Quella sporca metà letteratura

(ricordarsi per la prossima volta: il blog non è fatto per i testi lunghi. Nel caso, regalare un grazioso file pdf stampabile)

***

La cosa più difficile è sempre iniziare, rompere il ghiaccio, varcare la soglia del silenzio (notate il numero tre che ritorna come nelle fiabe, nei ritornelli, nelle cantilene. Ecco che l’ho fatto di nuovo). Certi inizi sono catastrofici, segnano tutto lo svolgimento. Soprattutto quei tentativi di nascondere la difficoltà di iniziare buttandosi a corpo morto nel mezzo della scena, più fingono disinvoltura più mi sembrano fasulli, mal recitati. Quegli inizi da ora te la racconto io, con la manina alzata e il polso slogato, mondanissimo. Quegli inizi simulati, da io ero lì, ho visto, la tragedia iniziò alle ore sette e trentadue. Quegli inizi da sembra che parlo d’altro ma poi te le rigiro, ah come te la rigiro, la frittata. Conosco colleghi che studiano tutte le mossette allo specchio, diomio che personaggi patetici. Si comportano come attori consumati ma la natura limitata dei loro mezzi dilettanteschi balza agli occhi. Mettono su la loro faccia migliore ma è tutto un tremolare di strutture vacillanti. Non c’è come aspirare alla bella forma per farci precipitare nel ridicolo. Io mi baso sempre sul presupposto che una lezione non è la vita, è una lezione. Una lezione ha le sue premesse, i suoi svolgimenti, i suoi epiloghi. Avete mai visto un epilogo allo stato brado, in natura? No, non ci sono epiloghi nella realtà. Né epiloghi né tutto il resto. Quindi entro, saluto nel modo più formale possibile, e poi non faccio altro che enunciare ad alta voce quello che sto facendo: ora esporrò i problemi emersi la volta scorsa, e li espongo, ora passerò in rassegna le possibili soluzioni, e le passo in rassegna, ora mi fermo perché devo raccogliere le idee, e le raccolgo, insomma… Ovviamente i miei colleghi, molto scamiciati, ritengono che questo modo di procedere sia la summa della pedanteria, avanzano critiche di didascalismo, mi oppongono il loro procedere disinvolto, naturale, le loro lezioni en plein air, il loro roboante dispendio di aggettivazione ai limiti dell’orgiastico, pretendono di succhiare il midollo, e mi affibbiano nomignoli poco lusinghieri. Naturalmente nessuno di loro è in grado nemmeno alla lontana di afferrare il senso di due semplici minuti di una mia lezione, gran massa di ignoranti scansafatiche, puttanieri d’aula, vibrafoni dell’idiozia libresca. Lo so perché ho fatto la prova. Stavamo a Roma per uno di quei convegni, mi ricordo che alloggiavamo in un albergo al Pincio, era caro, si mangiava da schifo, e non c’era il frigobar. Il mio cognome italiano tra l’altro non mi aiutava per nulla a schivare la noia senza tregua delle presentazioni, per non parlare delle relazioni supponenti e polverose di certi emuli improbabili. Così in un paio di pomeriggi afosi ho buttato giù e poi fatto circolare sottobanco un testo, che ho spacciato per un saggetto inedito del professor Uttare, sulla semantica del paesaggio letterario italiano. Ovviamente ho copiato tutto dalla guida Routard, mischiando i riferimenti, cambiando i nomi e sovrapponendo brani di un testo di informatica per le medie superiori rubato al figlio del portiere di notte, ragazzo acneico ma scrupoloso. Questi idioti dei miei colleghi sono andati avanti sei mesi a elogiare, magnificare, discutere, commentare, compendiare quella paccottiglia. Per dire i soggetti.
Ora devo fare mente locale perché non so come cominciare e mancano solo quindici minuti all’inizio. Per arrivare in aula devo percorrere tutto il parco, circumnavigare il sommerso palazzo della biblioteca, dico sommerso perché oltre ai due piani visibili il suo maggior sviluppo sta nei cinque invisibili piani sotterranei, un vero labirinto infinito, il quartier generale della divagazione fatta edificio (qualcuno pretende che ci sia gente che ci vive in biblioteca, letteralmente, da anni, gente che non esce nemmeno di notte per via del caro affitti della zona. Ci abita insomma. Di giorno simula interessi studenteschi e libreschi soggiornando nei lunghi pertugi stipati di ogni sorta di materiale culturale mondiale, caracollando qua e là, confondendosi con la fauna locale di giovanotti industriosi leggenti riviste di astrofisica, di meravigliose e atletiche studentesse immerse in tomi post-strutturalisti, il capello biondo a tendina chino sulla pagina per scoraggiare l’abbordaggio professionale, accucciate nelle strettissime scrivanie incassate nei corridoi, o mischiandosi con professori di mezz’età stravaccati sui divani e infine gemellandosi in prospettive visive impercettibili con timidi e coltissimi studenti indiani che ardiscono togliersi le scarpe da ginnastica sotto il tavolo di lettura. Di notte, quando l’ora si fa tarda e cambiano i turni degli impiegati addetti al prestito o al trasporto di pile di edizioni economiche su certi stretti carrelli metallici, nessuno li vede più, costoro, ammesso che qualcuno li avesse notati, o distinti prima; sembra si occultino nell’ombra – a dire il vero inesistente visto che l’illuminazione artificiale rimane identica per tutte le ventiquattro ore – tornano ai propri nascosti giacigli, a ipotetiche attrezzate cucce da notte, a recessi sconosciuti nel corpo enorme e silenzioso dell’edificio. Sempre che non sia la solita leggenda metropolitana. Io in quattro anni non ne ho visto nemmeno uno, anzi una volta ho visto alcune tracce se così posso esprimermi ma dato che non sono un segugio, non amo la caccia al colpevole, non subordino tutto il mio piacere all’ossessione paranoica di mettere in fila tutti i fatti per giungere all’unica soluzione possibile anche perché l’unica soluzione possibile, il regno del bene o del male assoluti, non esiste, allora ho preferito formulare un fascio di ipotesi tra cui quella del fricchettone imboscato tra gli scaffali non era la più accreditata e quanto alle altre preferisco tenerle per me). Poi oltre la biblioteca c’è da percorrere il colonnato, infilare il portone in legno di quercia intagliato con gli emblemi dell’ateneo, della città, dello stato, fare i due piani fino alle aule del terzo anno e finalmente…
Mentre lo costeggio osservo il grande prato antistante la biblioteca: attualmente vi soggiorna la consueta fauna di giovanotti prendisole, virgulti della nostra futura classe dirigente che ammazzano il tempo della migliore vigoria fisica a scolpire l’addome e a tornire il gluteo, mentre l’aria primaverile è attraversata dall’aroma chimicamente alterato di abbronzante al cocco. Nel complesso la scena si approssima all’immobilità. Il campus a quest’ora di mezza mattina sta ancora smaltendo il vasto circuito di festini in camera e di tornei di minisoccer che ogni sera imperversano negli spazi comuni dei vari edifici, con annesso consumo di alcool e cannabis sativa e sviluppo di tresche più o meno amorose modello serial tv, lei, lui e i loro amici in un campus del Maryland nei violenti anni ’90. Fortunatamente il viottolo di transito pedonale percorre il prato defilato sulla sua sinistra, guardando l’edificio basso della biblioteca, così che posso facilmente evitare di incrociare Mark Harris e i suoi tormentosi problemi con la semantica chomskiana che mi affliggono ogni martedì e venerdì pomeriggio.
Al momento la sua testa riccioluta sta girata di 35° dalla parte opposta rispetto alla mia linea di transito, in perfetto allineamento con la schiena nuda dell’avvenente Janet Mitzer, a quanto pare la più promettente allieva nel corso di scrittura creativa del giovane professor Asher Ben Innom, a sua volta uno dei più controversi e brillanti scrittori emergenti del paese, in visita quest’anno qui da noi. La Mitzer ha consegnato per l’esame di metà corso un racconto dal titolo Tentativi ragionevoli, perdite collaterali. Che nonchalance. Sessantatre pagine. La Mitzer scrive con lo stesso stile con cui gioca a tennis, battuta, diritto, lungolinea, volée, punto, con la stessa naturalezza con cui ruota la testa per guardarti con l’aria di chi può trapassare la struttura epidermica e catalogare con precisione lo stato degli organi interni, con lo stessa atletica svogliatezza con cui cammina, si siede, prende il sole, si cosparge le lunghe braccia di protezione totale. Scivola, oleata, dentro la struttura liquida della sua esistenza che non le oppone alcun freno, alcuna difficoltà accessoria. Non c’è che l’indolenza del suo corpo che, verificata l’esatta uguaglianza di azione e successo, possa farla precipitare nell’inerzia, nell’assenza assoluta di significato. Tre set a zero o nessun set, sessanta pagine o nessuna pagina, o le due cose assieme. Sprofondare.
Il povero Mark ovviamente non ha alcuna speranza di cingere più da vicino e con i suoi arti superiori questa che i disinformati ritengono la più quotata aspirante promessa del nostro ateneo (poiché lei non aspira proprio a nulla che già non possa avere e una promessa non sa cosa sia), non più di quanto Ben Innom ne abbia di superare il confine che separa il tormento creativo dall’approvazione dell’establishment politico che regge le sorti dell’apparato militar-culturale, il giro grosso, i magnaccia. Ad ognuno il suo fallimento, in catena.
Lupus in fabula, è il caso di dirlo, ho appena percorso tutto il viottolo sotto gli alberi di gimko e doppiato l’angolo ovest della biblioteca che mi trovo di fronte proprio Ben Innom e il suo sguardo torvo. Il ragazzo è uno di quelli che crede al contagio della serietà e al potere salvifico dei caratteri mobili. In altri termini egli strofina il palmo sulla pagina scritta e si aspetta di riceverne in cambio una definizione circa la propria posizione nel mondo. Un realista al contrario, prima inventa poi cerca di assomigliare alla propria invenzione. Si industria di allestire le sue macchine di serietà e di venirne rispecchiato come colui che è quel che appare. Per quel che ne so brucando la risma impiombata ciò che si può contrarre è al massimo un bel cancro gastro-esofageo.
– Oh, professore, ha poi letto quel testo che le ho inviato per mail?
– Eh… (simulo, ho i minuti contati)
– Si ricorda, quel progetto di ricostruzione psicocazzica del megatrone storico della situazione politica interiore… (per me può anche aver detto davvero queste parole, non lo sto ascoltando, sto seriamente pensando a come iniziare, iniziare è il vero problema, altro che psico-coso, iniziare, iniziare, e poi proseguire, anche questo è un bel problema, in questo mese m’è capitato tre volte di iniziare e giunto a un terzo del percorso di impantanarmi, non riuscivo più a capire dove volessi andare a parare, tutte quelle varianti da considerare, quelle biforcazioni, quelle gemmazioni, di colpo non ho trovato la forza, la spinta, non coglievo lo scopo, insomma perché questo e non un altro, perché concatenare così invece che all’opposto, dove sta il disegno complessivo, quello che inquadra il senso di ogni singolo atto? Perduto. Sono rimasto lì a fare da palo alla cattedra mentre sentivo il brusio salire dall’aula, sospettavo lo sconcerto, o per lo meno la sorpresa, ma forse si trattava di brusii di conferma di sospetti preventivi che stavo avallando oltre la mia volontà, brusii in fase di decollo, chiacchiere aperte, movimenti, spostamenti, che si sono fatti più pressanti fino all’acme dello sbandamento generale di arti in libera uscita rapidamente riordinato nel frastuono monotòno di una marcia intruppata lungo gli assi di svuotamento e che in breve si è spento. A quel punto sono rimasto praticamente solo se escludiamo Mark Harris che avvicinandosi ne ha approfittato con la solita richiesta di precisazione chomskiana e una coppia che dedicandosi in modo scientifico all’accoppiamento nelle file alte non si era accorta di nulla. Mi chiedo se si trattasse di nuovo della Mitzer, il che renderebbe piuttosto claustrofobico il tutto) …insomma la situazione è grave lei ne conviene.
Io convengo con qualsiasi cosa e sono aperto a tutto, così gli stringo la mano, gli do un paio di pacche sulla spalla incitandolo a non demordere, a insistere, lo blandisco alludendo vagamente all’importanza di qualcosa che presumo lui abbia scritto o detto, la forma, la Forma, quanto conta la forma altro che sentimenti opinioni azioni conta la forma, tutto si fa per la forma. Per un noto fenomeno di isteresi dei campi magnetici lui rimbalza dalla sua precedente serietà molto compresa dei problemi del mondo all’attuale vanagloria e si trova quindi spiazzato, arretra di un passo circonfuso di gloria e io ne approfitto per infilarlo sulla sinistra e salutandolo lasciarlo sul posto. Perché se c’è una cosa che dobbiamo riconoscere all’esimio collega professor Roman Uttare è la rispolveratura degli agelasti, di cui drammaticamente non parlava più nessuno. Una setta più temibile di Dianetics, che non trova freni adeguati solleticando come fa l’universale aspirazione alla maturità, alla serietà, al nascondimento del culo naticoso e quindi anche al nascondimento di se stessa e del proprio potere. Gli agelasti sono ovunque, negli emergenti e negli affermati, nei padri della patria e negli scarmigliati lottatori per l’occultamento del proprio culo, nei vati e nei profeti di sventura e in generale in tutti coloro che hanno qualcosa da dire e ahinoi lo dicono. Ora però comincio a temere di avere contratto dei superpoteri di evocazione perché i due figuri che intralciano lo svolgimento già problematico del mio cammino ossia il mio avvicinarmi all’inizio e ai suoi problemi, proprio all’angolo nord del colonnato, non sono proprio Roman Uttare in persona, l’universalmente noto autore de Arriva! L’era del compratore, e il collega Caius Fittipaldi, che gli saltella intorno come un rospo? Tendo sempre a dimenticarmi che Uttare è svedese, senza questa informazione si fatica a capire di chi stiamo parlando. Come posso averlo evocato fin qui dalla natia Svezia, la terra dei Nobel e dei mobili componibili? Se si tratta di un fantasma della mia immaginazione sovraeccitata posso tentare di passargli attraverso, sperando di non rimanere invischiato nei suoi fumi paludosi. Va bene gli agelasti, ma gli inizi, i cominciamenti, dove li mettiamo? Sarà qui per qualche convegno di cui ho perso la nozione. Dev’essere così. Senza dimenticare i finali, quelli sono un cruccio anche peggiore. Mi riesce sempre più difficile terminare tutto entro l’ora stabilita. Certe volte mi capitava di lasciare alla fine le faccende decisive, che nel mio progetto dovevano illuminare a ritroso tutta la lezione, ma poi mentre stavo per dare il colpo di grancassa e pompare nella cornamusa per dirigermi come un sol’uomo verso l’accordo conclusivo, questi si alzavano in coro e intonavano la marcia finale, il de profundis per suola e ciabatta e scalpicciando abbandonavano il teatro essendo scoccata l’ora X. Così ci si industria. Si inventano falsi finali, si retrocede il finale a tre quarti e poi si infilano zeppe o si finge di ricominciare, chi vuoi che se ne accorga, i più ti ascoltano a pezzi, a parti, la testa ciondolante, le braccia nell’abbandono sgraziato e la bolla al naso, e peggio ancora ricorderanno solo parti di quelle parti, è tutta una gran fatica inutile. Oppure per sicurezza si comincia dal finale, si chiudono i conti subito e poi si tirano le fila delle premesse, li si stordisce con l’anticausalità, chissà che qualcuno colga il verso satanico quando si tira il collo della forma e lo si gira all’indietro, un trucchetto, come si capisce. Dunque Uttare. Dunque Fittipaldi. Mentre mi avvicino sento costui che squittisce.
– Oggi si tratta solo di vendere, vendere e promuovere. Ma che differenza c’è per esempio col ramo assicurativo? Nessuna. Capisce?
Se allungo il passo forse li trapasso e sono salvo.
– Sì, ma vediamo. perché dovrebbe esserci differenza? In quel che lei dice, caro Fittipaldi, pare implicito un tono dispiaciuto, come di chi pianga una caduta. Ma chi lo crede più? Lei si illude se pensa che qualcuno assegni a noi un ruolo superiore. Lei sogna come sognano i filodrammatici, gli aspiranti, i vati tormentati.
– Mah… Insomma, ci dimentichiamo di Zabriskie, di Tendrenis, di Gonosi, di Upperal, di Siller?
È affranto altrimenti non sarebbe ricorso alla litania dei santipadri.
– Ognuno di loro sapeva bene quanto le sto dicendo. La nostra è attività di valore e tipo non differente da ogni altra, e a volte anzi inferiore. Essa convive con la propria trivialità, con l’esibizione, e se ne vergogna. Perché mai dunque dovrebbe differenziarsi dalla generale attività del mondo, e dai modi in cui esso sussiste effettivamente? Forse, questa è malizia, perché è nata con la divisione del mondo in potenti e impotenti, così che i primi si potessero dedicare a faccende superiori ed elevate schifando la feccia delle faccende domestiche di cui si occupa il volgo? Di questo sentiamo la mancanza?
– No, no, solo noi, solo la vera lingua può salvare e giustificare la lingua comune ormai perduta e alienata, può restituirci un mondo non infettato.
Sono a trequarti e ancora non mi hanno visto. Possibile? Forse si tratta proprio di spettri, o io sto sognando. Forse sono ancora nel mio letto, la sveglia non è ancora suonata, sul bordo della coperta i ricami ingaggiano la loro battaglia, quelli di destra si impennano di passione seguendo la piega circonfusa di rossore intorno al mio braccio sepolto, quelli di sinistra si chinano avvallati e si sparpagliano lungo il bordo scosceso del copriletto, il silenzio mattutino è qua e là percorso da fremiti,  il termosifone che si avvia, il frigo che ronza. No, se fosse un sogno niente impedirebbe ai sognati di vedermi, mentre sulla capacità di interlocuzione di uno spettro coltivo ancora dei dubbi.
– Noi siamo l’infezione, mio caro, non la cura. Siamo nati nella divisione e proprio nell’astrarci riveliamo tutta la nostra implicazione. Stupirsi perché oggi alla buonora cade il velo della compromissione vuol dire essere troppo abituati a sognare. Quindi nessuno stupore. Semmai è proprio cercando una diversa intimità colle faccende umane che forse qualcosa di tutto ciò potrà darsi un futuro.
– Questo è distruggere! Noi diciamo verità che solo noi possiamo dire.
– Dunque me ne dica una.
– Non posso! Non posso!
– Eppure lei ne ha pur dette finora, o pretende di averlo fatto, sono dunque senza valore?
– Lo nego, lo nego decisamente!
– Ciò che facciamo, caro mio, è solo inutile prolissità. La maggior parte di ciò che diciamo può essere adeguatamente esposto in tre righe senza alcuna perdita essenziale e il resto è pura zeppa, pura imbottitura. Quanto è sovrastimata l’inutile e snervante fatica di chi passa il tempo a riempire di inutilità tre semplici righe? E tutto questo interesse per la testa! Lui pensa, lei pensa, lei si aspetta, lui ama, loro odiano, allora dice, allora risponde.
– Ma no, ma io
– E i matrimoni, lui è divorziato e la sua ex che fa? lui conosce lei, lei parte soldato, l’amore e le guerre, uh che dolore, anche ai piedi, e i parenti stretti in un angolo, quand’era bambino, così carino, lo seguiamo finché marcisce, e il triangolo, il quadrilatero e le figure poligonali che si sovrappongono nella noia più mortale, se c’è uno presto fruttifica un altro e poi un altro sulla scena, eccoli lì, nella penombra così domestica, maneggiamoli come statuine, e tutti che pensano, fanno, ora questo ora quello e tutto questo ciarpame che si estende identico in ogni testa del mondo elevato al rango di verità di pubblico interesse. Ma non si indigna lei, non le ribolle il sangue dal disprezzo?
Non mi hanno visto, non è incredibile? Li ho superati indenne. Non sono loro gli spettri, sono io, io sono invisibile. E mi sono anche fermato, ho rallentato, ho strizzato l’occhio al vecchio svedese. Niente. Inutile, non vedrebbero un esercito in marcia a due passi da loro, la colonna degli autoblindo e delle jeep, le salmerie viaggianti, il milite che salta giù e raggiunge di corsa il camion che lo precede gridando un ordine incomprensibile nel frastuono, nel fango che si frulla il rombo dei mezzi pesanti e cingolati che issano ognuno il proprio cannone a stendardo, la fiumana dei fanti impilati e da ogni bocca il refolo di fiato che si condensa in gocce gelate, a perdita d’occhio. E loro lì, immobili come paracarri a spolverarsi la giacchetta e a rinfacciarsi accuse di scarso realismo.
Già che ci sono ne approfitto e chiedo un passaggio a un ufficiale in sidecar. La sua divisa è impeccabile malgrado la scena si presenti confusa e tenda a franare leggermente, qui sulla destra del nostro campo visivo, dove i due fatti, entrambi inoppugnabili, si contendono il diritto alla citazione. Onestamente non so decidermi, mi trovo spiazzato. Non c’è una ragione sufficiente perché debba condannare all’oblio una possibilità così insperata come un’avventura guerresca del tutto inoffensiva, la tentazione di seguitare ad accumulare alla rinfusa, la mortale tentazione di procedere a braccio lasciando che fruttifichi da sé, un fatto dietro l’altro, automatica e prevedibile nella sua inverosimiglianza, infaticabilmente divertita. Così taglierei il nodo dell’inizio una volta per tutte, per non parlare della fine. Mentre sto lì con un piede nell’alloggiamento e mi chiedo come andrà a finire e se l’ufficiale intenda farmi viaggiare restandogli in braccio, nella calotta del sidercar così domestica e calda ripiena com’è di coperte e paravento, il suo sguardo fiero tremola sotto l’effetto della leggera distorsione, ma il suo saluto senza parole è più che cameratesco, sottintende una fratellanza di destino che va al di là della comune origine nazionale o del dovere di proteggere il suolo natio o dell’onore che così adeguatamente stira la sua giacca in pieghe precise, compilate al millimetro. In sogno capita alle volte che un volto sconosciuto riveli dei tratti che ci sono profondamente familiari: in sogno sappiamo che quello è nostro fratello o nostro padre anche se il suo profilo non ha niente a che fare con la realtà anagrafica, è il padre che la nostra emozione più lontana ha fantasticato, il volto di una riconciliazione mai avvenuta, di segreti cui avremmo voluto essere messi a parte. Forse è la forma incarnata dell’amore che nostro padre provava per noi quando eravamo lattanti, che abbiamo scorto sul su viso allora e che mai lui ha saputo e noi ricordato, tanto era incomprensibile, fuori categoria, letteralmente insensato. Infatti è probabilmente lo stesso viso trasfigurato che volgiamo a nostro figlio, incerti che lo possa vedere dietro i nostri tratti casuali, disposti così come viene, un naso qui, gli zigomi colmati fino a un punto x (perché non di più? Perché non quei due millimetri che distinguono il mostro dall’eroe, la bellezza dall’insignificanza?), l’occhio in tre parti uguali, secondo una legge di parentela che li fa più simili a un gioco di destrezza che formati a dovere, senza recare alcuna scritta certa, amorevoli tratti carnali goffi e innocenti di tutti, passeggeri e mortali.
Sto prendendo una brutta piega non c’è alcun dubbio, direi che sto precipitando nell’infinitamente piccolo. Cerco un ultimo colpo per far proseguire ancora la curva del mio andamento verso l’inizio prima che si inabissi definitivamente in un fallimento prematuro: in certi casi è meglio far affidamento sull’inerte stupidità del corpo e dell’abitudine, ad esempio quella delle gambe di muoversi.
Ora l’ufficiale ha il grugno del professor Uttare che da due centimetri mi osserva i pori del naso.
– Professore, non è un po’ tardi per queste divagazioni? Io la seguo finché stiamo su un terreno solido, fondato, ma questi svarioni, insomma, sono del tutto datati, e inconcludenti. Lei sembra non avere alcun piano, e passi, ma abbandonarsi così a questo languore senile, così non si va proprio da nessuna parte.
Mi sta parlando, questo relitto postmoderno, questo anziano così giovanile dalle carni secche e molli, ma io ormai sto immaginando tutt’altro e le sue parole mi arrivano smozzicate, fruscianti, come il giornale radio del vicino d’ombrellone quando te ne stai sdraiato ad occhi chiusi e i rumori intorno si stemperano, si sfarinano collocandosi ognuno all’incrocio esatto di un diagramma immaginario al cui centro stanno le tue orecchie adagiate al suolo, una per parte, nel fruscio della sabbia che scivola granello dopo granello verso il centro del mondo. Davanti a me, con la consistenza di un miraggio, c’è la porta dell’aula, e io mi osservo mentre sto afferrandone la maniglia squadrata, sto ruotandone l’asse che non oppone che una leggera resistenza metallica, il perno imbullonato che si infila nel corpo di legno fa per torcersi. Qualsiasi cosa ciò significhi, o non significhi, questo è un ingresso, un punto di entrata. Il palco si sta per aprire, oltre questo punto infinitamente vuoto, infinitamente sottile, tutto è sul punto di iniziare.

(continua indefinitamente)

8 thoughts on “Quella sporca metà letteratura

  1. Bello tutto, ma il pezzo folgorante per me è:

    Non c’è come aspirare alla bella forma per farci precipitare nel ridicolo. Io mi baso sempre sul presupposto che una lezione non è la vita, è una lezione. Una lezione ha le sue premesse, i suoi svolgimenti, i suoi epiloghi. Avete mai visto un epilogo allo stato brado, in natura?

    [e qui ti faccio tanto di cappello, e mi concedo un applauso a scena aperta]

  2. Letto, mi unisco al coro di apprezzamento. Ho gradito meno, qua e là, certi scivolamenti (forse necessari) nell’estremo giudizio personale (qualcosa che mi pare abbia a che fare con la gioventù d’oggigiorno, perduta e imbarazzante), ma è questo un pezzo che lascia svuotati e appassionati.

    E’ anche una lezione stilistica: il discorso sulla bella forma mi trova partecipativo. Ne sono stato ossessionato in “gioventù” (ho tuttora 26 anni, faccio ancora quasi parte della combriccola; questo per spiegare le virgolette) e qualche volta ne pago le conseguenze.

    Qualcosa che tu sollevi e che io ancora mi domando è: se concordo con la non esistenza del bene assoluto, qualche volta mi pare di riuscire a catalogare il male assoluto. E’ un errore grave?

    Grazie per la lettura, in bocca al lupo per il prossimo Inizio.

    [Ste]

  3. grazie per i complimenti, ste, e per l’inboccaallupo

    ti assicuro però che “l’estremo giudizio personale”, se c’è, è piuttosto dissimulato. quello che sostengono i personaggi non devo condividerlo per forza anch’io (anzi imo se un pezzo funziona è perché il meccanismo che lo muove non è ben visibile – il che è curioso detto di questo pezzo, per sua natura molto “esoscheletrizzato”).

    Debbo quindi dirti per coerenza che della gioventù d’oggi, credo non più perduta del solito, così come del bene e del male assoluti, non so veramente nulla 🙂

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