testamento ideologico

Se decidessi, in condizioni particolari e che al momento non so prevedere, di non voler più vivere e agissi di conseguenza, la mia scelta non toccherebbe solo me e la mia libertà: toccherebbe in via teorica tutti gli altri, cui verrebbe negata quantomeno la libertà di avere a che fare ancora con me in futuro (in via molto teorica, lo ammetto…); e toccherebbe poi in modo estremamente più devastante una piccolissima parte degli altri, le persone che amo e che mi amano, per le quali la mia volontaria dipartita si presenterebbe ben più che come una limitazione della liberta: sarebbe per loro una lacerazione profonda nel tessuto stesso della personalità, come se in definitiva il confine tra "io" e "te" fosse molto più incerto di quanto pensiamo.

In un secondo senso poi, la mia scelta toccherebbe gli altri perché potrebbe impedire ad alcuni di loro la libertà di impormi le loro eventuali convinzioni circa il divieto assoluto di disporre della mia vita.

Per il rispetto di un minimo di dignità argomentativa, questo secondo senso andrebbe però depennato dalla discussione (anche se, faccio notare, è proprio ciò cui si appiglia Panebianco nel suo quasi famoso pezzo sul Corriere.) È del tutto ovvio che per garantire a tutti qualcosa – come appare nel caso del dibattito sul testamento biologico – bisogna negare ad alcuni il diritto di negarlo agli altri, pur permanendo il loro diritto di ritenere che il primo non sia un vero diritto. Ma usare questa tautologia  per argomentare circa la violenza simmetrica tra chi vuole garantire e chi vuole negare è insostenibile.

Tra il privare alcuni della possibilità di avere a che fare con me e privare tutti della libertà di disporre di se stessi, la nostra società sceglie evidentemente la privazione minore. Il che spiega perché il suicidio non sia reato, ma la tortura sì.

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Se qualcuno mi cogliesse nell’atto di rinunciare alla vita, è probabile che tenterebbe di dissuadermi, o addirittura di impedirmelo. Si presume infatti che il desiderio di vivere sia prevalente e possa anche riemergere se la convinzione di privarsi della vita non è davvero determinata. Ma il salvatore dovrebbe rinunciare se constatasse che la mia determinazione è assoluta: non può certo sorvegliarmi giorno e notte. Potrebbe rinchiudermi e non basterebbe. Dovrebbe riuscire a immobilizzarmi, per sempre. Ma, a parte l’assurdità di privarmi della libertà non per qualcosa che ho fatto ma per un’intenzione, è evidente che per salvarmi costui mi causerebbe in realtà una sofferenza infinita.

Lo stesso accadrebbe, credo, se io non fossi in grado di attuare il mio piano per via di insormontabili ostacoli fisici: chi mi è vicino tenterebbe in ogni modo di dissuadermi dalla mia convinzione. Il suo tentativo andrebbe forse a buon fine se, malgrado un’incapacita fisica quasi generale, io potessi comunque vivere in condizioni almeno parzialmente autonome, senza l’ausilio di macchine e in una situazione di sofferenza limitata o accettabile e potessi sperimentare quindi una vita minimamente soddisfacente, o almeno non più insoddisfacente di quella di un minatore minorenne in Congo, o di un cinquantenne impiegato delle poste single e misantropo di una qualsiasi periferia europea, individui che per qualche motivo in genere non rinunciano alla vita.
E anche se io non mi convincessi affatto a rinunciare al mio proposito, egli non dovrebbe far nulla per impedirmi alcunché. Ma onestamente non mi sentirei di biasimarlo se non intendesse aiutarmi ad attuare la mia decisione.

Ma se io fossi fisicamente impedito e in più dipendente da macchine per la mia stessa sopravvivenza fisica, oppure del tutto sopraffatto dalla sofferenza e senza una credibile possibilità di migliorare la mia condizione, la mia eventuale scelta potrebbe assumere un carattere diverso: non chiederei di agire contro di me, ma di non agire per me, o al limite di agire per me in un senso diverso. Chiederei di accettare insomma l’ineluttabilità della mia morte, che io potrei avere da parte mia già accettato. Constatata la mia determinazione, gli altri si troverebbero in questo caso di fronte a un dilemma diverso, cioè potrebbero chiedersi: che amore è quello che mi salva solo chiudendomi nella gabbia della mia menomazione e quindi nega la mia stessa volontà, cioè in definitiva nega l’essenza della mia coscienza, ossia il mio pormi anticipatorio in quanto vivente di fronte alla realtà della mia stessa morte? E, problema ancora peggiore, in che modo riuscire ad accettare la mia volontà e favorirla, senza autodistruggere se stessi nel realizzare tutto questo?

E quando infine, oltre al mio corpo, anche la mia mente si fosse inabissata senza ritorno e io fossi tenuto in vita solo grazie alle macchine, sarebbe sensato che tutti desistessero dal mantenermi artificialmente vivo, che evitassero un esorcismo verso la morte del tutto inutile e in un certo senso sacrilego. Sarebbe sensato, ed è ciò che normalmente si fa. E ugualmente sensato sarebbe continuare a farlo, senza essere costretti a normare per garantire a chiunque lo voglia il rispetto di un’evidenza. E senza che in una discussione surreale si fingesse di scambiare un tubo con un pollo arrosto.

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Cosa vuol dire allora "tutelare la vita umana"? Prendiamo la cosa in prospettiva storica, per come le cose sono accadute: se le parole hanno un senso, vuole dire tutelare il diritto di ciascuno di disporre (o di non disporre) in via esclusiva della propria vita, ossia impedire a chiunque di disporre arbitrariamente della vita di un altro al posto suo, ossia ancora stabilire che il diritto di ciascuno di disporre (o di non disporre) di sé è superiore a qualsiasi altra considerazione politica, religiosa o di altro tipo che si volesse appropriare arbitrariamente di quel diritto.

Per questo se ne parla come di una conquista di civiltà, un avanzamento nei cosiddetti diritti umani, il più alto lascito della tradizione di pensiero occidentale e via discorrendo. Di fronte all’arbitrio del Principe che intende fare ciò che vuole del corpo e della vita del suddito, si stabilisce il valore intangibile del diritto di ognuno di non venir privato arbitrariamente della titolarità della propria vita, ossia del suo essere unico depositario della libertà di disporne o di non disporne eccetera eccetera.

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Esistono i viventi, ma in che senso può esistere una "vita" sganciata dalla volontà di vivere (o di non vivere) di un suo qualsivoglia titolare?

Eppure, attraverso uno slittamento semantico, ecco che "impedire a chiunque di disporre arbitrariamente della vita di un altro al posto suo" diventa più semplicemente: "impedire a chiunque di disporre della vita". Il problema è che chiunque significa chiunque: la tutela della vita impone cioè che nessuno, nemmeno il titolare di quella vita, abbia il diritto di disporre della "sua" vita.

Naturalmente, in questa particolare accezione "autoriferita", il divieto etico non ha modo di tradursi in norma (a parte la bizzarria del sanzionare l’autolesionismo che, poveretto, ha già i suoi problemi…). L’unico caso in cui può farlo è proprio quello di soggetti malati la cui "volontà di non vivere più"
non possa essere attuata senza l’ausilio di altri; oppure ancora nei confronti di soggetti in cosiddetto "stato vegetativo", chiaramente non più in grado di determinare né esprimere alcuna volontà e la cui sopravvivenza sia garantita nei fatti solo da macchine.
La natura sembra insomma facilitare il compito di questi campioni della religiosità facendo quello che loro non possono o non sanno fare: immobilizzare il soggetto.

Ma: se la vita di un individuo è più importante della sua volontà, anzi è importante anche "contro" la sua volontà, che è quindi sacrificabile (1), e se la volontà dell’individuo non è che una sintesi di comodo con cui indichiamo la piena espressione delle sue facoltà superiori, ciò significa che la vita dell’individuo è importante e non sacrificabile a causa di ciò che rimane quando ne siano sottratte le facoltà superiori: sostanzialmente il metabolismo individuale. (2)

Primo problema: per quale motivo si deve difendere in modo assoluto la vita umana ma non si fa lo stesso con la restante vita animale, considerato che dal punto di vista di ciò che è importante esse sono indistinguibili? Cosa c’è di così rilevante nel metabolismo di un umano che non ci sia in quello di una mucca o di un pollo di allevamento? Perché un creatore, se tutto si riduce a biologia di base, avrebbe dovuto preferire il primo?

Secondo problema: la vita, si dice, è indisponibile in quanto creata, cioè in qualche modo coincidente col creatore e in esso fondata. Come sanno tutti i chierichetti, il creatore è amore; l’amore è persino più importante della fede perché coincide con Dio stesso, e a tale coincidenza l’uomo può a sua volta corrispondere amando. Può, non deve, cioè: l’atto di corrispondenza dipende da una scelta volontaria, il che presuppone una libertà di scelta.
Attenti dunque alla biforcazione:

da una parte si potrebbe dedurne: senza libera volontà niente vero amore, senza amore niente Dio e senza Dio niente singolarità: produrre una norma che limiti la libertà di scegliere per sé, pro o contro Dio significa imporre il bene, quindi, visto quel che si è detto, in definitiva equipararlo diabolicamente al male;
ma dall’altra si può anche dedurne: la libera volontà è qui solo un termine negativo. Essa può solo opporsi all’amore, e d’altro canto non opporsi all’amore significa esattamente rinunciare alla volontà, cioè abbandonarsi in Dio. Per questo chi è creduto privo di "volontà adulta" (i bambini, i minorati, i malati incoscienti) viene ritenuto più vicino all’amore di Dio: perché non ha gli strumenti per opporvisi.
(3) Ma se qualcuno può essere più vicino a Dio senza alcuna libera volontà – non c’è volontà nell’essere bambino o minorato – vuol dire che non è così importante rispettarla, questa volontà: la società può aspirare al bene anche al di là o contro la volontà degli individui, purché vi aspirino i suoi reggitori.

Ognuno può riconoscere qui il pezzo di cristianesimo che gli pare più somigliante a ciò che si vede in giro.

In altri termini: se nessuno, nemmeno il suo titolare, può disporre della vita, è perché Dio è l’unico autentico titolare di quel diritto. Ma notoriamente Dio non fa conferenze stampa nel fine settimana. Bene, vorrà dire che nel frattempo se ne farà garante la Chiesa, e magari pure lo Stato purché dalla prima illuminato. Esito finale: tutelare la vita in questa accezione significa che nessuno, nemmeno chi ne sia portatore, può disporre della vita "tranne la Chiesa e il Principe", che vi legiferano abbondantemente sopra nei loro modi consueti.

In altri termini si giunge esattamente alla situazione da cui la proclamazione di quel diritto e di quella tutela voleva emanciparci.

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Questo post è finito. Non è granché, nemmeno come periodo ipotetico, ma al momento non mi viene di meglio. Dubito interessi il fatto che, personalmente, non sono molto interessato a redigere un testamento biologico, azione che rispetto e che mi pare soltanto sovrastimata rispetto alla mia importanza. Confiderei più volentieri in una fortunata "dispensa" astrale che regolasse la mia immortalità, ma mi rendo conto che, continuando a scrivere testi così lunghi, a qualcuno potrebbe venir voglia di staccarmela lui, la spina. Nel dubbio, immagino che mi sarà sufficiente affidarmi al caso.

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(1)
Un’obiezione recente al testamento biologico pare accettare il principio di libera scelta, purché svolto al presente: non si può deliberare in base a volontà espresse in passato che non possano essere ribadite nel presente (è il caso dello stato vegetativo), perché la persona potrebbe aver cambiato idea ma non essere in grado di riferirlo. L’obiezione è debolissima: intanto se si accetta il principio di libera scelta, si ammette implicitamente che il suicidio assistito sia lecito in caso di coscienza vigile; poi non si può dire contemporaneamente che il paziente è in stato vegetativo e che potrebbe aver cambiato idea: nello stato vegetatito non si formulano né idee né volontà; infine è triste che un pensiero che si vorrebbe forte come quello religioso si appigli, per giustificarsi, a un sentimento di certo né nobile né "religioso" come la paura, letteralmente la "strizza" che prende nel momento cruciale. Una volta  si usavano questi sentimenti per provocare conversioni in punto di morte, oggi li si evoca per procrastinare di un minuto ancora il momento di presentarsi all’Altissimo.

(2)
È noto l’argomento: se si fa coincidere la vita umana con le facoltà superiori e con la coscienza, significa che la vita umana che non esprime coscienza piena diventa sacrificabile. Quindi: eugenetica, nazismo. Questo pare un sofisma: il fatto che non sia corretto difendere la vita "contro" le facoltà superiori del suo titolare non implica affatto che l’individualità umana coincida con le facoltà superiori né che si possa sacrificare la vita in assenza di tali facoltà. Al contrario, è chi giudica sacrificabile la volontà del singolo che opera una suddivisione nell’umano e lo consegna così al nichilismo. Non è corretto del resto difendere la vita umana nemmeno "contro" altre supposte facoltà che non siano quelle deliberative: ad esempio se io intendessi sacrificare la mia vita per amore di mio figlio gettandomi nel fuoco per salvarlo, chi volesse impedirmelo non tutelerebbe affatto la vita. E persino chi intendesse impedire a Socrate di bere la cicuta non farebbe un gran servizio all’umanità.

(3)
Mentre non c’è da nutrire alcun dubbio sulla capacità d’amare, ma anche di odiare in modo estremamente pervicace, di bambini e minorati, peraltro in genere pienamente in possesso di una propria "volontà" come sa chiunque non ne abbia un’immagine agiografica e fasulla, che una persona in stato vegetativo possa "amare" o "avere una vita piena" come ha detto qualcuno, è in realtà alquanto improbabile. A meno che non si facciano equivalere di nuovo "amore" e "metabolismo" usando "vita" come termine medio. Questa strada però sembra portare i
l pensiero reilgioso in zone ideologicamente molto pericolose: altro è fondare in un creatore la singolarità vivente, altro è fondarvi in modo piuttosto vitalistico e idolatra un ente generico chiamato "vita" o addirittura collocare alla base del vivente una sorta di anonima "volontà di vivere".

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