La storia è riassunta nel titolo. Un narratore collettivo che parla in prima persona plurale rievoca, dopo molti anni, l’ultimo periodo di vita delle cinque sorelle Lisbon, adolescenti e suicide, osservate dietro il filtro dello sguardo di un gruppo di adolescenti maschi perdutamente innamorati di loro, al limite dell’idolatria. Il racconto è anche il resoconto di un gigantesco, sterminato lavoro di indagine che il gruppo di ragazzi e poi di adulti svolge negli decenni che seguono i fatti narrati; totalmente soggiogati dalla figura delle suicide, in parte per venire a capo dei motivi del loro gesto e in parte per eternarne il culto, raccolgono le testimonianze di tutte le persone con cui sono venute in contatto negli ultimi tempi della loro vita, compreso chi ha semplicemente rivolto loro la parola una volta e per caso, e i risultati di questa indagine ciclopicamente assurda nella concezione prima che nella realizzazione, che in realtà il lettore non coglie se non nei suoi risultati, costituiscono l’ossatura su cui si sviluppa la narrazione.
Il tema dell’indagine, poliziesco o filosofico che sia, non è quindi un semplice escamotage narrativo, un trucco per tenere assieme la narrazione in prima persona – nella forma piuttosto risaputa della rievocazione nostalgica di un passato infantil-adolescenziale – e l’onniscenza del narratore, che sa una gran quantità di particolari che un semplice protagonista non avrebbe potuto conoscere. A ben vedere, anzi, questo disperato tentativo di ricostruire il senso dei fatti accaduti/narrati, sembra essere il vero tema del romanzo: un evento perturbante, oscuro, terribile ha sconvolto la vita di un intero sobborgo cittadino al cui centro si innalza l’altare votivo di cinque ragazze apparentemente normali, trasformate dagli eventi, o essendolo fin dall’inizio, in figure dai tratti mitici, in potenze oscure, telluriche, ferine. Questo nucleo, questa urticante origine del significato e della storia che lo dipana, impossibile da maneggiare e afferrare, produce all’istante un’esplosione di interpretazioni diverse e a loro volta intrecciate e mutevoli – non solo quelle dei ragazzi-narratori, titolari del plot, ma quelle di tutte le persone a qualche titolo coinvolte: dai vicini che osservano prima scioccati e poi rassegnati e poi ancora dimentichi la progressione del disastro, ai giornali locali che si gettano sull’evento confezionandolo per vendere copie, alle televisioni nazionali che se ne interessano pigramente e, ovviamente, a tutti i lettori cui la storia viene sottoposta, ognuno dei quali potrà scegliere la sua risposta preferita tra quelle prese in esame: ragazze fragili e disadattate, una madre infernale, la disperazione adolescenziale, la società, i geni bacati, la prigionia, l’emulazione, potenze sovrannaturali, veggenti, iettatrici…
Nessuna di queste interpretazioni, alla fine, si rivelerà soddisfacente per gli stessi narratori, la cui debole rivendicazione – solo noi sappiamo come sono andate le cose – è più la petizione di principio di una setta di adoratori malati che qualcosa da prendere sul serio. Il mistero glorioso di questa vicenda magnetica e terribile e rimane per principio inavvicinabile: qual è il significato celato nei fatti o, meglio, nella narrazione dei fatti? Chi ha la titolarità della risposta? Neppure l’indagine più minuziosa, neppure la ricostruzione più accurata di ogni istante ottenuta consultando tutte le possibili fonti può rivelare alcunché di definitivo. La descrizione di ogni singolo istante trascorso, il resoconto di ogni singolo stelo d’erba del prato, non restituisce una versione autentica ma, al massimo, una registrazione distorta e zoppicante. Quello che può ottenere l’interesse retrospettivo è una versione "realistica". Ma il realismo è il contrario dell’autenticità. Ciò che è autentico, si direbbe, è incomprensibile cioè non è effettivamente narrabile, al punto da non sembrare nemmeno reale. Per chiunque scriva, il realismo è un artificio letterario, un atto di scelta e di selezione, l’effetto della disposizione mirata, tendenziosa, non arbitraria ma nemmeno oggettiva, di alcuni elementi sopra uno sfondo e al cui centro c’è un buco nero.
Le scelte di stile di Eugenides sembrano conseguenti a questo nucleo di temi e al "modo di vedere" con cui sono svolti e tutto sommato, pur non essendo granché elettrizzanti, appaiono almeno coerenti. Scelte di stile garbate, misurate, a volte accorate o assorte, efficaci nella scelta dei tempi narrativi ma senza alcuna concessione a estremismi cinico/pulp – che la materia potrebbe autorizzare – o ad azzardi che vadano al di là di un tono a tratti vagamente ironico e beffardo, pietoso ma disilluso; scelte stilistiche nel solco di un realismo moderato e borghese di vecchia scuola. Anche il sottofondo metaforico che sembra rivelare, dietro il relativismo colto e svagato delle varianti, il richiamo irresistibile di una religiosità assoluta e pagana, contiene una diagnosi niente affatto stupida. Ma non saprei dire se tale referto sia frutto della consapevolezza dell’autore o di un automatismo dello sguardo "ideologico".
Le sorelle Lisbon potrebbero forse svelare l’enigma della loro decisione e sciogliere il mistero del significato. Ma ovviamente sono le sole che non lo faranno mai. Se il culto persiste è perché la divinità si è data la morte. Per questo si può continuare a parlarne all’infinito girando intorno al suo altare, come fa il cerchio di mani delle cinque sorelle che abbracciano il gigantesco totem/olmo morente innalzato davanti alla loro casa, mentre cercano coi corpi di proteggerlo dalla impietosa e stupida sega elettrica della burocrazia e della tecnica che lo abbatterà.