michele mari, fantasmagonia

Fantasmagonia è una raccolta di una trentina di brevi racconti, in genere non più lunghi di quattro o cinque pagine, più spesso di tre. Ce n’è un paio di una decina di pagine e uno di venti.
In ognuno di questi brevi scritti vengono evocati personaggi di altri libri e non di rado anche i loro autori, da K. a Salgari, da Omero a Borges, da Pinocchio a Byron, dal kraken a Machiavelli ad Alice delle meraviglie a Folgóre da San Giminiano a chi volete voi: ce n’è a dozzine. Con questo materiale e l’aggiunta di vari Signor Nessuno contemporanei Mari costruisce brevi fuochi d’artificio verbali, neostorie, colpetti a effetto, ventriloquismi, presunti dietro le quinte, vere finzioni, finti retroscena, miscele temporali e altri giochetti e nel giro di poche righe confeziona le sue piccole macchinette narrative a soluzione finale, il cui tema è quasi sempre il tema, come scriveva una volta Magrelli, cioè la scrittura stessa come fantasma dotato tuttavia di un imbarazzante effetto di realtà nonché – si parla sempre di sé parlando d’altro ma anche viceversa – il caso, la beffa, la natura del potere, la paura dei mostri, l’infanzia o altre faccende così. Una cosmogonia fantasmatica o anche una fantastica agonia, volendo.

Con dimensioni medie come quelle descritte, tre o quattro pagine a pezzo, è evidente che il realismo narrativo non può che venire meno (*) a favore di un’intenzione del tutto diversa.
La fenomenale abilità formale di Mari e la sua ispirazione manierista, che in altri suoi libri più o meno riusciti si mostra come calco – La stiva e l’abisso – o come impasto  – Tutto il ferro della torre Eiffel – o come schermo anti-sentimentale – Tu sanguinosa infanzia e il suo indimenticabile feticismo della perdita –  o in altri modi ancora, qui ha la possibilità di sprigionarsi in forma di puro gioco. L’intenzione primaria di questo libro, sono giunto infine a pensare dopo uno sforzo considerevole per le mie capacità mentali, mi pare infatti quella ludica.

Non parodica alla Malerba, altro imitatore di fantasmi (se proprio vogliamo c’è il modello della storia di spettri con colpo di scena finale, ma giusto come allusione) e nemmeno esageratamente metanarrativa in senso ideologicamente programmatico, per quanto tutto, qui dentro, sia metanarrativo, ma proprio autenticamente ludica. Forse ludico-tragica, a dar retta a certe impressioni che restano nella testa del lettore, ma in modo appena accennato, come un’allusione che non diventa esplicita. C’è indubbiamente qualcosa di Calvino in questo approccio allegorico e antimimetico alle storie, per non dire del modello alto cui Calvino si ispirava in quella tarda fase della sua opera, ma senza l’estenuazione della posa calviniana, con più corpo e con lo spirito del surreale e un po’ gratuito divertimento di un narratore per bambini, di un Rodari per adulti e meno scemo, se mi posso permettere.

Si potrebbe tranquillamente terminare queste righe senza notare che, se la qualità della prosa è sempre eccellentissima, restano i dubbi sulla diseguale originalità delle trovate che congegnano ogni singolo scritto, che se qualche volta esplodono il lettore in una risata ammirata (esplosioni sommesse naturalmente, interiori: siamo pur sempre lettori pubblici su pendolari vagoni da treno), altre volte producono al più un sorriso o un blando stupore.

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(*) Non sono un esperto di letteratura quindi una serie di racconti così brevi la ricordo solo in Carver. Il che dovrebbe smentire la mia affermazione secondo la quale la brevità estrema non si addice alla narrazione di tipo realistico, poiché Carver passa per un minimalista, cioè per un realista del minimo. Sempre che invece Carver non sia invece uno scrittore sostanzialmente astratto che finge di fare della mimesi del reale. Ipotesi che sposo per coerenza con il me stesso di sopra.

la vita apparente degli scarti

A quanto pare la vita non assomiglia alle storie raccontate, tranne rari casi. E non solo perché nelle storie, in genere, succedono cose più interessanti che nelle nostre vite. Naturalmente si intende la vita media, di tutti i giorni, fatta di minuti, di ore e di occupazioni per lo più banali. In questa vita non ci sono prologhi, sviluppi ed epiloghi bene ordinati. Le agnizioni sono rare, per lo più senza pubblico e si svolgono semmai davanti allo specchio, in certe mattine, quando ci confessiamo coglionaggini che speriamo note a noi soltanto. Il climax dell’esistenza media in genere è tiepido, mentre l’anticlimax è così la norma che non fa più notizia. Non c’è un punto focale ben definito, un occhio che segue e discrimina le azioni che contano da quelle irrilevanti, nemmeno vagante o multiplo. Quanto alla voce: in confronto alla realtà i dialoghi di Altman sono chiari e cristallini e quelli di Beckett pregnanti e ricchi di senso. E poi la successione degli eventi non segue una curva ben disegnata ma piuttosto un saliscendi frantumato, quando non una linea piatta. A volte persino il concetto di “successione di eventi” pare del tutto fuori luogo: qualcosa “succede” davvero a qualcos’altro? O tutto quanto non è piuttosto una sterminata e simultanea ed eterna modulazione di fantasmi, di pseudo-azioni senza un vero agente, incapaci di uscire da sé? In realtà non compare nessun agente, il che getta seri dubbi anche sulla possibilità che ci sia un autore (oppure serve un autore proprio per retrodatarci come agenti, nemmeno troppo segreti?). Nella “vita vera” – ammesso che esista e se ne possa parlare come di qualcosa che sta prima che, appunto, se ne parli o se ne scriva – non si ode alcun tono uniforme, alcun “rumore sottile di prosa”, fosse anche volutamente dissonante e consapevolmente alterato, piuttosto una cacofonia di impressioni e di coloriture incongrue, un pasticcio di tinte che tende a un uniforme e sgradevole marrone scuro. Quasi mai si scorge il senso della vicenda e non si intende una morale, ma almeno un vago significato estraibile dall’aver di fronte un quadro dotato di una coerenza interna: nessun quadro, nessuna coerenza, nessun significato. I significati nella vita sono ex post e in genere si tratta di ricostruzioni velleitarie e interessate, pure reinvenzioni del passato ad uso proprio. L’esperienza della vita quotidiana di ognuno è più simile a quella di una nebbia sfrangiata e densa, qua e là rischiarata da attimi di illuminazione, da scelte fortunate o oscurata da precipizi di sconforto, che non a un disegno eseguito con perizia e mano ferma.

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quattro quadri milanesi

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Un giorno di agosto del 1967, intorno alle sette del mattino, una Fiat 850 imbocca via Sant’Elia e costeggia rumorosamente la collina detta “di San Siro”. Angelo, al volante, sta raccontando al maggiore dei suoi due figli, di anni sette, l’origine di quella singolare gobba di prati ingialliti che si alza appena sull’orizzonte milanese sterminatamente piatto, di rado sorvolato da svincoli autostradali e palazzi di nuova costruzione.

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socialino, mon detour

di Daniela Ranieri e b.georg

 

IL VOLENTEROSO
Il volenteroso vuole capire. I temi che il volenteroso si sente pronto ad affrontare, e le cui spinose conseguenze pone sotto gli occhi di tutti noi, spaziano tra
: gli aspetti tecnici dell’omosessualità, le leggi di indeterminatezza 1 e 2, le disposizioni europee in materia di trattamento sanitario gratuito dello scolo, chi si ricorda come reagì la sinistra parlamentare alla proposta dei verdi di bonificare la metro nel tratto Anagnina-Sub Augusta? Voi come lo fate il pesce capone, con l’aglio o con la cipolla? È arrivato il momento di capire la differenza tra fusione e fissione nucleare, non siete d’accordo? I suoi thread raccolgono centinaia di commenti di gente che vuole capire o aiutare a capire, con modestia, con umiltà. Leggendoli tutti ci si può avvicinare a farsi un’idea abbastanza precisa, anche se generalmente non del tema trattato.

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tom wolfe, il falò delle vanità

 

Ascesa e caduta di un antiaereoe del nostro tempo, causa progressivo stritolamento negli ingranaggi della società. Bonfire è un bel romanzone di sapore vagamente balzachiano: qui l’ascesa a dire il vero è già avvenuta quando la storia inizia, ma l’acutezza e il realismo privo di qualsiasi illusione con cui i meccanismi sociali vengono descritti (ambizione, invidia, meschinità, vanagloria, cinismo, sopraffazione, tradimento, menzogna ecc), la costruzione di veri e propri “personaggi tipici” e l’attenzione conseguente a disegnare ritratti psicologici non idiosincratici, ma invece coerenti con il quadro generale e con le forze da cui i singoli sono mossi piuttosto che da “moti interiori”, paiono rispecchiare molto da vicino quella distinzione tra tipicità e medietà che, secondo Lukacs, smodato ammiratore di Balzac, distingueva il grande realismo dalle scivolate nel naturalismo e relative debolezze.

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sono libero, scelgo a cazzo di cane

La lista delle mie incompetenze è sterminata. Non so nulla di matematica liscia o applicata, nulla di economia, niente di chimica o di microelettronica, sono digiuno di giardinaggio, di solfeggio, di meccanica dei fluidi, di cinema russo, di futbol americano, di pastorizia e avicoltura. Ho una solida incompetenza in fatto di giurisprudenza, di sociologia urbana, di moda pretaporté, di come si cucina il soufflé e non so niente di niente di vulcanologia. Potrei continuare un giorno intero: le cose di cui non so niente sono un vasto impero di cui persino fatico a conoscere i confini. E naturalmente non so niente di fisica nucleare, di ingegneria e di tutti i rami annessi e affini.
Se fossi astratto dalla mia identità e mi si chiedesse: «Chi sarebbe bene decidesse di politica energetica nazionale e di energia nucleare?», io direi, che so: Rubbia? Rubbia secondo me ne sa. Sempre che tra Rubbia e colleghi non nascano problemi e divergenze, intrighi, altrimenti siamo di nuovo nella nebbia. «Ma non vorresti che a decidere fosse uno che ad esempio non sa niente?» Ecco, onestamente no. Di uno come me, non mi fiderei tanto. Io non mi farei decidere. Anche se, lo ammetto, sarebbe una ben grave decisione.

Intendiamoci: non sono del tutto coglione, ne so anzi quanto voi, ho letto i giornali, internet, le ho fatte tutte le discussioni da bar. E ho tutta una mia formazione politico-ideologico-sentimentale che mi ha portato già una volta a compulsare furiosamente tutte le fonti di se-dicente informazione e di conseguenza a esprimere un voto diciamo così ragionato, un’opinione, che si rivelò in quel caso piuttosto condivisa. E di cui non ho avuto modo di pentirmi in seguito (anche se è legittimo il dubbio che non mi sia lamentato a causa dell’ennesima ignoranza, quella circa il rapporto tra le cose di cui mi lamento abitualmente e quella decisione). Ma sono passati molti anni e francamente se ripenso al me stesso di quei tempi sono pochi gli aggettivi qualificati a descrivermi quanto: “scemotto e supponente”. Certo, c’è sempre la possibilità che non lo fossi del tutto. Ma se ciò che mi permette di valutare oggi la mia scemità di allora non fosse una sopraggiunta saggezza, ma una scemità soltanto più aggiornata? È un po’ come l’argomento: «Ma siamo un popolo cialtrone, non vorrai lasciare una cosa così pericolosa in mano proprio a noi?». Pericolosa quanto decidere se farla o no, dici? È un problema senza soluzione.

Certo, a sentimento, vorrei abitare in una città giardino, tutta verde e senza inquinameno. Uno di quei posti così romantici e credibili da essere tanto cari agli sceneggiatori di film dell’orrore, per intenderci. Certo, anche a me pare una faccenda assai pericolosa. Ma anche gli aerei mi danno il terrore e non son certo di volere che le mie tipiche reazioni («Siete pazzi, io su quel coso non ci salirò mai!») diventino per tutti un punto d’onore.

Tuttavia un parere occorre darlo, perché a decidere di non farlo si dovrebbere essere competenti in decisioni e loro conseguenze, e non è detto che lo siamo. La cosa non mi scandalizza. Sono abituato a dare pareri su cose di cui sono incompetente. E lo faccio volentieri, non mi costa niente. È la vanità dell’uomo moderno. Cosa deciderò? Mi affiderei volentieri alla disciplina di partito, ne avessi uno, anche di ritorno. In mancanza d’altro, mi baserò sui miei valori, sulle mie profonde convinzioni e sul futuro dei miei figli. Eccerto. È un fatto d’orgoglio. Io sono un uomo libero. Faccio quello che voglio, io.

jonathan franzen, libertà

ATTENZIONE: CONTIENE TRACCE DI SPOILER

Finita la lettura, sfumato l’accordo in maggiore dell’ultimo capitolo, l’impressione è che le perplessità e i mezzi giudizi abbiano trovato proprio nel lento e raccolto movimento finale una specie di sigillo, visto che non hanno trovato una smentita. Se i nodi non si sono sciolti, hanno però un anello cui legarsi bene. Libertà, a mio parere, sta tutto in quel finale di cui dobbiamo tacere l’aggettivo: per questa doverosa prudenza diventa difficile parlare del libro senza rovinarne la lettura a chi non l’ha ancora aperto. Costui sappia che l’attende un buon romanzo, piacevole e quasi sempre capace di catturare la sua attenzione e in cui troverà la consueta eccellente – a volte addirittura sorprendente – capacità dell’autore di rendere il dettaglio psicologico, ma un’inconsueta, almeno a mio parere, debolezza di voce.

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tom wolfe, il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto

Due brevi, molto riusciti e classici pezzi di Wolfe. Nel primo – Radical chic – si narra di un party nel lussuoso appartamento dei Bernstein, a New York, sul finire degli anni Sessanta, un party più surreale di quello di Sellers; invitate le più sofisticate e progressiste élite liberal e i leader delle Black Panther. Wolfe si diverte a notare come le élite emergenti abbiano ogni volta bisogno di crearsi molteplici strati di falsa coscienza e contorti sistemi di legittimazione. L’esito del party sarà comunque del tutto imprevisto, per quanto il grottesco e inascoltato sogno rivelatore di Lenny Bernstein con cui il pezzo di Wolfe si apre l’avesse anticipato. Nel secondo articolo – Mau-Mauing the Flak Catchers, Mau-maumizzare i Parapalle – che forse è persino più acuto del primo ed è ambientato negli stessi anni, Wolfe descrive le politiche assistenziali promosse dalla burocrazia federale a favore delle minoranze e l’effetto perverso che questi programmi provocavano, la mau-mauizzazione: «Andare in centro a mau-mauizzare i burocrati cominciò a diventare un’abitudine a San Francisco. Era il programma povertà a spingerti ad andare in giro a mau-mauizzare. Era inevitabile. I burocrati del Comune e dell’Ufficio Opportunità Economiche parlavano tutto il tempo di “ghetti”, ma di quello che stava succedendo nella Western Addition, a Hunters Point, a Potrero Hill, a Mission, a Chinatown o a sud di Market Street non ne sapevano più di quanto ne sapessero di Zanzibar. Non sapevano dove guardare. Non sapevano nemmeno a chi chiedere. E così, che potevano fare? Beh… usufruivano del Servizio Etnico a Domicilio…».

traumatologia di un amore

– Paola, sto camminando, ho il telefonino in una mano, come vuoi che faccia a.

– Senti Paola mi hanno ingessato, ho la stampella, il telefono, sto camminando, non riesco anche.

– Ma Paola, non ti sto trattando male! Ti sto solo dicendo che faccio fatica a.

– Paola, ma vai a cagare!

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