce, iscrizioni, commenti, apre finestre ad anta nella carta e traccia note sull’intonacato, deborda dalla cellulosa armato di scala e biro fino al soffitto, lunghe file di caratteri partono in avanscoperta verso il lampadario, lussureggianti palme di commenti cascanti attraversano gli spigoli e giungono dall’alto al pavimento, lo stipite legnoso accoglie file ininterrotte di doppie colonne sommate in fondo al totale dello zoccolino, le vaste pianure verticali delle pareti germogliano di figure, schemi di raccolta, mondi riassunti in compendio calcolato che contengono altri mondi, tracciature, miniature, strappi di tappezzeria a fiorellini intorno ai quali spuntano petali di segni, foreste di simboli e insetti in movimento ininterrotto sul pavimento inzeppato di innumerevoli note a margine, botole e anfratti lessicali, nell’immobile sacca d’aria tropicalizzata e raccolta della casa da cui l’uomo smette definitivamente di uscire.

L’universo, che alcuni chiamano pagine gialle, si espande e contrae come un polmone invaso lungo assi a perpendicolo fino alle lontane pianure ghiacciate dove resistono solo forme di vita elementare. Pare non sia possibile percorrerlo nel suo intero e misurarne lo sviluppo quadrimensionale. Murato vivo nella sua proiezione planare l’uomo ha invece compiuto la sua evoluzione personale e seduto per terra seminudo nel silenzio del salotto istoriato dentro un vortice immaginario, comincia a ricordare il futuro e i volti accigliati il cui seme non è ancora stato deposto, fino alla fine dei giorni. Che sopraggiunge precisamente un mercoledì in tarda mattinata, dopo una breve sonnolenza priva di sogni, mentre scivola dal letto affrescato: un interminabile e smisurato secondo colmo di accadimenti immaginari, dopo l’impatto fatale del capo con la piastrella.

One thought on “la dura verità

  1. mi sono sempre chiesta, non in modo esplicito, piuttosto ondivagante direi – ma stasera il simbolismo (?) s’è infiammato- che ci campeggiava a fà la mantide sulla tua testata. per me era un grillo, un grillo verde, seppure mai ne abbia visto uno. ma stasera ho osservato il ghigno, la mandibola ben corrisposta e, cavolo! mi sono detta. allora, i grilli non sono cicale. quando finiscono di cantare, e forse mentre lo fanno ancora, arrotano la dentatura equina (e l’occhio lasco della creaturina, parliamone: è il giro del vizioooo?) per questo, solo per questo. tua a/mantide

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