guido mazzoni, mondi della poesia moderna

      

I mondi è una raccolta poetica scritta da Guido Mazzoni e pubblicata da Donzelli.

Guido Mazzoni è un critico letterario. Ha pubblicato in passato alcuni testi importanti, sostenendo una posizione radicale circa la natura e le prospettive della lirica contemporanea, in particolare: Sulla poesia moderna e Forma e solitudine.

I testi poetici raccolti ne I mondi hanno sicuramente un valore autonomo e non necessitano di alcun supporto. Tuttavia è interessante, per altri scopi, provare a percorrere le due produzioni dell’autore e tentarne una lettura intrecciata, quasi in trasparenza.

Nel suo bel saggio Sulla poesia moderna, Mazzoni parte dalle categorizzazioni antiche per individuare la novità saliente della poesia moderna nell’abbandono, iniziato in epoca romantica, delle forme cerimoniali e dei contenuti codificati dalla tradizione, sostituiti dall’esaltazione di un “io” sempre più contingente e individualizzato. Sul piano dei contenuti lo spazio viene progressivamente occupato dalla biografia empirica dell’autore, colta nella misura del frammento irriducibile di realtà capace di condensare significati inediti (con uno stacco importante, quindi, rispetto a un’idea di biografia stilizzata, riassunto coerente di un “sé poetico ideale” con fini rappresentativi ed emblematici, già presente agli inizi della lirica italiana sul modello del Petrarca). Sul piano delle forme, in parallelo, diventa dominante un progetto di libertà espressiva senza freni. Il risultato, almeno a livello ideologico, è la progressiva coincidenza tra colui che dice “io” nei testi e colui che mette la firma in copertina: la poesia diventa libera espressione di un io empirico che parla di sé.

Mazzoni prende a prestito la felice idea di Proust, secondo cui lo scopo della letteratura è farci conoscere infiniti mondi diversi dal nostro, ognuno messo in pagina attraverso lo strumento decisivo di uno “stile individuale” capace di materializzare, nel suo lessico e nella sua sintassi, una visione del mondo idiosincratica; questo è anche il tratto dominante della poesia moderna, ma nella lirica l’ideologia espressivista si presenta a suo parere in forma pura, più ancora che nel romanzo.

L’egocentrismo e il narcisismo espressivo costituiscono dunque per Mazzoni l’essenza della poesia moderna, rintracciabile sia nel filone dominante e centrale, sia in tutti i filoni laterali anche polemici o critici: laddove i poeti tentano di allontanarsi dalla preminenza contenutistica dell’io, verso l’oggetto – che sia di tipo storico, sociale, naturale o simbolico –  lo fanno d’ora in poi utilizzando scritture fortemente personali e opache, lontane dal grado zero della prosa e tendenti all’incomprensibilità, facendo valere il soggettivismo esasperato a livello formale; laddove usino forme piane e più vicine al grado zero, parlano per bocca di un “io” biografico estremamente individuato.

Questa fase eroica non è però duratura. Mazzoni mostra come sempre più, nel Novecento, l’io si presenti come intimamente scisso, problematico. Prendere pubblicamente la parola è già di per sé un atto rischioso, fonte di angoscia da esposizione; ancora di più quando “chi parla” e il suo contenuto tendono a coincidere senza residui. Perché lo spettacolo si regga, occorre una fortissima legittimazione, immediata e indiscussa, una gerarchia delle arti ben codificata come espressione di un pubblico bendisposto, altrimenti l’io che parla verrà sopraffatto dalla propria nudità pubblica e il magistero si tramuterà all’istante in gratuità, irrilevanza, comicità involontaria. È proprio quello che, secondo Mazzoni, accade nella lirica del Novecento: l’autore/personaggio-di-sé si trova di colpo privo di legittimazione, esposto, e reagisce con una serie tipizzata di atteggiamenti: dalla fuga al ripiegamento nostalgico o cerebrale, dalla recita ironica e diminutiva all’esibizione polemica, al grafismo fantasticheggiante e ingenuo che pare rimuovere il problema.

Da un altro ma coerente punto di vista, sono i mutamenti storici a sottrarre ai poeti moderni il  mandato sociale. In pieno Ottocento, la borghesia smette di essere la forza rivoluzionaria che era stata agli albori del romanticismo, diviene forza d’ordine, il che fa precipitare i suoi ideali progressivi – in primo luogo proprio quelli romantici – nel territorio della falsa coscienza; d’altro canto il pubblico sempre ristretto ma influente che garantiva ai poeti un ruolo ancora centrale nella gerarchia della cultura, prima ancora che il sostentamento (la grande borghesia ottocentesca e i suoi intellettuali, eredi dell’aristocrazia del gusto, sostituti  ideale dell’antico lettore colto aristocratico), perde progressivamente importanza nel mondo che si avvia rapidamente a venire dominato da un capitale globale, multinazionale e acefalo, nel mondo delle grandi democrazie e del mercato.

La lirica post-romantica perde il suo mondo, la sua base d’appoggio, la sua legittimazione e soprattutto perde progressivamente il suo pubblico: esplosione del dilettantismo poetico di massa e inabissarsi del pubblico colto e della critica poetica sono due lati della stessa moneta. Nessuno oggi, alla fine del percorso individuato da Mazzoni, legge più le opere di poesia di valore, che pur continuano a essere pubblicate: non lo fanno più i letterati o gli addetti ai lavori, non lo fanno i romanzieri, praticamente non lo fanno nemmeno i critici, non lo fanno  i lettori forti, tantomeno quelli deboli. Solo i poeti – e nemmeno gli aspiranti tali, che si mantengono al di qua della soglia della competenza minima – leggono, oggi, gli altri poeti. Da nessuno degli altri l’ignoranza circa la poesia nazionale contemporanea è percepita come una grave lacuna culturale, cosa che certo non poteva valere cento o anche cinquanta anni fa e che nemmeno oggi vale per i “classici”, cioè almeno fino a Montale.

Quanti sarebbero in grado, anche tra le persone colte, di fare i nomi di almeno cinque poeti italiani viventi?

Questi fenomeni si mostrano nella trama della lirica novecentesca in modo macroscopico: l’io dei testi non sa più come superare la soglia che lo racchiude, né come costruire un’immagine coerente di sé che tenga assieme i propri momenti, né un’immagine della storia in cui collocarsi a pieno diritto. La rottura dei nessi tra l’io e gli altri e di quelli tra presente e passato è totale. La lirica diventa da una parte una litania della perdita e della sconfitta, dell’impossibilità e dell’impotenza, dall’altro una velleitaria ricerca di improbabili coincidenze con la natura, con la storia o con un sovrasensibile di carattere sostanzialmente privato – oggetti ormai sostanzialmente proibiti alla lirica, auto-confinata nel suo asfittico centro: un io indebolito che si avvicina a quei terreni ogni volta con immense difficoltà e con risultati anche suggestivi e manieristicamente stupefacenti, ma inefficaci a confronto delle ben diverse abilità della prosa e del romanzo di appropriarsi di quei temi in modo socialmente rilevante.

Questi ripiegamenti e questi slanci infittiscono i propri giri a vuoto proprio mentre i termini della libertà espressiva concessa agli autori si allargano sempre di più. Dalle avanguardie storiche in poi la lirica accede a un espressivismo totale, al limite – e anche oltre – della lingua privata, del dialetto segreto o, più onestamente, del balbettio. Ma ciò che più conta è che, in questo movimento, l’originale intenzione romantica verso la libertà armoniosa di un soggetto coeso e sicuro di sé, si traduce nella manifesta impotenza del singolo e nella proliferazione di idioletti legati a scuole e a cordate.

L’ideologia espressionista e l’egocentrismo della modernità (sintetizzata negli imperativi “devi essere te stesso”; “devi esprimere te stesso”), proprio nel momento in cui diventa aspirazione di massa, si rivela sul terreno della lirica – la più egocentrata delle arti – nella sua verità storica: non proliferazione infinita di libertà originali, ma falsa coscienza di un orizzonte di monadi alquanto seriali, chiuse nella soglia della propria impossibile autoaffermazione, che si travestono di volta in volta utilizzando le maschere disponibili di “io” ironici, ingenui, vitalistici o pretestuosamente iniziatici, sospese tra l’aspirazione angosciata a un’originalità di fatto impossibile, presa com’è in una rete di debiti che la intesse fin nel midollo, e la realtà del necessario gregarismo delle microscuole e delle correnti promozionali. Un proliferare di micro-auto-legittimazioni di gruppo e di tribù (di “mondi”, dice en passant Mazzoni) vissuta come unica debole àncora di salvezza nei confronti dell’abisso del gratuito e dell’ingiustificato, che si apre quando scompare la legittimazione collettiva. La progressiva conquista della propria voce, feroce iter formativo di ogni poeta moderno, perde i tratti eroici di uno scavo in sé alla ricerca di un grumo impenetrabile e lucente e acquista quelli ben più triviali di un’adesione più o meno consapevole a un mini-set di regole locali prive di un senso che le trascenda, all’interno del quale operare magari minimi spostamenti o apparenti innovazioni. In sostanza, il compito che nell’arte figurativa  è svolto dal mercato dell’arte e nella moda dal gusto, come adeguamento informato a un ritmo di sostituzione che ripercorre i propri termini rimiscelandoli, nella lirica ridotta alla miseria viene svolto dalle microcordate, dalle scuole, dalle poetiche gregarie.

A questo punto, secondo la prognosi piuttosto cimiteriale di Mazzoni, l’elemento “musale” della poesia, la sua “esigenza antropologica”, ridotta l’arte maggiore a lingua morta, non ha alcun motivo pratico di non venir trasferito, come di fatto accade, in un altro mezzo, e cioè nella canzone e nel suo mercato planetario, destinati a soppiantare la lirica proprio come il romanzo, prodotto ingenuo, rozzo e popolare all’origine, grazie all’enorme mandato sociale ricevuto, ha progressivamente inglobato e soppresso tutte le forme narrative precedenti sviluppando capacità riflessive che l’hanno trasformato in arte rappresentativa totale. L’enorme mandato sociale di cui godono oggi coloro che scrivono e poi cantano testi poetici, sostiene in pratica Mazzoni, è del tutto in grado di sopperire alla probabilmente temporanea arretratezza degli strumenti formali utilizzati: il fatto che in gran parte di quei testi sopravvivano “io poetici” di tipo ottocentesco o al più decadente, che nessun poeta “laureato” contemporaneo si sognerebbe di utilizzare senza vergogna, o forme di ingenuo realismo sentimentale o di altrettanto improbabile avanguardismo fuori tempo, il loro anacronismo tecnico, sono poca cosa di fronte alla realtà di pubblici planetari di individui che investono la propria antropologica esigenza di canto interno, di struttura melodica e ritmica, di stupore panico, di riepilogo trasfigurato del mondo e di sé (tutte cose un tempo patrimonio della poesia) ascoltando in ek-stasi (altra categoria poetica) i prodotti culturali del mercato discografico.

***

I temi trattati nel saggio, costituiscono anche il materiale che Mazzoni utilizza nel libro “poetico”. Si tratta di una raccolta in cui, a testi più tipicamente lirici, scritti in una lingua molto controllata, si alternano prose di andamento saggistico. Nei primi, alcuni dei quali davvero molto alti, la lingua utilizzata è quella comune, estremamente trasparente, una lingua media e senza forzature ma non sciatta; la sintassi tende a una forma prosastica fortemente paratattica e il tono è asciutto, meditativo, leggermente attonito: è il tono di una persona (di un io) la cui disperazione sia stata del tutto consumata nel tempo, espellendo dal combusto qualsiasi traccia di rancore o di lotta e in grado di far emergere alla fine una vena di duro struggimento che non giunge mai a pietà o mollezza esplicita. Nelle prose invece il tono appare meno definito, c’è meno tensione, tanto da mostrare una certa debolezza formale: la sensazione è che non si sia riusciti a isolare del tutto i temi autenticamente poetici, facendoli un poco annegare in un esercizio prosastico e contenutistico, laddove però l’urgenza del contenuto troppo potente non si trasfigura a sufficienza e tende a precipitare nel didascalico.

È piuttosto impressionante tuttavia notare come i temi del libro “critico” si travasino quasi letteralmente in quello “poetico”, senza per questo, almeno nelle parti liriche di quest’ultimo, causare crolli. Fossimo in altri tempi, vedendo lo studioso di letteratura fare letteratura, verrebbe  chiedersi se l’io che dice “io” nelle liriche sia proprio Mazzoni, come dovrebbe essere per coerenza con la sua idea di lirica moderna, o piuttosto questi sia l’autore di una trasposizione mimetica e di secondo grado, sconcertante per somiglianza, che mette in scena proprio quella “monade poetica” e la sua falsa coscienza di cui, nel libro critico, delineava con precisione il retroterra ideologico. Ma i tempi sono cambiati, il che non è del tutto un male, è questa ipotesi, suggestivamente iper-postmoderna andrà rimessa nel cassetto assieme alla maglia pesante.

In sintesi, la macchina ideologica che mi pare lavorare sotto la superficie dei testi di questa raccolta può essere descritta così: il primum dell’esistenza – per quanto ne riferisce il personaggio che dice “io” nei testi – è la monade, l’io chiuso in sé; la monade è spinta da una volontà cieca composta da desideri e paure e passa il proprio tempo a cercare un equilibrio omeostatico di convenienza, un adattamento che causi il minor attrito possibile col mondo. Questo strato primario è di per sé essenzialmente muto, sostanzialmente prelinguistico, quindi animale. Se ne deduce l’incomunicabilità tra monadi come dato di fatto. Fanno parziale eccezione alcuni momenti salienti del passato che vengono descritti come di “fusione perfetta” e di “primo stupore”, rivelazioni di mondo (e di mondo autentico) nel suo tratto patetico/sentimentale. La figura prototipo è qui il bambino nel rapporto col genitore-protettore – figura che si deposita per spostamento anche negli oggetti circostanti che la rispecchiano e fanno rimbalzare, smorzandolo, quel nucleo bruciante – o con un fato negativo – l’incidente – che rompe la continuità seriale della monade e la pone di fronte alla possibilità della nullificazione. In questi momenti si situa anche la rivelazione del linguaggio nel suo stato sorgivo, originario, nella sua capacità di produrre parole strettamente imparentate con le cose nominate. Il testo poetico sembra in grado di rievocare in seguito questi momenti di rottura del tessuto della monade, o meglio vive di questa illusione, perché il modo in cui lo fa non pare decisivo: essi infatti rimangono in un “prima” rispetto alle possibilità della parola, che può solo alludervi obliquamente e in definitiva precipitano nell’incomunicabile, il che ciò chiude definitivamente le monadi in un orizzonte di inautenticità.

Di ciò che conta non si può parlare, rimane la chiacchiera e la prosa inautentica dei giorni e delle ore, dei piccoli adattamenti, il loro lavorio muto. Non vale cercare di trascendere lo strato della monade: è impossibile per principio. Ma non vale nemmeno rinnegarla o cercare fughe di tipo personale o altro, che rientrano nel perimetro stesso dei desideri della monade (il desiderio d’affermazione, ad esempio). Occorre semmai rispettarne la dignità, la fatica, la miseria, l’essere povera cosa tanto aperta su un sé vertiginoso e irriferibile, quanto chiusa all’esterno.

Si sente forte una “funzione Houellebecq” (e, dietro, una funzione Schopenhauer) in questa posizione, il che mi pare tipico di un periodo in cui le ragioni “politiche” si sono fatte più pressanti e insieme più confuse ed è più facile slittare dallo storico al sovrastorico, assimilando potere, natura e destino e non riuscendo più a scorgere nel presente l’essenza ambigua e sempre creativa dei conflitti, la cui complessità va perduta dietro l’immagine di muri invalicabili.

È da notare che in questa prospettiva dal sapore vagamente “adolescenziale”, di pre-soglia, appena venata di melodramma, la nostalgia dello stupore infantile e la rievocazione del genitore/matrice non si presentano in una forma di feroce feticismo adulto (come ad esempio in Mari, nei racconti sull’infanzia), ma come un’involuzione, un blocco, un “non aver mai superato la soglia”: traccia di una ribellione accennata ma poi forzatamente trattenuta e castigata. Coincide con una diffusa poetica dell’impotenza, dell’immaturità e del senso di colpa che si respira in molta parte della produzione letteraria italiana recente, probabile trasfigurazione di blocchi storici assai meno vaghi, anzi del tutto circostanziati.

Da questo nucleo si può trarre indicazioni anche circa la struttura dei testi, in cui abbondano le paratassi, gli elenchi e i “come se”, in un linguaggio poetico che sembra mimare la ricerca disperata di irraggiungibili – date le premesse – forme di coincidenza tra parola e oggetto, per principio negate dalla presunta natura preliguistica, dal carattere di residuo di una “fusione” evocata e cancellata nello stesso gesto. Questa fissazione del ricordo infantile che non può venire elaborata, cui è impedito di divenire adulta e nemmeno evolve in crisi feticista, fa permanere il soggetto in un’ansia attonita: se l’io non deborda non è perché abbia trovato una misura, ma perché nemmeno riesce a svilupparsi e perché il “noi” è negato a priori o ammesso solo in forma allusiva, essendo muto il suo terreno.

***

Se c’è da trovare un limite nel testo “critico” di Mazzoni, è forse quello di fidarsi troppo dell’apparato ideologico delle scuole moderne, di non sottoporre a sufficiente critica le pretesa dell’espressivismo. Mazzoni è ovviamente cosciente che pretendere immediatezza espressiva in un prodotto che utilizza pur sempre un linguaggio e dei codici, anche ridotti a gergo personale o iniziatico, ed è destinato a un pubblico, sottintende un paradosso ineliminabile.Ma al di là dei limiti logici, occorrerebbe una critica più specifica, letteraria e storica, della pretesa espressivista, che mostrasse come una distanza decisiva tra l’io del testo e dell’autore sia ineliminabile di principio, non tanto sul piano logico astratto, ma proprio su quello letterario e di conseguenza storico. In questo modo sarebbe possibile rintracciare un’interpretazione alternativa capace di superare il blocco narcisistico e la falsa opposizione tra mimesi ed espressione di sé: anche laddove nel testo parla un io biografico, si dovrebbe parlare non di espressione, ma di piegatura “in atto” su se stesso operata dal corpo dell’autore – a sua volta intessuto di mondo – sul corpo del linguaggio come sua protesi. Il testo può funzionare non quando sia espressione immediata di un io, nel qual caso rimarrebbe per il lettore un resoconto muto di un tu impenetrabile e irrilevante, ma perché l’io è ripiegato e distanziato nel quadrato della scrittura, la quale crea una fessura che separa il risultato dall’elemento di biografia empirica. Solo grazie a questa operazione il lettore può vedere nel testo un io e non un tu, quindi riconoscersi e lasciar agire una sospensione di incredulità. Solo in quanto l’io” diventa personaggio. Il mito dell’immediatezza solipsistica andrebbe mostrato fin dall’origine come ideologico e fuorviante, mai realmente operante nemmeno laddove l’autore lo reclamasse come base delle sue operazioni.

Allo stesso modo, nel testo poetico sembra rimbalzare lo stesso limite presente in quello critico, qui colto sul livello del tono e dell’atteggiamento. Alla visione esposta in Mondi si dovrebbe rispondere che non c’è primum che non sia già “secondo”, cioè mediato, collocato, già destinato; e non c’è primo stupore che non presupponga l’avvenuta distanza e i suoi strumenti; e tale stupore, tale incanto non è mai inafferrabile o indicibile o ineffabile, non partecipa di una distanza che si fallisce ad ogni tentativo, semmai è l’esplosione di sensi che proviene dal ritorno a sé del farsi segno e del distanziare. Infatti si esprime in emozione, cioè nell’ex-movere, nel “provenire da” (nell’esser sempre provenuto, mai primo), come garanzia di una destinazione sempre aperta di sé nel mondo, un “noi” che non va inseguito come chimera impossibile di un oltre-soglia che ci sarebbe precluso, perché è da sempre connaturato a un io che a sua volta non è da superare, perché è da sempre superato e tessuto in se stesso.

***

Questo sogno

Ogni voce torna nel risveglio
quando le forze compresse in questo sogno
sono il mondo che attraverso.
La forma della costa dopo il temporale,
l’odore di pioggia nell’aria, la mano
di mio padre che mi porta
in alto, sulla sabbia,
se lo stupore nomina le cose
e le fa essere davvero,
mare e casa, darsena e spiaggia,
mentre nel sole respiro la mia ansia
quando l’infanzia cede alla memoria
la paura, l’origine delle parole, questo squarcio
pieno di cose che parla del paesaggio
di una mattina degli anni Settanta mentre guardo
il mio volto, nel vetro ancora buio,
apparire tra le nubi. Ricordo
sempre più spesso solo gli atomi compiuti,
la vita presso di sé, così perfetta
nelle monadi dove eravamo veri
per un istante indicibile: il suono
della pioggia sui teli, il vento sulla plastica
mia madre chiude la tenda, tra il fulmine
e il tuono un vuoto indefinibile,
fuori dal tempo di tutti
il mare nitido, noi stessi per un attimo.

9 thoughts on “guido mazzoni, mondi della poesia moderna

  1. credo che qualcosa a 'sto benedetto autore bisogna pure lasciarglielo fare perché provi a dire qualcosa. o cerchi nel senso si provi a cerchiare qualche esperienza propria (che altro?) certa critica tende a mitigare la sua mancanza di stupore incappando negli stessi errori che suppone vengano fatti da chi va a criticare. e qui casca il critico. non so se casca in piedi però.
    un saluto
    paola

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.