cormac mccarthy, meridiano di sangue

Romanzo esistenziale o feroce fiaba metafisica. Ispirato a fatti storici (la caccia agli indiani tra Stati Uniti e Messico, a metà del 1800, ricostruita a partire dal resoconto di Samuel Chamberlain My confession: The Recollections of a Rogue), potrebbe nondimeno riguardare uomini preistorici o viaggiatori intergalattici e il deserto in cui si muovono i personaggi potrebbe essere il vuoto siderale o le montagne di Mordor.

Questa operazione, prendere un evento con una base storica e "tirarlo" fuori da sé per descrivere una condizione universale, viene perseguita in lungo e in largo, in tutti gli strati del romanzo: nella scrittura astratta e impersonale, nei dialoghi cormaniani privi di segnalazione, straniati, nei caratteri e nelle sfumature psicologiche del tutto sacrificati alle funzioni sceniche, nella violenza stilizzata, descritta freddamente e in modo misurato così da risultare contemporaneamente reale e assurda fino all’inverosimile. Questo è lo scenario: terre desolate e inospitali, lungamente descritte coi toni di una lirica fredda, congelata, una sorta di antico pianto del tutto disseccato, come si trattasse di delineare il profilo di un asteroide perduto nello spazio; lunghissime marce di uomini che vagano in questo inferno dantesco, di volta in volta inseguiti o inseguitori, cacciatori o prede; la morte violenta e brutale raccontata senza compiacimenti e senza reticenze, in una tensione lontana anni luce dallo splatter (non si percepisce mai compiacimento o ironia macabra, semmai una sorta di farsi forza nel dire tutto, tanto più perturbante quanto alta è l’aspirazione etica).

Il "cuore di pietra" del mondo è probabilmente il vero protagonista, benché muto di suo e lungamente descritto nel profilo dei monti azzurrini. Poi ci sono i personaggi umani: il "ragazzo" senza nome, alter ego dello scrittore e i suoi "aiutanti" (Toadvine, lo spretato) con cui crea una debole solidarietà; gli indiani, nella parte della natura ferina e selvaggia, l’Altro per eccellenza, pura emanazione del mondo inospitale; Glanton, l’uomo perduto che ha ceduto al lato oscuro, e il giudice Holden, divinità malefica dall’enorme corpo glabro e bianchiccio che domina su tutti gli altri in virtù di un potere dall’origine oscura, misto di conoscenza enciclopedica e delirio distruttivo sottratto a ogni possibile dibattito tra il bene e il male. Donne rarissime, praticamente assenti: la guerra è notoriamente un affare da uomini.

Il "ragazzo" si muove nel mondo senza arretrare di fronte a nulla ma senza aderire a nulla e questa è probabilmente la posizione dello scrittore di fronte a quello che, nel testo, appare come il comune destino insieme terribile e insensato; una posizione che non potrà salvarlo in alcun modo da un fato comunque tragico, cosa di cui lo scrittore appare del tutto consapevole. Di fronte a lui il giudice che lo incalza e cerca invano di trarlo a sé, di fargli prendere partito – un giudice/satana nella versione "inventore di enigmi" o avvocato del diavolo, forse un po’ troppo chiacchierone e che deve aver letto Nietzsche un po’ di fretta: le tirate in cui magnifica il gioco della guerra come specchio rituale dellla ferocia intrinseca dell’universo sono probabilmente un po’ troppo didascaliche e nel contesto del romanzo, complessivamente laconico, sembrano inserite ad usum delphini. Intorno a loro infuria muta la lotta per la vita e per la morte, una lotta in cui la sorte degli umani non ha motivo di distinguersi da quella delle piante, delle pietre, degli animali. Solo il giudice, enorme ammasso di ballerino dai piccoli piedi, vivrà per sempre, o almeno questo è quanto dice lui.

Si può essere d’accordo o meno con l’ideologia esplicita dell’autore e apprezzare poco o tanto la sua preferenza per le lunghe descrizioni, ma non si può dire che non sia un romanzo ben scritto.

Se siete interessati ad approfondire, google books ve ne dà l’opportunità, qui.

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