una giornata di Elisio Bretoni

Ero lì che vagavo in questa Feltrinelli che mi sembrava a dire il vero più grande del normale: pile di libri a grande tiratura innalzate ovunque, libri ordinati secondo regole stabilite centralmente dagli uomini del marketing, la muraglia cartacea del giornalista natalizio, il romanzume italiano e internazionale, tutto un percorso di guerra di instant book, trincee di precotti pronti per l’assalto all’acquisto culturale. Non è che avessi un piano, ma quando ho visto il fortino dell’ultimo Ammanniti, alto come un uomo di statura media e che probabilmente poteva anche inghiottirlo un uomo di statura media m’è tornata in mente un’intervista da Fazio.
-Ammanniti: Quelle periferie, quelle distese di nulla, di case, di fabbriche, di villette, quelle distese tra una città e l’altro in cui noi (ma noi chi? mi chiedevo io) passiamo magari col treno senza fermarci, attraversandole velocemente…
-Fazio: In cui tra l’altro abitano moltissime persone, a volte in condizioni disagiate…
-Ammanniti: Esatto, ecco, quell’immagine, quell’umanità mi ha ispirato prima di tutto nello scrivere il mio ultimo…
Ma noi chi? mi ero chiesto ascoltando esterrefatto i due che parlavano dallo schermo. Perché parlavano a me, ma soprattutto di me, visto che io lì ci vivevo, invece loro non ci vivevano, passavano soltanto sul treno, e tuttavia quel tizio di cui avevo letto un libro mediocre di quelli tutto trama per stimolare sentimenti e diuresi aveva scritto un libro su di me, senza conoscermi, che razza di faccenda è questa mi ero chiesto, cosa ne può sapere, e cosa posso imparare io da quel libro se non ciò che lui immagina di me senza conoscermi, cioè cosa posso conoscere se non la sua testa, il suo ambiente che mi considera alla stregua di un paese straniero e pretende comunque di spiegarmi cosa sono. Ci ero rimasto male insomma. Così quando ho visto la fortezza di Ammanniti ho pensato fosse il caso di applicare le regole di quel gioco di spostamento, innocuo e forse un po’ infantile ma piacevole e almeno fonte di un vago senso di risarcimento. Mi sono diretto verso gli scaffali e ho preso un paio di copie del libro di Moroni da una piccola pila appoggiata su un bancone laterale, sono tornato al fortino e le ho deposte sopra. Almeno questo lo conosco mi sono detto. Almeno è solo al secondo libro, ha tempo prima che la macchina lo stritoli costringendolo a parodiare se stesso per quindici romanzi di fila, a gettare via i propri sogni di ragazzo, a tradire se stesso. Sapevo che quei pensieri erano sciocchi, dato che in realtà non si può non tradire la propria infanzia, tuttavia come previsto il gioco mi aveva fatto sentire meglio. Mi sono allontanato di qualche passo e aspettavo che qualcuno passando notasse il libro di Moroni nella sua nuova e centralissima posizione e si mettesse a sfogliarlo, e mentre aspettavo mi veniva in mente il libro che avevo letto in treno, Lunar park di Bret Easton Ellis. E senza pensarci, come se fossi mosso da una forza superiore, sono andato allo scaffale dei romanzi e ho cercato il libro di Ellis, di cui pure una copia stava già nella borsa che avevo a tracolla, oltretutto una copia autografata dall’autore (la dedica era: Patrick Bateman does not exist, scritto a caratteri grandi in una calligrafia decisa, aperta e simpatica, poi la firma e sotto tre righe parallele tracciate velocemente con la biro blu che gli era stata prestata per l’occasione). Ho preso il libro di Ellis e sono tornato al bancone in cui giaceva la piccola e defilata pila di romanzi di Moroni, e ce l’ho posato sopra sopra. Perché lo avevo fatto? Era una sciocchezza, anche se di certo Moroni non lo sarebbe mai venuto a sapere, ma che senso aveva questo gesto dopo che io stesso avevo messo Moroni sopra ad Ammanniti?  E soprattutto, perché mi stavo facendo queste domande, come se non fossi stato io a compiere l’operazione? Ripensavo al libro di Ellis e provavo a capire se per caso ciò che mi aveva spinto – ma continuavo a pensare: spinto chi? sono stato io a farlo! – andasse cercato nelle differenze di stile tra le due letterature, l’italiana e l’americana contemporanea, e continuando a pensare mentre tra l’altro me ne stavo piazzato in mezzo al corridoio e parecchie persone avevano già manifestato un certo disappunto perché rendevo faticoso il passaggio, mi è venuto in mente Oblio di DF Wallace, un libro che per qualche motivo consideravo vicino e lontanissimo dal libro di Ellis. Ma non è vero che stavo in mezzo al corridoio: senza che mi fossi reso conto dello spostamento adesso ero di fronte allo scaffale con la lettera W. Ho preso il libro di racconti di Wallace e con una certa compiaciuta sorpresa mi sono avviato verso la lettera E. Lunar park resisteva ancora, nonostante si trattasse di un libro dell’anno prima, in una piccola fila di libri a tutta copertina sullo scaffale mediano, e non in costa come tutti gli altri, famosi e mezze tacche ma ugualmente non in classifica: senza pensarci due volte ho messo la copia di Oblio davanti alle copie di Lunar park, rendendole invisibili. Mi sentivo completamente idiota e tuttavia in qualche modo anche soddisfatto, come se stessi ristabilendo una sorta di ordine, peraltro assurdo, come potevo ben capire. I racconti di Wallace… quel loro procedere sperimentale, quel parlare di sé dentro materiali di tutti i giorni ma anche stravolti dall’assurdo, freddamente e anatomicamente considerati… Non sapevo per quale motivo e non me ne sono stupito, cominciavo a non stupirmi più delle bizzarrie di quella mattina, ma le gambe mi avevano riportato di nuovo alla lettera M. Davanti ai miei occhi stava, ben incassata nella sua fila, la costa di Centuria, il mostruoso romanzo di romanzi di Manganelli, l’opera in grado di gettare nella costernazione qualsiasi aspirante narratore per l’impossibilità del paragone. L’ho preso e naturalmente mi sono avviato verso la lettera W. Pensavo ormai di aver capito il gioco, di controllarlo. Ho infilato il libro nel buco lasciato prima dallo spostamento di Oblio, ma appena ritratta la mano ho guardato la costa: non era  quella di Centuria, era la costa di una copia delle barzellette di Totti (il secondo volume per la precisione). Ma com’era possibile? Non potevo aver sbagliato libro. Mi ricordavo di aver visto la copertina di Centuria, di aver tenuto in mano il libro. Centuria si era trasformato durante il percorso dalla M alla W. I libri non si trasformano mi sono detto. Forse sei solo distratto, hai posato Centuria da qualche parte e ti sei messo a sfogliare le barzellette e poi te ne sei dimenticato. Può succedere di fare una cosa soprappensiero. Deciso a chiudere questa parentesi imbarazzante ho preso il Totti per riportarlo al suo posto (non sapevo quale fosse), ma dopo alcuni passi ho deciso che era meglio lasciarlo in un posto qualunque: non sarebbe stata una cosa grave visti i precedenti. Mentre lo deponevo su uno scaffale di storia, sopra a una copertina che proclamava l’avvento di un periodo di gravi turbamenti a causa di certe interpretazioni di un antico testo arabo, il libro di Totti si era trasformato di nuovo: ora era Finzioni di Borges. Questa volta mi sono spaventato sul serio. O dalla mia memoria colava fuori tutto quanto e il mio prossimo futuro era un ricovero per la cura delle malattie degenerative del cervello, oppure stava succedendo qualcosa di pazzesco. O forse…
Mi sono chiesto come mai la Feltrinelli mi sembrasse così grande, così più grande rispetto a tutte le volte che c’ero venuto. Le pareti non erano allo stesso posto. Anzi, ora non riuscivo nemmeno a scorgere la parete in fondo al lungo magazzino, completamente immerso in una luce bianca e piatta. In quel momento un uomo più basso di me con la barba incolta mi ha urtato il braccio e ha sussurrato qualcosa di incomprensibile. Mi sono voltato di nuovo e stavo davanti alla lettera D, sezione fantascienza. Sapevo perché ero lì. Anzi, sapevo perché non ero affatto lì. E perché niente era lì, in effetti. Ma ricordavo gli ultimi istanti, l’uomo che ha gridato e poi un lampo. Dovevo uscire subito da lì o sarei morto, sempre che non fossi già morto. Ho afferrato L’uomo dai denti tutti uguali e l’ho scagliato con forza contro la parete, facendo crollare di colpo tutto quanto.
Due colpi infatti, ricordavo bene, uno all’addome e uno alla gola: naturalmente ero svenuto, esattamente come il doctor House, ultima puntata della seconda serie che avevo visto di recente (ma quando? non lo ricordavo) ma questa volta era tutto vero. Aprendo gli occhi mi sono accorto che stavamo percorrendo un lungo un corridoio, o meglio loro lo stavano percorrendo, io me ne stavo in barella e sentivo un sapore dolciastro e appiccicoso in bocca e una fitta leggera e sopportabile là in basso. C’era concitazione ma stranamente io ero perfettamente calmo: uscire da quel sogno mi aveva rinfrancato sulle mie possiblità di controllare la situazione. Al mio fianco ho scorto Caddy, vedevo la sua bocca muoversi ma capivo solo le parole "colpito", "blogger", "sala operatoria". Ho provato a rassicurarla: stavo bene, davvero. Ho provato a dirle: dovete usare wordpress. Ma ormai eravamo già oltre la dissolvenza finale di quell’episodio.
Questo è quello che credete di aver veduto. Ma quello che è accaduto dopo la dissolvenza non potete averlo visto. E anch’io non ero sicuro di vederlo, perché in breve avrebbe oltrepassato la soglia di sospensione di incredulità che una storia può richiedere, per quanto mi riguarda. Il primo ascensore cui siamo arrivati era guasto, o almeno così diceva un cartello che tutti quanti i presenti hanno letto ad alta voce e all’unisono. Allora hanno girato di furia la barella – ho sentito in quel momento quella che credo fosse un’imprecazione di Cameron, ma stranamente non era in inglese – e mi hanno portato correndo e urlando a un secondo ascensore, che abbiamo scoperto essere completamente bloccato e invaso da scatoloni enormi che un addetto alle pulizie stava portando negli scantinati (ero sicuro che si trattasse di elaborate trappole per topi). Vedevo la disperazione sul volto di Cameron mentre mi lanciavano nel corridoio illuminato al neon verso il terzo ascensore, e mi chiedevo come mai io fossi così calmo e rilassato. Ovviamente anche il terzo ascensore era inutilizzabile per via di un assembramento gigantesco di giornalisti che facevano ressa intorno a un personaggio bersagliato dai flash, il quale teneva a bada quei mastini con la mano e con un sorriso molto disinvolto, e che ero sicuro di non aver mai visto in vita mia. L’assembramento era tale che procedere nel corridoio era del tutto improponibile. Di colpo mi stava salendo un fastidio per questa concatenazione di eventi così evidentemente fasulla e male assortita e così ho fatto per alzarmi afferrando il braccio di Cameron.
Ora però lei non aveva addosso più il camice bianco ma una giacca di tweed di colore indefinibile. E non era più lei. Ho alzato lo sguardo sul quel viso, sapendo che avevo appena trapassato un’altra parete inesistente: adesso ero in piedi e il braccio che stringevo apparteneva a mio fratello. Mio fratello mi guardava con un’espressione perplessa che ho interpretato come compatimento. Ho mollato il suo braccio mentre lui con una voce calma in cui ho scorto rassegnazione mi ha detto:
Il problema è che secondo qualcuno sembri un po’ presuntuoso. Per questo non ti amano.
La cosa mi ha fatto rimanere di sasso, anche se non sapevo perché. Come mai mi dava così fastidio quella insinuazione su un lato che ritenevo secondario del mio carattere? Quasi gli ho urlato in faccia:
Sembro? Sembro presuntuoso? Ma io SONO presuntuoso!
La precisazione non aveva molto senso, mi rendevo conto conto, e non era una strategia di difesa molto efficace rivendicare ciò per cui ero evidentemente oggetto di stigmatizzazione collettiva. Mio fratello tuttavia mi guardava stupefatto: sul suo volto era comparsa una maschera di sorpresa che in breve stava diventando di orrore, come se fosse costretto a guardare qualcosa di insostenibilmente disgustoso. Non capivo il motivo di quell’espressione e ho ripetuto la frase, il che ha fatto peggiorare le cose. Lui cercava di divincolarsi, io continuavo a ripetere quelle che mi sembravano parole innocue ed espresse in corretto italiano. Evidentemente non era così. Sono rimasto ad ascoltare, intanto che mi affannavo a trattenerlo e a ripetere con un tono sempre più alto la frase, uno strano ticchettio che pareva sorgesse proprio dentro la mia voce, in un punto lontano e sommerso. Cos’era? Il ticchettio si faceva più distinto, poi è diventato una specie di gracchiare, sempre più acuto, insopportabilmente disgustoso, finché ha sovrastato completamente le parole che mi uscivano dalla bocca: non stavo parlando, emettevo un assurdo e orripilante rumore, come un fruscio che sapeva di morte, di chiuso, una versione amplificata e sorda dello sfregolio delle mandibole di uno scarafaggio. Mi sono ritratto spaventato da me stesso e ho iniziato a scappare, ma mi trovavo in una casa sconosciuta, che assomigliava a uno dei piani superiori di un grande albergo di lusso in cui ero stato durante il mio viaggio a New York, dieci anni prima. Mi sono gettato a capofitto su una porta: per fortuna era aperta ma nella stanza il buio mi ha fermato dopo pochi passi. La porta si è chiusa dietro di me. Una debole luce veniva da una presa di corrente posta di fronte e illuminava appena poche decine di centimetri intorno a sé di una lenta penombra giallastra e snervante, era come se stessi guardando dentro un baule immerso nell’oscurità sul cui fondo lampeggiassero appena degli oggetti luminescenti, vivi, ma completamente alieni. Ho scorto qualcosa ai bordi di quel fioco campo luminoso e ho riconosciuto il mio gatto. Per motivi che ho rinunciato a indagare era quasi il doppio della sua taglia consueta, e nella bocca semiaperta teneva qualcosa che stava come masticando, qualcosa che tuttavia sembrava non consumarsi sotto i suoi denti. Il suono dei suoi denti era simile a quello, orribile, che avevo emesso parlando con mio fratello. Mi sono avvicinato e ho cercato di prendere quella cosa: mi pareva che fosse assolutamente necessario prenderla, che in quell’oggetto potevo trovare una spiegazione a tutto. L’ho afferrato e ho capito che si trattava di un altro libro, anzi del libretto che avevo pubblicato pochi mesi prima. L’ho tirato debolmente verso di me e il gatto ha mollato quasi subito la presa. Il libro era morsicato ma non  rovinato del tutto. L’ho sfogliato ma per quanto la luce fosse debole non riuscivo a vedere alcuna scritta. Ho pensato di aver formulato male la frase, infatti avrei dovuto dire "a causa" e non "per quanto". Ma non si trattava della luce, erano le pagine del libro ad essere completamente bianche. Tuttavia c’erano i numeri di pagina. A pagina 63 era stampata, a carattere palatino centrato, quella che mi sembrava l’unica frase contenuta in tutto il volumetto (63 è il mio anno di nascita). La frase diceva: La seconda parte della tua vita andrà in onda alle 3.40 del mattino sul canale 2. Ho guardato l’orologio: le 3.41, naturalmente. Ho cercato a tentoni un televisore, che era proprio dove mi aspettavo di trovarlo, in fianco alla finestra, a sua volta nascosta da pesanti tende di velluto di cui non riuscivo a identificare il colore. L’ho acceso e armeggiando coi i tasti alla base dello schermo si è sintonizzato sul canale 2: Rai2 trasmetteva il monoscopio.
Ho capito. Una voce che non proveniva dal televisore (forse dal gatto?) ha detto qualcosa che ormai sapevo perfettamente, e che sapevo essere assieme vero e assurdo: le ore 3.40 non esistono.

Qualcosa mi avrebbe svegliato prima o poi, ma non c’era più effettivamente una gran differenza.

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23 thoughts on “una giornata di Elisio Bretoni

  1. è una delle cose più belle che ho letto da settimane a questa parte. per non parlare poi della definizione di centuria.

  2. di centuria, quarantanove è la mia bibbia surreale, ma pure su hilarotragoedia si potrebbero scrivere pagine intere. è che manganelli o si ama alla follia o si odia.

  3. sì ma tez, non è tutta roba buona:

    salta i pensosi, leggi i ferrara (ma solo i connettivi), le natiche se hai tempo; questo qui invece non è mica male

    (ecco un nuovo genere, l’autorecensione)

  4. visto che lo citi, il caro Ammaniti, sappi che lui non ha scritto proprio niente. La prova? In tutti i suoi romanzi è utilizzato il congiuntivo, modo verbale a lui totalmente ignoto.

  5. Dopo questo post è scritto: dedico un battito del cuore alle dita che lo hanno scritto. Volevo solo dire che nel leggere Ammaniti scrissi alla casa editrice proprio per far notare quanto fosse poco avvezzo al congiuntivo. Mi risposero che era una specie di licenza poetica. Le conclusioni vanno sole.

  6. Io è Wei Chin Xiao, non quelo anonimo di plima. Io no ha capito niente di tuo pot logoloico. Come dile chuangtzè “andale al dunque, se il dunque liesce a stale felmo finchè alliviamo”.

  7. Lei è pazzo, caro falsoidillio.

    Per questo, forse, l’ho letta fino alla fine di questo post (saltando giusto un paio di righe qua e là per motivi di ottimizzazione del tempo). Devo dire che mi affascina questo fenomeno del book-coso, shifting. Cioè, pare una forma di democrazia diretta, non lo so. Il punto è che la democrazia in mano all’essere umano ha sempre fatto dei danni inenarrabili, quindi non so bene se preoccuparmi o no.

    E se i libri si vendicassero e cominciassero a fare book-coso con noialtri uomini? Prendono il nostro vicino di casa ciccione, grasso e olezzoso e ce lo piazzano qua – paf – sulla nostra poltrona preferita, in SALOTTO. Lei, per esempio, torna a casa dal lavoro – sior falsoidillio – inserisce la chiave nella toppa e, ta-daan, dentro la sua abitazione v’è installata una mandria di circensi, con tanto di donna barbuta. Book-coso sugli uomini. Berlusconi al posto del mio portiere, giù in guardiola. O viceversa. Il mio portiere che, tac, sviene durante un comizio coi giovani (ma che giovani sono dei giovani che affollano un palazzetto dello sport con dentro, a parlare, SILVIO B.?).

    Che caos, signora mia.

    [Ste]

  8. ma lei che è filosofo, e perfino gionalista (con questi presupposti non otterrà mai le attenuanti, neppure quelle generiche, se ne dia pace) saprà pur bene che, in questi tempi velocemente immobili (cit.) il book shifting, così come pensato originariamente, ha perso incisività.

    Commessi rapaci e fan occhiuti sono scafati e sgamano subito il trucco.

    Invece, la nuova frontiera è RISCRIVERE i libri, utilizzando la copertina originale.

    Se lei vuole sostituire Manganelli a Totti, deve riscrivere, all’interno del libro barzellettaro, le Centurie (operazione, tra l’altro, altamente morale)

    Altrmenti, guardi, potrebbe scrivere il suo stesso libretto al’interno di un Foster Wallace.

    La perfezone, poi, già si sa, è riscrivere il Don Quijote – non copiarlo, non sostituirlo con altro, riscriverlo proprio, eguale all’originario, come se si fosse Cervantes, anzi, ESSENDO Cervantes (ma questo lo spiegheremo nel corso avanzato)

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