william faulkner, santuario

Romanzone cupo, e nero come «quella roba che sgorgò dalla bocca della Bovary e giù sul velo da sposa quando le sollevarono la testa». La frase tra virgolette sta nel primo capitolo di Santuario, messa in bocca al narratore ma riferita all’impressione che il puzzo del criminale Popeye suscita nel colto, benintenzionato avvocato Horace Benbow e già descrive all’indietro lo stesso Horace, personaggio che per sua stessa ammissione "vorrebbe essere" ma non riesce («Mi manca il coraggio: non mi è stato dato. Il macchinario c’è tutto, ma non funziona»), ma assieme, forse, suggerisce un riferimento di stile e di carattere che riguarda tutto il romanzo.

Santuario è un’opera in cui tutto precipita, sciaguratamente e con metodo, e tutto è al peggio di come potrebbe essere. Nero, notte, sfacelo; mediocrità, crimine, ipocrisia; impotenza, stupidità, dabbenaggine, paura, morte o semi vita. C’è n’è un catalogo intero e, più o meno come nel romanzone di Flaubert, non si salva nessuno. Anche qui le convenzioni sociali sono assieme il contesto e il male. E anche qui l’equilibrio tra esigenze della trama e quelle dello stile è assai particolare.

L’impianto è solido: non si tratta di uno di quei romanzi, anche meravigliosi, in cui non accade quasi nulla, anzi vi è sviluppo, tensione, azione. Ma alla trama non viene sacrificato lo stile: l’operazione è più complessa. Gli aspetti più macroscopici dello sperimentalismo modernista – il tentativo più rigoroso di rompere le convenzioni letterarie – sono messi in secondo piano. Flusso di coscienza, salti temporali, compresenza di più voci, queste e altre tecniche presenti nelle opere di Faulkner, qui sono ridotte al minimo e sempre subordinate all’onnipresenza di una voce narrante impersonale. Ma ovunque la tessitura è puntellata da una microfisica di artifici minori che agiscono a livello sintattico in vari modi. Il più evidente è un totale disinteresse per i sommari e le parti di collegamento, un netto privilegio per le scene, che siano d’azione o dialoghi. Dissolvenze al nero. Anche le descrizioni, abbondanti, non hanno alcuna funzione di supporto al lettore, anzi spesso riproducono in modo sincopato i cambi di sguardo dei personaggi, spandendo ovunque una nebbia che confonde.
Niente viene annunciato o introdotto, il lettore è gettato di qua e di là senza rete, nel bel mezzo di qualcosa che non conosce e non gli viene spiegato.

Nelle scene poi l’autore inserisce microscopici cunei di tempo vuoto con scopi antirealistici (ad esempio nel primo capitolo, Horace e Popeye sono seduti alla fonte da due ore, e nella frase successiva stanno già camminando, ma non hanno mai "iniziato a camminare") oppure, e con scopi opposti, costruisce di regola i dialoghi con elementi "verosimili" ma che non possono essere noti al lettore, perché anticipano particolari della vicenda che appariranno più avanti (ad esempio, ancora all’inizio, il monologo di Horace ubriaco sulla veranda riferisce di un suo litigio con una certa Little Belle, senza che l’autore fornisca però alcuna precisazione, nemmeno uno di quegli ammicchi in cui eccellono i romanzieri mediocri, su chi sia questa Little Belle, che solo più avanti si scoprirà essere la figliastra di Horace; oppure poco dopo, i tre ragazzi che condurranno Temple e Gowan al disastro sfottono la ragazza con un falsetto che suona «Mio padre è un giudice», ma il lettore a quel punto non può capire a chi si stiano riferendo: che Temple sia figlia di un giudice si saprà solo più tardi).
In generale alla prima lettura l’impressione è di perdersi continuamente qualcosa, qualcosa che rimane sempre in ombra, poco chiaro; come camminare su un terreno accidentato o su un pavimento di assi malmesse che possono far cadere di sotto da un momento all’altro; è l’impressione di qualcosa di fratto, scisso, non del tutto vigile e cosciente, pensato in dormiveglia o forse, più al fondo, qualcosa di intimamente malato (sarà solo una seconda lettura a rivelare la perizia stilistica che fa nascere una simile impressione). Una malattia incurabile: è questo il lento precipizio di Santuario, suonato con forza e solennità e in cui tutto si tiene.

C’è chi, anche con ragione, ritiene l’Educazione sentimentale un romanzo superiore alla Bovary, ma nella Bovary, come in Santuario, il meccanismo ideologico dell’autore appare dispiegato, senza remore, forse senza troppe raffinatezze o invenzioni, probabilmente un po’ scontato, ma con una potenza completamente finalizzata (e chissà se Faulkner avrebbe potuto dire «Horace Benbow c’est moi», come pare Flaubert non abbia mai detto di sé e della sua Signora).
Rimangono solo certi spiragli di luce pura, tutti affidati alla scrittura: come nel meraviglioso attacco del quarto capitolo, in cui un’ellittica frase descrive attraverso gli occhi di ipotetici osservatori e con una curva tesa e perfetta la figura di Temple ancora allo stato di sogno o di desiderio, un desiderio che contiene già il suo perverso sfiorire.

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