jeffrey eugenides, le vergini suicide

La storia è riassunta nel titolo. Un narratore collettivo che parla in prima persona plurale rievoca, dopo molti anni, l’ultimo periodo di vita delle cinque sorelle Lisbon, adolescenti e suicide, osservate dietro il filtro dello sguardo di un gruppo di adolescenti maschi perdutamente innamorati di loro, al limite dell’idolatria. Il racconto è anche il resoconto di un gigantesco, sterminato lavoro di indagine che il gruppo di ragazzi e poi di adulti svolge negli decenni che seguono i fatti narrati; totalmente soggiogati dalla figura delle suicide, in parte per venire a capo dei motivi del loro gesto e in parte per eternarne il culto, raccolgono le testimonianze di tutte le persone con cui sono venute in contatto negli ultimi tempi della loro vita, compreso chi ha semplicemente rivolto loro la parola una volta e per caso, e i risultati di questa indagine ciclopicamente assurda nella concezione prima che nella realizzazione, che in realtà il lettore non coglie se non nei suoi risultati, costituiscono l’ossatura su cui si sviluppa la narrazione.

Il tema dell’indagine, poliziesco o filosofico che sia, non è quindi un semplice escamotage narrativo, un trucco per tenere assieme la narrazione in prima persona – nella forma piuttosto risaputa della rievocazione nostalgica di un passato infantil-adolescenziale – e l’onniscenza del narratore, che sa una gran quantità di particolari che un semplice protagonista non avrebbe potuto conoscere. A ben vedere, anzi, questo disperato tentativo di ricostruire il senso dei fatti accaduti/narrati, sembra essere il vero tema del romanzo: un evento perturbante, oscuro, terribile ha sconvolto la vita di un intero sobborgo cittadino al cui centro si innalza l’altare votivo di cinque ragazze apparentemente normali, trasformate dagli eventi, o essendolo fin dall’inizio, in figure dai tratti mitici, in potenze oscure, telluriche, ferine. Questo nucleo, questa urticante origine del significato e della storia che lo dipana, impossibile da maneggiare e afferrare, produce all’istante un’esplosione di interpretazioni diverse e a loro volta intrecciate e mutevoli – non solo quelle dei ragazzi-narratori, titolari del plot, ma quelle di tutte le persone a qualche titolo coinvolte: dai vicini che osservano prima scioccati e poi rassegnati e poi ancora dimentichi la progressione del disastro, ai giornali locali che si gettano sull’evento confezionandolo per vendere copie, alle televisioni nazionali che se ne interessano pigramente e, ovviamente, a tutti i lettori cui la storia viene sottoposta, ognuno dei quali potrà scegliere la sua risposta preferita tra quelle prese in esame: ragazze fragili e disadattate, una madre infernale, la disperazione adolescenziale, la società, i geni bacati, la prigionia, l’emulazione, potenze sovrannaturali, veggenti, iettatrici…

Nessuna di queste interpretazioni, alla fine, si rivelerà soddisfacente per gli stessi narratori, la cui debole rivendicazione – solo noi sappiamo come sono andate le cose – è più la petizione di principio di una setta di adoratori malati che qualcosa da prendere sul serio. Il mistero glorioso di questa vicenda magnetica e terribile e rimane per principio inavvicinabile: qual è il significato celato nei fatti o, meglio, nella narrazione dei fatti? Chi ha la titolarità della risposta? Neppure l’indagine più minuziosa, neppure la ricostruzione più accurata di ogni istante ottenuta consultando tutte le possibili fonti può rivelare alcunché di definitivo. La descrizione di ogni singolo istante trascorso, il resoconto di ogni singolo stelo d’erba del prato, non restituisce una versione autentica ma, al massimo, una registrazione distorta e zoppicante. Quello che può ottenere l’interesse retrospettivo è una versione "realistica". Ma il realismo è il contrario dell’autenticità. Ciò che è autentico, si direbbe, è incomprensibile cioè non è effettivamente narrabile, al punto da non sembrare nemmeno reale. Per chiunque scriva, il realismo è un artificio letterario, un atto di scelta e di selezione, l’effetto della disposizione mirata, tendenziosa, non arbitraria ma nemmeno oggettiva, di alcuni elementi sopra uno sfondo e al cui centro c’è un buco nero.

Le scelte di stile di Eugenides sembrano conseguenti a questo nucleo di temi e al "modo di vedere" con cui sono svolti e tutto sommato, pur non essendo granché elettrizzanti, appaiono almeno coerenti. Scelte di stile garbate, misurate, a volte accorate o assorte, efficaci nella scelta dei tempi narrativi ma senza alcuna concessione a estremismi cinico/pulp – che la materia potrebbe autorizzare – o ad azzardi che vadano al di là di un tono a tratti vagamente ironico e beffardo, pietoso ma disilluso; scelte stilistiche nel solco di un realismo moderato e borghese di vecchia scuola. Anche il sottofondo metaforico che sembra rivelare, dietro il relativismo colto e svagato delle varianti, il richiamo irresistibile di una religiosità assoluta e pagana, contiene una diagnosi niente affatto stupida. Ma non saprei dire se tale referto sia frutto della consapevolezza dell’autore o di un automatismo dello sguardo "ideologico".

Le sorelle Lisbon potrebbero forse svelare l’enigma della loro decisione e sciogliere il mistero del significato. Ma ovviamente sono le sole che non lo faranno mai. Se il culto persiste è perché la divinità si è data la morte. Per questo si può continuare a parlarne all’infinito girando intorno al suo altare, come fa il cerchio di mani delle cinque sorelle che abbracciano il gigantesco totem/olmo morente innalzato davanti alla loro casa, mentre cercano coi corpi di proteggerlo dalla impietosa e stupida sega elettrica della burocrazia e della tecnica che lo abbatterà.

philip roth, indignazione

Romanzo breve. Un ragazzo ebreo degli anni ’50 va al college per costruirsi un futuro, ma le cose prendono una brutta piega.

Bello, per carità. Non proprio originale ma sempre verde il tema alla giovane Holden, abile la composizione ad anello, belli certi particolari dell’ambientazione (soprattutto i coltelli). I motivi dell’escalation catastrofica del protagonista da bravo ragazzo a iracondo oppositore “indignato” non è che siano proprio chiari, ma il meccanismo funziona, il pathos si crea. L’interesse del resto sembra più per il meccanismo tematico che per quello psicologico o addirittura politico: una serie casuale di eventi e circostanze produce reazioni inaspettate che finiscono per influire in modo incontrollabile, modificando in senso tragico la sorte. Se il padre del protagonista scivola in una follia paranoica, il figlio che lo compatisce e lo fugge si trova a vivere in una sorta di plot ispirato a quella stessa follia.

In questo gioco però c’è un elemento beffardo, si direbbe che la storia oscilli a metà tra la tragedia e la farsa: c’è qualcosa che non quadra del tutto, che non aderisce perfettamente al meccanismo drammatico. Credo sia la voce. Il fatto che Roth presti al protagonista – il romanzo è scritto per nove decimi in prima persona – la propria riconoscibilissima voce potrebbe non essere casuale. Questo diciottenne ossessionato dai pompini che parla con l’humor e con le digressioni di un notissimo scrittore settantenne ebreo ossessionato dai pompini, non è proprio credibile dentro un romanzo di formazione mimetico su un ragazzo degli anni ‘50. Fa un effetto ventriloquo, come dire. Dentro un “romanzo di Roth”, un romanzo rothcentrico, in quell’equilibrio incerto tra narcisismo, autoparodia e malinconia cupa, invece, può starci. C’è a chi piace.

Ecco, magari la soluzione della voce esterna finale che tira le somme non è proprio il massimo – soprattutto: perché non ci informa sulla sorte di colei che ci sta a cuore? Che fine fa Olivia?

antoine compagnon, il demone della teoria

Quali testi sono letteratura e quali no? L’autore è morto o sta ancora bene? Il lettore è marginale o non c’è altri che lui? La letteratura parla del mondo o di se stessa? Si può dire che un’opera è migliore di un’altra o il gusto soggettivo è legge? Può esistere una storia della letteratura e dell’influenza del passato sul presente oppure ogni lettura retrospettiva è una reinvenzione?
L’autore, in sette densi capitoli, pone le domande e cerca le risposte nel dibbbattito contemporaneo per come si è svolto dagli anni ’50 a oggi all’interno della "teoria critica". Formalismo, stilistica, strutturalismo, post-strutturalismo, ermeneutica, teorie della ricezione: l’analisi si sviluppa presentando ogni volta due alternative secche, facendole cozzare tra loro e cercando poi una linea mediana che non sia una mediazione, ma un superamento. La cosa non riesce sempre, o forse non riesce mai, ma in definitiva non sono le risposte che un lettore deve cercare in un testo simile, utile invece per avere un quadro informato e aggiornato del dibbbattito critico. Meglio porre bene le domande piuttosto che dare risposte inconsapevoli a domande sbagliate. E analizzare le domande è la missione riuscita di questo libro. La prospettiva è un po’ Parigi-centrica, ma anche questo non è per forza un male.

balzac, illusioni perdute

 Non è che mi metto a recensire Balzac, ovviamente. Non sembra ma conservo un po’ di senso delle proporzioni. Vorrei solo dire che questo libro – prototipo fino a oggi di infinite variazioni sul tema “affresco sociale di un’epoca”  – sarà una splendida rivelazione per tutti coloro che, senza averlo ancora letto, lavorano nel rutilante mondo del giornalismo, dell’editoria, dei media in generale. Il modo in cui Balzac ne descrive la “fase eroica” e ne svela, forzandoli a modo suo, i meccanismi, ha una tale potenza evocativa, tragica e assieme beffarda che solo certi passaggi shakespeariani lo eguagliano.

Le Illusioni perdute – a detta dei tanti che ci hanno riflettuto sopra da quando è stato scritto – rimane un modello inesauribile perché, con ogni probabilità, nessuno è più riuscito a bilanciare così bene due esigenze diverse attraverso l’utilizzo simultaneo di tecniche compositive conflittuali: da una parte l’estrema competenza nella ricostruzione dell’ambiente descritto – con termine ambiguo si direbbe “realismo” – cioè una perfetta ambientazione e rappresentazione precisa di tutti gli elementi determinanti ottenuta per conoscenza diretta e non tanto per procurare “effetti di realtà” cioè illusionistici, ma per collocare adeguatamente le vicende; dall’altra l’utilizzo misurato ma deciso di elementi e temi assolutamente “letterari” e non realistici che derivano dalla tradizione del romance (l’eroe e le sue peripezie, l’aiutante, il traditore) e soprattutto di una tipizzazione sociale del personaggio e dei dialoghi alla ricerca non dell’individuale, ma del comune.

Questo conferisce al testo un tono visionario, nervoso ed eccessivo la cui origine è continuamente occultata – perché non dipende dall’andare sopra le righe nello stile verbale, come fanno i mediocri, ma dall’accostamento di due serie tematiche incongrue – e soprattutto permette all’autore di “parlare del reale” (esigenza che guida tutta la letteratura da duecent’anni a questa parte) in modo del tutto sui generis: non piatta, monocorde e immobile verosimiglianza col “banale quotidiano” o col “dramma individuale”, ma messa in scena dinamica e corale che sa mostrare gli effettivi conflitti, la loro origine nei reciproci rapporti e gli esiti di tali rapporti nei sentimenti dei personaggi.

È il suo enorme vantaggio competitivo sia verso il realismo del senso comune, che scambia la storia con la natura e considera ciò che sta sotto il suo naso come oggettivo, quasi metafisico, limitandosi a presunte fotografie, volta a volta beate o sconsolate, che mancano del tutto il movimento del reale, sia verso i realisti “bendisposti” e progressisti, che scambiano le proprie acerbe aspirazioni al bene con la realtà e con la letteratura, finendo per dar credito, nella rappresentazione, alle stesse illusioni auto-indulgenti e consolatorie che Balzac, qui, metodicamente distrugge.

e ora i libri seri


What fun life was

Saggio su «Infinite Jest» di David Foster Wallace,
di Filippo Pennacchio

L’autore è un critico letterario di 25 anni e questo è il suo primo libro. Un libro di critica letteraria "seria". Un libro ottimo. Pennacchio legge Wallace come un erede del grande realismo, che con IJ si inserisce nella tradizione delle opere cosiddette "enciclopediche".
Se siete interessati, ecco un’intervista all’autore.

Saggi sul realismo
di György Lukács

Un classico. Nel mio caso: avere in casa un testo illuminante per 20 anni e non averlo mai letto perché ma sì, c’è tempo. Quante fatiche inutili mi sarei risparmiato. Invece, se uno salta con un sorriso le parti ovviamente invecchiate in cui l’autore si attarda sulla sua filosofia della storia e sulle sue certezze politiche, piuttosto scusabili in un comunista che scrive pochi anni dopo la rivoluzione russa, quello che rimane è un testo fondamentale per capire il rapporto – ambiguo e tortuoso – tra letteratura, ideologia e società e anche per farsi un’idea del perché certi autori sono grandi e altri no.


La coscienza di un liberal

di Paul R. Krugman

Di lettura piacevole, una storia degli ultimi 100 anni degli Stati Uniti dal punto di vista economico-politico, scritta da un liberal americano e premio Nobel per l’economia che propone ricette che, qui da noi, sembrerebbero estremiste, invece sono semplicemente di sinistra. Consigliatissimo.

Finanza bruciata
di Cristian Marazzi

Breve ma molto denso; vi si affrontano i temi della crisi finanziaria non solo da un punto di vista tecnico, ma con una lettura piuttosto originale della "fase storica".

tipi da spiaggia

Come accade a tutte le testate che hanno a cuore l’istruzione dei propri lettori, anche qui non può mancare la temibile rubrica di libri per le vacanze (in cambio, niente diapositive di spiagge, ritratti pensosi e sorridenti e monumenti). A differenza degli altri, però, noi i libri li leggiamo, quindi finiamo per arrivare con un certo ritardo alla prova costume. Ma possiamo assicurare che, in quanto a superficialità e a brevissimi giudizi tranchant, non saremo secondi a nessuno. Del resto l’estate è un atteggiamento dello spirito che non ci riguarda. Viva la nebbia, viva le foglie morte. Buona lettura.

(Provando una certa pena nei confronti dei recensori titolati che inzuppano di "riassunti della trama" i loro pezzi per allungare il brodo, chiariamo che qui non diremo nulla dei contenuti delle opere, sempre ammesso che una cosa come un contenuto esista in natura.)

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Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte.
È stato definito un meraviglioso fallimento e non si può dar torto a chi l’ha detto. Più profondo e toccante di Gatsby nei temi e nel modo in cui i personaggi sono trattati, più maturo nello stile che tiene insieme perfettamente leggerezza, ironia e tensione drammatica, è ahinoi piuttosto sgangherato nella costruzione. Scritto quando Fitzgerald era ormai sovrastato dai suoi guai, pubblicato nel 1934 per disperazione, sottoposto ad almeno cinque versioni nessuna delle quali lo convinceva, ritoccato affannosamente mille volte senza raggiungere una forma definitiva, rimane una costruzione bellissima ma palesemente non rifinita, costituita da vari blocchi splendidi piuttosto slegati tra loro e di incerto equilibrio. Il miglior segno del suo inestimabile valore sta tuttavia nel fatto che, pur malamente assemblato intorno a un plot tenuto assieme con lo spago, quasi non ne risente.

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Virginia Woolf, Orlando.

Be’, che dire. Libro del 1928, ma qui la Woolf in stato di grazia è in vantaggio di 30 anni buoni sulla letteratura occidentale. La sua vena sperimentale non si propone in questo caso di decostruire e complicare ma di riassemblare, reinventare, rianimare e infine fare risplendere il suo e il nostro passato. Le forme, gli stili, le maniere, le mentalità di 300 anni di letteratura risvegliate e condensate in una vicenda fantastica narrata con raffinatissima ironia.

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Gorge Saunders, Il megafono spento
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Raccolta (2007) di brevi saggi e reportage dell’autore di due delle più belle, divertenti, grottesche e brillanti raccolte di racconti che io abbia letto negli ultimi anni (i consigliatissimi Pastoralia e Il declino delle guerre civili americane). In questo libro si parla di società dell’informazione, di Vonnegut, di immigrazione clandestina, di giovani aspiranti messia, di hotel lussuosi e di altre amenità. Alcuni pezzi sono davvero ottimi (il reportage sulle ronde anti-immigrazione al confine col Messico è spassoso), altri sono godibili, altri ancora un po’ così… Alti e bassi insomma. Una buona lettura, comunque, anche se il paragone con i libri di non-fiction di Wallace, che un po’ viene spontaneo anche per via dell’editore che l’ha tradotto, è tuttavia piuttosto impietoso. Meglio come narratore.

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Jane Austen, Persuasione.

1818 (postumo). Una vicenda quasi immobile, pochi eventi pressoché irrilevanti, qualche cena salottiera, molte chiacchiere, banalità, i sentimenti più consueti e ovvi di un gruppo di personaggi del tutto interni al proprio piccolo ambiente sociale. Ma consegnali a una penna meravigliosamente acuta, sicura e netta e ne emerge un quadro tridimensionale ricco di caratteri universali, passioni sottotraccia, invidie, meschinità, delizie e splendori capace persino di aprire sguardi su una nuova epoca e un nuovo modo di scrivere e di pensare. C’è speranza anche per i socialmedia, insomma.

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William Faulkner, Mentre morivo.

1930. Forse un po’ meno radicale di Assalonne sul terreno dello sperimentalismo modernista (qui le varie voci narranti sono perlomeno riconoscibili, riducendo un poco la difficoltà di una scrittura condensatissima e visionaria), infinitamente dolente nella feroce descrizione della stupidità e della follia, enormemente ricco e concentrato nei temi tanto da somigliare a un libro dell’Antico Testamento. E, come al solito, scritto da dio. Luce d’agosto è forse il più lirico e completo del libri di Faulkner, Assalonne è una possente opera-mondo; Mentre morivo è piuttosto un apologo feroce che marca quella linea-Faulkner che attraversa la letteratura americana portandovi l’ambizione di una letteratura altissima e insieme vagamente folle, massimalista, definitiva.

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Richard Powers, Il tempo di una canzone
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Libro del 2003. Dicono sia il capolavoro di Powers. Io onestamente, tra i suoi che ho letto, trovo superiore Il dilemma del prigioniero e persino Il fabbricante di eco, su cui avevo parecchio da dire, mi pare più interessante. Qui Powers a mio parere tende a comprimere un po’ troppo i come al solito numerosi nuclei tematici dentro una gabbia preordinata di idee. Razza, identità contro non identità,  mescolanza e meticciato, cultura come strumento di potere o di emancipazione, musica colta e musica popolare, il consueto "toccante ritratto di una nazione attraverso quattro generazioni di meravigliosi personaggi" (uff…) e persino, perché no, il tempo e la fisica post einsteniana: tutti temi che finiscono per appiattirsi e allinearsi allo scopo di fornire il minor attrito aerodinamico rispetto alla direzione di marcia della macchina narrativa, col risultato di tendere però un po’ troppo al didascalico e all’edificante. Intendiamoci, la storia è godibile, Powers è abilissimo e informatissimo (fin troppo: anche qui come nel Fabbricante ha l’aria di essersi fatto una full immersion in tecnicalità non sempre così necessarie alla storia), ed è intelligente e avveduto oltre la media, tanto che di cose veramente sbagliate nel libro non ce ne sono. Il fatto è che cercare l’acuto, caricare a mille il tono accorato fino allo spasimo per 800 pagine di fila può far male alle tonsille, secondo me (alla quindicesima volta che qualcuno "ha cantato come nessun altro ha fatto mai nella vita" cominci a chiederti se stai leggendo Powers o un resoconto di x-factor. E va bene che il protagonista è un cantante e si parla anche di Opera, ma se si insiste troppo coi cuori spezzati dalle vicende crudeli della storia si finisce per non situarsi troppo lontano dal melodramma, non facendo un gran servizio, secondo me, alla propria causa.)

borges, altre inquisizioni

Diego Armando Maradona, il brutto nano che fu baciato dal dio del pallone, sapeva calciare con grande naturalezza punizioni magistrali dal limite dell’area. Non meno ovvia e triviale di questa, è l’affermazione secondo cui Altre inquisizioni, scritto dall’argentino Jorge Luis Borges nel 1952, è un libro magistrale e inaspettato, capace di aprire vertigini nella testa con la leggerezza di chi sembra parlare d’altro.

Mi pare che con l’accumularsi dei libri e degli anni diventerà più chiara l’infuenza di Borges sulla letteratura contemporanea, un’influenza che è difficile sovrastimare. Finzioni è un libro centrale. Un libro centrale è quello che raccoglie e riassume i fili di ciò che viene prima di lui, li rovescia su se stessi e da lì riparte per costruire quello che verrà dopo.

Altre inquisizioni sembra un libro minore, una raccolta di note a margine e brevi riflessioni su temi e testi e invece è un’avventura mentale; il suo veleno scende silenziosamente da frasi lente e innocue, da reperti polverosi cui pare dedicata un’attenzione da bibliofilo o da antiquario e invece nascondono abissi nei cassetti, da costruzioni astute che ti rassicurano, così che tu non ti accorga di nulla finché non ti ritrovi, dopo ogni capoverso finale, in mezzo al deserto e senza mappa per orientarti. E questo è anche un altro modo per definire la letteratura.

harold bloom, il canone occidentale


Dato che il tempo nella vita umana non è infinito, e ammesso che leggere sia un’attività che vi suscita piacere, quali autori vale la pena di affrontare?
Harold Bloom – famoso e discusso critico letterario americano – cerca in questo libro di rispondere alla domanda e propone i profili di ventisei autori, a suo giudizio i più rappresentativi e canonici della letteratura occidentale a partire dal Rinascimento – Dante e Chaucer – fino (quasi) a oggi, cioè ad autori come Beckett, Borges e Neruda. Bloom appartiene a dire il vero alla corrente di idee per cui la grandezza di autore diventa chiara un paio di generazioni dopo a sua morte, anche se poi si sbilancia, senza fare troppo sforzo, su nomi come Pynchon e Roth.

Il libro suscitò all’uscita, a metà dei Novanta, feroci contestazioni per la sua impostazione, ritenuta poco politicamente corretta: secondo Bloom non ha senso inserire nel canone occidentale moderno autori di altre culture e tradizioni in un ottica multiculturalista. Questa posizione gli procurò l’accusa di idealismo, sciovinismo, imperialismo, razzismo solo a citare le più tenere.
Se a questo aggiungiamo che Bloom ritiene esista una differenza oggettiva di valore estetico tra le opere, e che questa sia autoevidente (traduco: Virginia Woolf vale 100 volte più di Doris Lessing, in qualsiasi universo, e 1000 più dell’autrice di Harry Potter, e uso esempi femminili apposta), abbiamo il quadro della situazione. Amanti del fumetto come espressione dell’arte contemporanea, siete avvisati: non è il libro che fa per voi.

La sua concezione della letteratura, un po’ più vasta di quella espressa nelle poche righe sopra, è nel complesso piuttosto sensata ma espressa, almeno in questo testo, in modo troppo superficiale tanto da apparire fuorviante: è vero che ogni impostazione critica che leghi in modo diretto e meccanico un’opera letteraria alla società che l’ha vista nascere è un riduzionismo ingenuo che produce propaganda invece che letteratura e finisce per negare la specificità del campo letterario, ma il contrario finisce nella teoria del genio, che non è certo meglio di uno storicismo rozzo.
L’intento superficialmente polemico del libro è evidente nella contraddizione di fondo che lo anima, espressa nel suo punto più stridente nell’accostamento delle due tesi : A) la letteratura non ha né deve avere scopi pratici; B) Shakesperare ha prodotto l’uomo occidentale che noi stessi siamo. Che serva una posizione mediana che renda conto dell’illogicità di questa giustapposizione è evidente, anche se non a Bloom.


Per il resto il libro è decisamente molto godibile e la concezione agonale dell’influenza – ogni autore lotta per la propria sopravvivenza e chi riesce a spuntarla riscrive il passato a suo proprio beneficio – è divertente e non infondata, anche se sovente Bloom si lascia andare al tifo sportivo e riempie paginate di "questo è meglio di quello" senza uno straccio di argomentazione critica (scordando il detto, altrettanto squilibrato ma da tener sempre a memoria, del suo maestro Northrop Frye: «Il giudizio di valore letterario è per il critico come la carota per l’asino»). Le sue letture dei singoli autori sono comunque spesso acute e altrettanto spesso tendenziose, come è giusto e fecondo che sia, anche se l’esagerazione è sempre dietro l’angolo (che Shakespeare, inventando personaggi che "origliano se stessi", abbia forgiato praticamente da solo la psicologia dell’uomo occidentale e che quindi non abbia veri e propri debiti letterari è, come dire, un poco azzardato).


Ad ogni modo vale la pena leggerlo, anche perché non è affatto una pena.
Gli effetti immediati sono, a mio modesto parere, decisamente positivi: nel mio piccolo ho subito ordinato l’opera omnia della Dickinson (di cui nella mia ignoranza abissale sconoscevo quasi tutto prima del Bloom); inoltre mi ha spinto a riprovare con Whitmann (anche se con scarso o nessun successo: evidentemente non lo digerisco e stop, tanto che ne sbaglio il nome: si scrive con una n sola) e sto rileggendo per l’ennesima volta l’Amleto, da cui vi lascio questa immortale massima:

Trattate ogni uomo secondo il suo merito, e chi sfuggirà alle frustate? Trattali sulla base del tuo stesso onore e della tua dignità. Quanto meno meritano, tanto più merito c’è nella tua generosità.
(Amleto, Atto II scena 2).

lawrence lessig, cultura libera

Questo è un libro che dovrebbe essere imposto per legge tra le letture obbligate di qualsiasi politico che intenda operare nell’epoca della rete (oltre al profumo e ai tailleur, ovviamente), anche a costo di inculcarglielo a martellate. Non tratta temi nuovi, chiunque usi la rete è venuto a conoscenza di tesi simili molte volte, ma lo fa bene, con radicalità e da una posizione non estremistica o minoritaria, anzi mettendosi nel centro stesso del "fiume".

Il punto centrale – lo ripropongo a modo mio, senza rispettare alla lettera il dettato originale – riguarda il significato da attribuire alla cultura umana. Siamo portati a ritenere che il significato di questo termine copra da una parte l’attività di pura lettura, o assimilazione del materiale esistente, dall’altra l’attività di creazione dal nulla di nuovo materiale. Questa concezione è sbagliata. La cultura invece va interpretata in ogni caso come un’attività di riscrittura operata a vari livelli. Questi livelli vanno dal più semplice al più complesso: nel più semplice io leggo e così facendo riscrivo ciò che leggo mentre lo leggo al fine di impadronirmi dei nessi e memorizzare il materiale – una riscrittura detta interiore o mentale in quanto avviene in uno spazio "interno" metaforico, prodotto "letteralmente" dall’attività di scrittura-lettura stessa; nel più complesso l’autore riscrive e riassembla materiale acquisito in modi originali e personali, contaminandolo con altri materiali derivati dalla propria esperienza e dal proprio gusto, producendo in questo modo opere più o meno "nuove" e arricchendo in questo modo il patrimonio di cultura comune.

Ora, se così va intesa la cultura, tutte le tecnologie che facilitano questo processo sono da considerarsi benemerite. Le tecnologie di copia digitale e quelle di diffusione distribuita dei contenuti vanno in questa direzione, del tutto favorevole all’estensione della cultura intesa in senso attivo. Lessig spiega moto bene gli effetti della rete nel riattivare una pratica di riutilizzo delle fonti culturali che si era spenta durante quasi un secolo di tecnologie prepotentemente monodirezionali.

La discussione sulla proprietà intellettuale e sul copyright va inquadrata in questo contesto. Riferendosi alla tradizione anglosassone, Lessing spiega come i diritti di proprietà intellettuale venissero garantiti ai legittimi proprietari (o meglio ai loro editori, gli unici soggetti abbastanza forti da rivendicarli) purché non limitassero il bene comune, cioè l’accesso e la diffusione della cultura. La proprietà intellettuale non può insomma essere assimilata alle altre forme di proprietà riguardo a una sua presunta inalienabilità. Per questo è esistita, a fianco di una zona coperta dalle leggi, una vasta zona di libero uso che i detentori di diritti di proprietà intellettuali non potevano toccare. Con l’introduzione delle nuove tecnologie la situazione cambia radicalmente. La possibilità tecnologica di copiare, riscrivere, reinterpretare e diffondere qualsiasi materiale a basso prezzo scatena l’offensiva dei grandi detentori dei diritti di proprietà, cioè non tanto gli autori quanto la grande industria monopolista dell’intrattenimento culturale, provocando una guerra totale contro l’uso delle tecnologie digitali e riuscendo a modificare la legislazione a proprio favore. Lo spazio del libero uso si è ridotto fino quasi a sparire mentre il concetto di copyright si è allargato sia in termini di restrizioni all’uso sia in termini temporali in modo abnorme attraverso l’estensione continua dei termini di scadenza e l’introduzione di sanzioni totalmente assurde e sproporzionate, minacciando in vari modi le basi stesse della diffusione di cultura.

Lessig analizza diffusamente tutti gli aspetti del problema, dai rischi culturali ed economici che derivano dall’impedire indiscriminatamente l’uso di sterminate produzioni del tutto prive di valore commerciale ben al di là del loro ciclo di vita economico, alla totale indimostrabilità del nesso tra diffusione delle tecnologie abilitanti e difficoltà economiche dell’industria dell’intrattenimento, all’assurdità derivante dalla criminalizzazione di intere popolazioni. E propone alternative alle leggi vigenti che riportino il copyright a una dimensione sensata e disinneschino l’azione terroristica e la pirateria delle major volta ad appropriarsi di diritti che non competono loro.

Si tratta insomma di un libro importante, che dovresti leggere e consigliare a tua volta.

clay shirky, jean-jacques kupiec, sonigo pierre


Molto semplice, ben scritto, condotto sulla trama di una gran quantità di esempi, alcuni a dire il vero alquanto abusati, altri poco noti: non è un saggio teorico ma un’onesta e spesso convincente perorazione riguardo al ruolo dei social media nell’allargare le possibilità di socialità-collaborazione-cooperazione-azione collettiva e politica. Non sbilanciato verso l’apologia acritica del mezzo, tuttavia chiaramente orientato a vedere i potenziali positivi presenti negli strumenti e a cogliere il modo in cui l’ambiente umano viene pesantemente riconfigurato dall’uso di massa della rete. Apprezzabile qua e là l’uso di strumenti propri dell’analisi sociologica per comprendere i fenomeni collettivi.

Non è chiaro insomma se il suo ottimismo sia fondato ma è almeno piacevole e spinge ad atteggiamenti positivi.

 

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Secondo gli autori, tutta la genetica moderna, proprio quella scienza che pare mietere successi e allori come piovesse, è in realtà pesantemente anti-darwiniana e quindi anti-scientifica, anzi nei suoi modelli cognitivi, nei presupposti e nelle soluzioni proposte si richiamerebbe nientemeno che all’albero di Porfirio e quindi alla fisica – e alla metafisica – di Aristotele!
Il libro è sottile ma molto denso, vengono discusse molte applicazioni dell’ipotesi in embriologia, in virologia e altro, con possibili soluzioni alternative a quella genetista dominante, oltre a fornire una breve sintesi dei presupposti dell’aristotelismo e del modo in cui, tramite la disputa sugli universali, ha influenzato e influenza ancora oggi la biologia.

Non saprei che dire: a me il libro è parso molto divertente ma forse è per il mio spirito iconoclasta. Sono troppo ignorante in materia per dare un giudizio sensato sui contenuti. Anzi, se qualcuno là fuori ne sa più di me, anche di chi sono questi due scienziati pazzi e vuole spiegarcelo, gliene saremo molto grati.