michele mari, verderame

mari

«Più io sono autentico, più parlo di cose urgenti, imbarazzanti, più sento classicisticamente il bisogno di cristallizzarle in una forma alta», diceva Michele Mari in un’intervista di qualche anno fa.

Questa non è solo un’intelligente, fortiniana dichiarazione di poetica, ma è anche probabilmente il tema di molti suoi libri. L’amicizia estiva tra Michelino, figura autobiografica di tredicenne anomalo iperletterato e Felice, bruto contadino e sorta di ragazzo selvaggio prima e idiot savant poi, mi pare confermarlo.

Da una parte della scena Mari mette il linguaggio e i suoi indici, la cultura, la ricerca, la prova, il tentativo maniacale e avventuroso assieme di salvare una memoria che naufraga – una catena di vite di cui non resterà traccia – dall’altra dispone la natura, il "mostro" (il monstrum come espressione del carattere panico e singolare della natura) e anche la cronaca, i fatti, le concatenazioni. Un’opposizione però più apparente che reale perché, come Felice stesso rivelerà, ognuno è doppio, e se Michelino è il narratore/bambino che usa con sapienza ragione e immaginazione per dipanare la propria storia, "l’altro Michelino" è il mostro che dorme sottoterra, tra lumache e francesi morti ammazzati. Michelino e Felice, in un enigmatico e forse non riuscitissimo finale, sembrano così scambiarsi i ruoli; anche il piccolo letterato, quando il tempo del racconto sta per scadere, deve rassegnarsi a venire riconsegnato alle forze oscure della vita, a diventare il suo stesso soggetto ante-litteram, guidato da un Felice che per parte sua ha ritrovato l’italiano. Torcendo all’infinito la lingua letteraria ciò che ne può uscire è di nuovo natura, in una conciliazione che non ha nulla di rassicurante?

Si tratta, malgrado l’apparenza di storia dimessa e periferica e la piccola mole (anche questo, forse, un difetto, poiché la storia si prestava a uno sviluppo più lento, denso e potente), di un romanzo assai ambizioso e Mari come al solito si muove bene su diversi piani. Apprezzabili il lavoro sullo stile (la sua solita lingua manierista viene fatta giacere impudicamente assieme al pop degli sceneggiati tv e a un dialetto varesotto piuttosto milanesizzato che renderà ostica la lettura a molti), la capacità di rendere in modo naturale e godibile la trama e i personaggi, sempre credibili e ben cucinati, la gran quantità di diramazioni e di icone inquietanti capaci di fissarsi nella mente (gli occhi dei conigli, il mosto di sangue, la casa umida e cadente, la botte di lumache carnivore…), la compresenza e collasso dei generi, l’autoreferenzialità inapparente del tema…

Si capisce che potrei dilungarmi ancora, come sempre accade quando le idee non sono poi così chiare.

Altro:
qui, grazie al redivivo Dhalgren, trovi una stroncatura del romanzo di Mari.
Nei commenti allo stesso post ho cercato di vendere cara la pelle.

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