philip roth, pastorale americana

Pastorale americana è uno strano libro che pare desiderare la propria autodistruzione. Per questo, il fatto che sia all’apparenza così splendidamente inconcluso o mal riuscito, ancora un abbozzo di romanzo, ne segna assieme il successo e il fallimento. Pastorale americana possiede insomma quello che si dice il fascino del mostro.

Per deformità caratteriale non sono capace di appassionarmi all’ideologia esplicita che pare emergere da un romanzo – non sono dell’idea che il romanziere sia un pensatore, che ci debba interessare quel che pensa di questo o quello. Così, se Pastorale americana sia un lamento per la fine del sogno americano di fronte alla cieca violenza oppure il contrario, non so proprio dirlo. Quel che dice a livello di ideologia un buon romanzo lo dice forse all’insaputa del romanziere stesso.

Il libro è costruito su due piani, o meglio è fatto da due bolle cresciute una dentro l’altra, una che contiene e circoscrive l’altra. La prima e più interna bolla è quella della vicenda esplicita che percorre il libro e sulla quale i più si soffermano: ascesa e caduta di un eroe americano, detto “lo Svedese”. È il livello epico, dello sviluppo drammatico e anche della maggior parte della contestualizzazione di contorno. La seconda bolla, più esterna, è la vicenda dello scrittore Nathan Zuckerman, dentro cui la vicenda dello Svedese va tutta inscritta.

L’evidenza delle incongruenze narrative presenti nella prima, più interna e più evidente bolla tuttavia balza rapidamente agli occhi e diventa sempre più inaggirabile man mano che si avanza nella lettura. Qualche esempio:
•  personaggi inspiegabili e inspiegati (da dove salta fuori e chi è Rita Cohen, perché sa tutto e perché nessuno, nemmeno Merry, sa niente di lei? Che gioco sta giocando e perché nessuno ce lo spiega? Perché, insomma, sembra così palesemente un escamotage prodotto da un romanziere a corto di espedienti?);
• soluzioni narrative di quart’ordine (la notizia del nascondiglio di Merry che giunge per lettera! Da Rita Cohen, guarda caso! E perché non con un messaggio degli alieni, già che ci siamo?);
• svolte fondamentali nella psicologia dei personaggi disperse dentro estenuanti e circonvoluti sommari in terza persona (dai quali ad esempio, quasi di straforo, veniamo a sapere nientemeno che lo Svedese – la moralità in persona – ha avuto un’amante!);
•  scelte di tono che franano sotto il proprio stesso peso (l’ambizione iniziale all’epico che si impaluda progressivamente nel bozzetto da "interno borghese" e poi in un grottesco macchiettistico fino alla comica finale in cui Lou Levov, assurto al ruolo di mattatore, viene infilzato da una proditoria forchetta vagante);
• un’esigenza di “realtà” fin troppo didascalida (di punto in bianco pagine e pagine sulle tecniche di lavorazione della pelle et similia, che testimoniano un po’ troppo pedestremente la diligenza del narratore nell’approfondimento storico).
Senza contare la stramberia del racconto di una vita esemplare che si arresta di punto in bianco ai quarantanni anni del protagonista (che sappiamo morto invece ultrasettantenne: e tutta la seconda parte della sua vita? Non era interessante? Ma se non lo era perché prevederla?) e senza che sulla sorte della coprotagonista – la figlia dello Svedese – si possieda alla fine più che qualche congettura, un si dice dentro un altro si dice.

E tuttavia. Tuttavia al lettore le cose non tornano, perché la scrittura, senza eccessi ma senza sbavature, è brillante, qua e là ecco pagine strazianti, qua e là riflessioni acute, e la tecnica, che procede in modo frattale per divagazioni dentro divagazioni, è ampia, sontuosa. Come possono convivere queste qualità con una struttura narrativa così strampalata?

(Il lettore può sempre rifarsi all’autorità del Times citato in quarta e dire che il pregio del libro è di proporre domande e lasciarle in sospeso. Ma una simile dose di pigrizia interpretativa va bene per un quotidiano ad ampia tiratura, non per il povero lettore che deve rispondere solo a se stesso).

Una possibile spiegazione, lo stolido lettore, ce l’ha sotto il naso. La storia che sta leggendo non è infatti l’opera di Roth, ma quella uscita dalla penna improbabile dello scrittore Nathan Zuckerman – con i cui ricordi di gioventù in realtà l’opera di Roth inizia – e delle sue fantasticherie un po’ alcoliche cui si abbandona in un tristissimo party di ritrovo di vecchie glorie. Ecco insomma la seconda bolla, il cerchio circoscritto.

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L’amante dei paradossi può seguire lo sviluppo di questa figura narrativa che si muove su livelli diversi e rende, come alcuni hanno notato, assai vago e poco maneggevole tutto l’impianto del libro.

Primo livello: lo Zuckerman di oggi rievoca con nostalgia fin troppo ingenua la propria infanzia, nella quale compare la figura mitologica dello Svedese (primo capitolo)

Secondo livello: lo Zuckerman di oggi rievoca uno Zuckerman anteriore, che durante un tristissimo party in cui rivede gli amici di gioventù si estranea dai presenti e inizia, partendo da una base limitatissima di notizie apprese, a fantasticare intorno alla vita dello Svedese, allo scopo esplicito di contrapporre una propria versione dei fatti a quella proposta da Jerry, fratello dello Svedese, con cui ha conversato pochi minuti prima e che gli ha comunicato la ferale notizia della morte dello Svedese stesso, rendendolo peraltro edotto del fatto che all’origine delle di lui disgrazie va posta la vicenda della figlia Merry, viziata e odiosa terrorista latitante e bombarola. Ma Jerry, dice questo Zuckerman anteriore, col suo cinismo di maniera la fa troppo semplice: crede di aver capito tutto, di poter spiegare in poche righe la natura dei personaggi e il senso complessivo della storia. Invece la faccenda, sempre secondo Zuckerman, è più complicata: comprendere la natura dei personaggi e l’origine delle loro azioni o convinzioni è impossibile, comprendere il senso e le ragioni della storia è impossibile, i fatti non si spiegano del tutto, le tragedie non hanno un vero senso e per questo piegano in farsa – tutte teorie che Zuckerman avrà modo di mettere in pratica costruendo da qui in poi la propria stramba e per molti versi incomprensibile versione della vicenda dello Svedese, nella quale infatti non si riesce mai a stringere all’angolo nessuna vera spiegazione – insomma, perché Merry ha messo la bomba? E lo Svedese, è un santo o un’idiota? Non si può saperlo. Ebbene, tutta questa fantasticheria è interna al party: inizia dalla testa di Zuckerman durante il party e non finirà più per tutto il libro – non si uscirà più da quel party! (secondo capitolo e successivi).

Terzo livello: è il più paradossale e compare un paio di volte brevemente ma significativamente. Lo Zuckerman di oggi rievoca, nel mezzo della rievocazione del party, uno Zuckerman anteriore – ma successivo al party – che dopo mesi di lavoro estenuante ha infine completato il manoscritto sulla vita dello Svedese – attenzione: non può che trattarsi di questo stesso libro che abbiamo in mano, ma nello tesso tempo e ovviamente non può affatto essere proprio questo libro che abbiamo in mano, dato che un insieme non può contenere se stesso come un elemento dell’insieme. Zuckerman dunque immagina di spedire il manoscritto a Jerry, e immagina la reazione negativa di Jerry, e immagina – non è chiaro se oggi o nel passato –  l’ineluttabilità di questa reazione negativa, e la giustifica con l’impossibilità e incommensurabilità del confronto tra un’opera di fantasia (Pastorale americana e la storia dello Svedese in essa contenuta, o meglio la storia di Zuckerman che racconta la storia dello Svedese) e i veri ricordi di uno dei veri soggetti descritti in quell’opera (il "vero soggetto" è Jerry, che “in realtà” è esso stesso un personaggio di fantasia che sta tutto dentro Pastorale americana) (secondo capitolo).

Se mettete due specchi uno di fronte all’altro e vi infilate in mezzo a osservare quella stucchevole  fuga di immagini, non ne uscirete meno confusi di così.

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È qui dunque, solamente a pagina 95 dell’edizione Einaudi, che comincia la bolla “epica”, che però sta tutta dentro l’altra bolla che l’abbraccia, che è poi tutto il libro Pastorale americana, e che contiene anche Zuckerman e la sua versione della storia dello Svedese.
Il malinconico, tragicomico Zuckerman, operato da poco di prostata e da quest’operazione reso sessualmente invalido, l’ammiratore ingenuo del mito americano incarnato dallo Svedese che ancora non s’è rassegnato del tutto a riconoscere la propria ingenuità come malattia, il teorizzatore un po’ bolso dell’impossibilità della comprensione interumana (la normalità è fraintendersi, è l’errore), il narratore che finge di scomparire ma è così presente da inondare il libro delle sue chiacchiere e fantasie. Zuckerman è protagonista almeno quanto lo Svedese: Zuckerman è il cattivo romanziere chiamato a uno scontro finale con la sua creatura, con la sua nostalgia, col suo paradiso fasullo ed elegiaco che gli esplode davanti e che si rifiuta di farsi maneggiare. Zuckerman in preda a domande senza risposte è il vero sconfitto di Pastorale americana. Nathan Zuckerman, lo scrittore, e il suo invadente e lamentoso narcisismo.
Questa seconda e più ampia bolla, questa cornice che inscrive la prima in sé, non so dire se salvandola dai suoi difetti oppure no, è infine il romanzo che potete leggere, con discreto profitto.

16 thoughts on “philip roth, pastorale americana

  1. Finalmente trovo qualcuno che non urla al capolavoro ma approfondisce la lettura di P.A. Che per carità è un bel romanzo, ma davvero troppo appesantito dalla sua espressa, espressissima ideologia e – ora me lo fai notare meglio di quanto l’avessi fatto leggendolo – dai suoi buchi nella trama.

  2. l’analisi del libro di Roth potrbbe essere definita Zuckermaniana…anche l’utente anonimo dovrebbe sapere che uno dei capitolo memorabili di Roth è nel “Lamento di P:” ed è dedicato proprio alle succitate “pippe” (non mentali, ma alla lettera).

    Io propendo però per il capolavoro, nella misura in cui questo romanzo tiene in equilibrio un’esigenza letteraria di forte complesità novecentesca con l’epica passionale e romanzesca, quasi picaresca, che tuttavia si fa leggere (dovrebbe essere questa o no alla fine la prova finale? ecco io l’ho letto senza particolari intoppi – comprese le parti della lavorazione della pelle, un po’ lunghe come del resto sono lunghe le descrizioni di battaglie in Tolstoj o tante altre narrazioni “clasiche” a cominciare da quella noiosa (?) descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade.. o no?

  3. anch’io l’ho letto con piacere, e ho letto con piacere anche le parti sulla lavorazione della pelle, Mario. Anche se non sempre il piacere immediato è l’unico giudice accreditato, e anche se nel caso della lavorazione della pelle il mio piacere era più contorto: da una parte trovavo un po’ meccaniche, esagerate, e quasi goffe quelle parti (diversamente dalle altre descrizioni “classiche”), dall’altra ero ammirato per il fatto che quella goffaggine era probabilmente voluta in quella esatta misura così che io potessi, approfondendo la lettura, attribuirla a Zuckerman e non a Roth (sempre se la mia lettura ha un minimo di senso, ovviamente)

    b.georg

  4. Per ragioni personali, atterro spesso a Newark, qualche anno anche diverse volte all’anno. E’ soltanto un punto di passaggio, un cancello, il gate per New York, come per tanti altri, come per la maggior parte dei turisti.

    Eppure negli anni ci sono stati frammenti di territorio che mi sono rimasti impressi, niente più che dettagli, impressioni visive, piccole fugacità – ma forse non tanto, visto che sono state poi riprese per esempio nella sigla dei “Soprano’s”.

    Invece da quando ho letto P.A. mi sembra di atterrare a casa, riconosco le trame del territorio, emotivamente e con simpatia, ho l’impressione di guardare di nuovo qualcosa che conosco, a cui sono affezionato. E’ la storia delle concerie, che m’introduce al rapporto nettissimo che c’è a Newark tra il fiume e il territorio, che lo spiega e che spiega come mai lì, visto il trattamento delle pelli ha bisogno di tanta acqua, così netto ed evocativo quando si arriva in aereo.

    Non so se, come sembri dire, le pagine della conceria, incluso il loro nodo centrale che è Lou, con la sua rozza psicologia, siano scritte male, so di certo che a me hanno raccontato il mondo, un’intera città che non avrebbe altra ragione al mondo di esistere se non di essere il gate per NY.

    Mi hanno cambiato, hanno cambiato lo sguardo che dò alle facce delle persone di Newark. Hanno agito come di solito fa la letteratura grandissima, parlandomi da un tempo e un luogo remoti, permettendomi di abitarli.

    Per me sono pagine grandissime.

    Anche per lo svedese vorrei aggiungere un pezzetto di lettura personale, che nella tua bella riflessione non c’è, e a me pare che allontani la tua capacità di accostarti a un vero capolavoro.

    Lo svedese non è un americano qualunque, e non è nemmeno un ebreo americano, lo svedese, alto, biondo, atletico, è il sogno d’integrazione degli ebrei americani, è l’ebreo americano carrozzato wasp, che accede ai privilegi del sogno americano, conquistato col duro lavoro, l’intelligenza, la resistenza alla diffidenza verso le minoranze.

    Se manca questa chiave, resta difficile incastrare i pezzi del puzzle, mentre con questa chiave in mano tutta la narrazione diventa la vicenda imprevedibile e appassionante di una sintonia col mondo che è sempre sfuggente.

    Perché mentre lo svedese diventa finalmente alto e biondo, dopo tanti anni di paure e persecuzioni, quando diventa americano, gli americani alti e biondi lottano, anche violentemente, contro gli americani che mandano gli americani a massacrare i viet-namiti e farsi massacrare. E’ proprio perché lo svedese è diventato un americano alto e biondo, che sua figlia fa quello che fa in quanto americana, e la realtà si allontana ancora una volta dal sogno, proprio mentre sembrava invece che il sogno fosse finalmente alla sua conclusione epica di realizzarsi…

    Il titolo, del resto, dà un indizio molto preciso sull’incongruenza tra le visioni idealizzate e la realtà, incongruenza cosmica, ovviamente.

    Ecco allora, per concludere, e scusami la lunghezza, che mentre l’aereo dall’Europa atterra, nei riflessi delle acque della baia di Newark, si vedono scintillare insieme le illusioni delle vecchie concerie, un mondo perso per sempre come la qualità dei guanti che vi si facevano, che illustrano un certo mondo come un’icona perfetta, Parigi, la belle epoque, un certo modo di tenere l’ombrellino con la mano guantata, e l’opera concreta sul territorio nuovo, anche brutale e invasiva, per poi scendere sulle facce degli abitanti, che offrono tutte quella doppia prospettiva che hai imparato su un libro.

    E la storia di alcuni americani, diventa anche la tua. Non soltanto nel senso che ti riguarda, ma che ci sono passate anche le tue ossa

    🙂

    Palmasco

  5. grazie del tuo commento, palmasco.

    sul primo punto provo a rispiegare: non sono scritte male, anzi, sono scritte doppiamente bene. Come ho detto le ho anche lette con grande piacere, ma un piacere con un doppio fondo. È una questione che riguarda l’economia dei temi narrativi dentro PA. L’impressione che ho avuto è che spesso queste parti siano “supermotivate”, che qui insomma non ci sia Roth che intende far rivivere un’epoca, ma Roth che intende far vivere un personaggio il quale intende – in modo ipermotivato e quindi sospetto – far rivivere un’epoca. Questa motivazione fa insomma parte del carattere del personaggio, non è una neutra e “oggettiva” rievocazione epica. A un certo punto Zuckerman parte in quarta come se dicesse: mo’ te lo faccio vedere io il romanziere epico. Magari sbaglio, ma io ci intravedo didascalismo, volontarismo un po’ pedestre, goffaggine, non per come sono scritte, ma perché sono scritte e proprio lì e propprio così. Ma la goffaggine è di Zuckerman, la maestria è di Roth. Se non fosse una brutta parola, direi che si tratta di una questione di meta-narrativa, che ho provato a giustificare con la mia idea: PA non è la storia dello svedese, ma è la storia di un romanziere un po’ ridicolo alle prese con i suoi sogni, e certi eccessi (o certe stranezze o buchi o incongrenze nella costruzione) fanno parte del suo personaggio e non vanno ascritti all’autore.

    Riguardo alla seconda obiezione, ho compreso perfettamente il punto riguardo allo svedese e al paradosso del suo sogno fuori tempo, solo mi pare che queste questioni, se le intendiamo “in sé” e non come riferite a una finzione, riguardino il lato dell'”ideologia esplicita”, che come ho detto tendo per deformazione personale a considerare il meno interessante di un romanzo. (mi permetto per questo di rimandare a un commento dell’ottimo Malesi nella di lui pagina di aNobii, qui

    b.georg

  6. Per me è solo e semplicemente un libro magnifico, straziante e in quanto tale non so se riuscirei a rileggerlo. Lo Svedese è uno dei più bei personaggi che ho avuto la fortuna di incontrare, secondo solo al Colonnello Aureliano Buendìa – chissà se è l’empatia di padre di figlia femmina, non so.

  7. sir, non dubito che la sua impressione sia motivata, come tutte le impressioni. Sarà deformazione, ma io amo anche, una volta letto un libro, provare ad andare nella sala macchine, per quanto ne sono capace. Credo sia vero del resto che quanto più un racconto è o appare straziante, tanto più l’autore l’ha dovuto trattare con mestiere, tecnica, oserei dire cinismo. L’autore straziato è un autore che fa ridere. A me insomma piace pensare che andando dietro la prima impressione si impari di più, ma come ho detto è deformazione.

    bg

  8. ti ho “scoperto ” su viadellebelledonne, decisamente molto interessante il tuo blog! vienimi a trovare: spero tra “amici” e/o tra persone che amano il creativo..

    roberto matarazzo

  9. Complimenti per la recensione, davvero eccellente.

    A me questo libro non ha entusiasmato, un pò per la farraginosità narrativa, che hai ben esposto, un pò per l’ideologia di fondo.

    In particolare, come ho scritto sul blog, questo romanzo non mi è parso affatto, come invece ha scritto qualcuno, un affresco della società americana degli anni ’60-’70. E’ vero che la figura dello Svedese e, ancor più, quella meno stereotipata di suo padre incarnano una serie di valori e aspirazioni tipici di una certa società americana, ma è vero anche che le vicende politiche di quegli anni non giocano alcun ruolo effettivo nella dinamica del romanzo. In particolare, allo Svedese del Vietnam non importa nulla, così come non gli importa nulla di tutto ciò che non lo riguarda personalmente e il suo crollo è causato da un fatto privato, del tutto accidentale: sua figlia è pazza – come egli stesso alla fine dovrà ammettere, rinunciando definitivamente a trovare un senso nell’intera vicenda.

    In Vietnam l’America ha perso la sua innocenza in un senso ben più radicale di quello di veder trasformare un pugno di ragazzine di buona famiglia in terroriste fanatiche. Ma questo è l’unico aspetto che emerge dal romanzo di Roth – un romanzo in cui le uniche persone interessate alla politica vengono presentate o come psicotiche sanguinarie (vedi Merry e Rita Cohen) o come pseudo-intellettuali sadiche (vedi Marcia Umanoff).

  10. leggo pastorale per la seconda volta e intercetto questo complesso di recensione e commenti per la prima, sebbene un po' in ritardo di qualche anno. mi leggerete?

    è possibile, dico possibile, che roth abbia volutamente lasciato orfani di senso compiuto entrambi i protagonisti di pastorale: lo svedese e zuckermam; intendo che li abbia costruiti entrambi – in parallelo – con ironia sottile e/o – può essere – triste disincanto, disegnandoli incapaci di codificare gli eventi; fare questo significa porsi un duplice quesito: uno sul potere della letteratura di demistificare la realtà, l'altro sulla reale capacità dell'essere umano in generale di compiere questa operazione; come dire che, in pastorale, roth non pare dubitare solo di sé, penna demistificatrice, ma anche delle effettive possibilità dell'umanità, una normodotata umanità, di condurre a compimento una coerente codifica del reale. in questa prospettiva, un po' nichilista, è possibile che i vuoti di senso, manifesti in quella che pare a tratti una debolezza negli anelli narrativi (ad esempio, chi è la cohen?), non siano altro se non una astrusa fenomenologia del reale, di cui lo svedese è in balia e che il romanziere non sa sciogliere.
    mi è parso, a tratti, che roth abbia voluto sperimentare l'esperienza cognitiva su un doppio livello – umano e più propriamente intellettuale-, dimostrandone la sconfitta: la realtà non è comprensibile, dice l'anima di pastorale, vi lascio cadere nei buchi di coerenza narrativa (creati dalla penna di zuckerman), come io cado nei vuoti di senso (la sconfitta euristica dello svedese). 

    roth non è uno scrittore da poco, non lascerebbe il lettore a chiedersi chi sia la cohen, come mai merry dica di non conoscerla e via così; e, probabilmente, non glielo lascerebbe fare neanche il suo editor; lo ha fatto, è possibile, per portare il lettore su un secondo livello di riflessione: non chiederti chi sia la cohen, non puoi risponderti, chiediti cosa sia la vita, perché dinanzi a quella siamo tragicamente ignoranti e impreparati. 

  11. leggiamo, leggiamo 😉
    e almeno per quanto che ci assiste la memoria, ci pare di essere anche piuttosto d'accordo

    b.georg

  12. trovo davvero interessante questa analisi, soprattutto per il fatto che la mia interpretazione era completamente diversa 🙂
    a mio parere il piano dello Svedese (nel quale ti ritrovi quasi senza accorgertene: mentre leggi ti rendi conto che sta parlando in prima persona, come un flusso di coscienza e quasi non ti ricordi da quando succede) è come se fosse la vera cena tra lui e lo scrittore, quella in cui lo Svedese ha il coraggio di raccontare la vera storia che c'è dietro la facciata perfetta. come se continuasse quella lettera in cui vuole parlare della sua vita.

    in questo senso avevo interpretato tutte le domande che si pone, i dubbi aperti, eccetera. come se lo scrittore fosse semplicemente una parte di se stesso, quella che gli chiede di aprirsi, di essere sincero, di mostrare tutta la vita che non va (uno specchio).

    rileggendo però la parte in cui evidenti i vuoti narrativi, è molto più probabile la tua interpretazione, ecco.

    paola

  13. confesso che dopo tutto 'sto tempo non mi ricordo una cippa per cui non mi sentirei di difendere la mia versione più di quella di altri. dovrei rileggerlo, per scoprire magari di aver sbagliato tutto e dover approntare una seconda versione, a sua volta incerta. a quel punto però avrebbe vinto zuckerman, temo. 🙂

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