non penso quindi tu sei

Su Nazione indiana Sergio Garufi rilancia in modo accorato La possibilità di un’isola, il romanzone uelbecchiano dell’anno scorso.

A come uelbec scriva, nel pezzo si dedica una riga e mezza (scelta che mi vede concorde). Tutto il pezzo parla di quel che uelbec pensa: del mondo, della vita, della felicità, insomma cosette così, per le quali di solito noi illetterati chiediamo lumi a papa ratzinger o allo psicologo Morelli. Sciocchini che siamo.

Ecco il piatto forte:

«L’uomo è esattamente ciò che sembra essere, “una specie animale discesa da altre specie animali con un processo di evoluzione tortuoso e penoso”; nient’altro che materia destinata a decomporsi, in cui non rimarrà “più alcuna traccia di attività cerebrale, né qualcosa che possa essere assimilato a uno spirito o un’anima“. La causa di questa regressione irreversibile è la morte dell’amore, inteso come sentimento altruistico di annullamento dell’individualità, il cui decesso è dovuto alle eccessive complicazioni, ai sacrifici e alle responsabilità che esso comporta. “Siamo solo corpi desideranti”. La vita di un essere umano si può così sintetizzare alla stregua di quella di un bovino da supermercato: “Nato e vissuto in Francia. Macellato in Francia”. (…)  suprema impostura della procreazione, che ci incatena ancora una volta alla ciclica condanna delle cause e degli effetti (…) in questo deserto assiologico e fisico si compirà il fallimento di ogni speranza (…) l’inanità del mondo non gli sembra più accettabile (…) dirigersi verso “un nulla semplice, una pura assenza di contenuto” (…) “la felicità non è un orizzonte possibile”».

«L’evidenza della morte materiale distrugge ogni speranza di fusione», aveva detto altrove.
Di quale fusione avremmo la speranza? Ve lo dico dopo.

Io per me, che nei ritagli di tempo sono un pomposo snob, ho qualche dubbio, e illustri precedenti in tale dubbio, che uno scrittore sia importante in rapporto all’ideologia in cui mostra di credere, anzi in sé la ritengo secondaria (perché egli la infili nei suoi libri, in quanto pensa pieno di entusiasmo o di mitomania che il mondo ne verrà mutato all’impatto con la superficie libresca, o per rispecchiarsi nella sua creazione ricevendo dalla forma scritta per retroazione una qualsivoglia definizione anche negativa di sé, un rimedio alla costitutiva irrecuperabile dispersione dei fatti dell’esistenza singolare per via dell’intensificazione emotiva derivante dall’invenzione libresca dei suoi termini e dei suoi personaggi*, o semplicemente per venir ammirato in quanto bella forma e bella in quanto propagata per contagio dalla forma scritta, non indago**).

Quel che ho intuito, da lettore, è che non è tanto importante ciò che pensa il narratore, quel che vuole dire, le sue verità su questo o quello che a volte ci propina (come se le verità si potessero brandire o possedere, come se di verità non fosse ricoperto il mondo, e non per modo di dire) ma quel che ci fa con queste verità, anzi con la verità di sé e del suo punto visuale, come mette in scena quel punto così da distanziarsi da sé di un nonnulla, inavvertitamente, anzi proprio ciò che dice quel nonnulla non dicendolo, il fatto che, senza sapere come, dentro ciò di cui parla metta anche se stesso, apparentemente invisibile, ma un se stesso visto da fuori, il che è costituzionalmente impossibile per ciascuno di noi data la centralità di sé che ognuno sperimenta di continuo e che non è che l’abitudine acquisita da neonati alla centralità rispetto alle proprie percezioni, e ciò moltiplicato per infiniti centri senzienti, ma la de-centralità di sé, quella è impercepibile: tu sei quello che non incontrerai mai. Tranne che nelle storie, insomma, e involontariamente.
La "storia" parla per lui e se è in gamba anche contro di lui.
(tra parentesi, mi pare che uno dei sogni delle avanguardie fu di conquistare un realismo più ampio, contro il realismo ottocentesco che allestiva il suo teatro dell’io tra soggetti e oggetti, un realismo in cui questa de-centralità dell’io e dei suoi limiti fosse incorporata esplicitamente e non per tramite di interpretazione infinita – sogno che finì per auto-infettarsi implicando sé nella ricerca, sogno antinomico e labirintico quindi, che progredì fino a far questione di sé e ad autodistruggersi proprio nella figura del labirinto).

Bisogna immaginare che oltre all’autore, al narratore, al personaggio, all’eventuale attore ci sia un servo di scena occulto, di cui nessuno sospetta l’esistenza o che è talmente consueto che par diventato parte del paesaggio visivo (come in quei romanzi dell’800 dove devi girare 200 pagine prima di capire che il tè e le colazioni non arrivano da soli al tavolo con le proprie gambe, ma c’è un servitore che li porta, cioè i personaggi di cui stai leggendo hanno tutti servitù in casa ma nel testo manco esiste, non si nomina, come non si nomina lo scopino del cesso, non si descrive per filo e per segno la mobilia della cucina o, guardaunpo’, il fatto che il protagonista ha studiato mentre il suo servitore sa dire in buona lingua solo sì o no).
Ma è quel servo di scena, insaputo o troppo saputo e quindi rimosso, e rimosso e quindi agente totale, è lui che sposta i mobili sulla quinta del testo e fa apparire quel che appare, e non quel che l’autore pensava di volere. Ma fuori di metafora, chi è il servo di scena, nel nostro caso, che trasforma un testo in letteratura? Chi è che salva l’autore dalla fiducia pomposa e deleteria (letterariamente deleteria, eh) nella bontà delle proprie idee? Al momento non saprei proprio.

Vi piace questa teoria letteraria? Non è così nuova comunque.

Resta il fatto che pensandola così, sulla scarsa importanza dell’ideologia dell’autore in merito alla rilevanza della sua opera, devo ammettere che l’ideologia di uelbec, di per sé un distillato di patetismo sentimentaloide senza il coraggio di sé, di nostalgia del nirvana e della mamma irraggiungibile (la fusione di cui sopra, evidentemente irraggiungibile se non per regressione amniotica), di frigna da moccioso mascherata da profondo pensamento di adulto maturo e disilluso (che siderale distanza dal vero bimbetto frignante descritto senza remore in Combray, o dagli adulti infantilizzati a forza di calci nel sedere di cui in Ferdydurke raccontava Gombrowicz), questa ideologia incapace di pensare i propri presupposti, articolazione del tutto senza profondità, senza dialettica interna, rigida come un baccalà, devo ammettere dicevo che la presenza di questa ideologia non depone necessariamente a sfavore delle sue qualità letterarie. In fondo Céline non era un nazista? echissene… L’universo della malevolenza piccolo borghese ci sarebbe ignoto senza di lui. E che scrittura, ragazzi!

Se non fosse che di qualità letterarie, nel Nostro, io non ne vedo. Problema mio eh. A me pare proprio una liala per palati fini. Boh.
Certo in un mondo letterario in cui se non sei buonista sei cattivista, terzium non datur e anche un bidone diventa un vaso di fiori, purché abbia qualche attitudine a gesticolare le sue (sue eh, proprio sue sue… Schopenhauer questo sconosciuto) fondamentali opinioni sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto. Nientemeno.

Una recensione più divertente? Eccola, nei meandri del passato.

* Proust enuncia proprio questa teoria del romanzo all’inizio della Recherche, in Combray.
** Mi pare che Gombrowicz enunci un dubbio del genere nell’introduzione a Filodor, in Ferdydurke.

3 thoughts on “non penso quindi tu sei

  1. la verità lancinante ma evidentemente poco nota a quelli in fila in libreria è che senza una trama poderosa non si va lontano, le ali piombate sfregolano nei libri come nei film. in quella trama, come tu dici e che ovviamente sottoscrivo, è concesso infilare con noncuranza parti poco visibili di sè.

    uelbec è un sopravvalutato. bellissimo post, as usual.

  2. “la possibilità di un’isola”. questa la trama: alla metà del XXI secolo, dopo un disastro ecologico che ha distrutto l’intero pianeta e sterminato la maggioranza della popolazione mondiale, i sopravvissuti sono costretti a vivere in un’area protetta in cui, per il loro benessere, la loro esistenza quotidiana è costantemente sorvegliata e monitorata. l’unico modo di uscire da questa prigione è essere scelti per andare sull’isola, l’unico luogo della terra scampato al disastro e rimasto incontaminato. Micheal Six-Echo e Bruno Two-Delta sono amici e nessuno dei due ha idea di cosa ci sia fuori dal luogo dove vivono da sempre. Micheal però, comincia ad essere perseguitato da strani incubi inspiegabili che gli danno lo stimolo di porsi alcune domande sulla propria vita e sulle restrizioni cui è oggetto. con terrore, scopre che tutto quello che li circonda, persino l’isola che tutti sognano, è una menzogna, che tutti valgono meno di niente e sono morti già prima di nascere. insieme a Bruno, evade allora alla scoperta del mondo esterno, mai conosciuto e, innamorati, scoprono cosa significhi sentirsi braccati e dover lottare per la sopravvivenza.un libro sopravvalutato, se mai ce ne furono. contro il progresso, contro la vita. con barzellette sui negri. sulle recchie. con sociologia spicciola. con prefazione di tahar ben jelloun, un marocchino, e post fazione di celine, un fascista. con fascetta esclamativa. con due chiavate contro natura. contro la vita.

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