la conturbante perfezione delle storie – 1

Alla fine di un bel pezzo su Storytelling, libro di Christian Salmon sull’uso di strumenti narrativi da parte di politici e aziende, Giorgio Fontana scrive qualcosa di molto interessante:

"Le storie sono parte integrante di qualsiasi civiltà umana. La nostra vita, per gran parte, si fonda sulle storie e sulla necessità del racconto. Allora, forse l’unico mezzo per contrapporsi allo storytelling è tornare a una narrazione virtuosa, che testimoni il suo valore finzionale o meno, ma che resti volta a produrre verità in senso ampio. Che non sia schiava, cioè, del potere o di vuote necessità comunicative".

La questione è quasi inabbordabile, quindi non l’abbordo, ci giro intorno nella speranza di infilarmi in una pausa della sentinella. Sulla prima frase c’è poco da discutere. Strada chiusa. Ecco, la seconda fa venire in mente delle domande. In che senso la nostra vita si fonda in gran parte sulle storie e sulla necessità del racconto? E su cosa si fonda, nella parte che non è quella parte?

Da un lato infatti saremmo istintivamente portati a distinguere, a tracciare un confine netto tra l’ordine dei fatti personali (procedo come se Fontana intendesse questo dicendo "la nostra vita", so che il suo discorso è più ampio. Io scelgo di prendere le cose dal lato piccolo perché serve ai miei scopi) e quello delle storie narrate. La nostra stessa vita può apparirci – e in genere lo è – molto più "insignificante" delle più insipida delle storie. Priva di antefatti, di epiloghi, di svolgimenti chiari in una direzione o in un’altra, sfrangiata, incongrua, sorda e muta: un tessuto pieno di buchi e toppe anzi, chi l’ha detto che sia un tessuto? Quello che manca è proprio la trama, e non come a volte manca nei romanzi minimalisti, dove l’impressione di piatta medietà, ottenuta a prezzo di complicati artifici, è tutto fuorché piatta e media anzi, spicca certe volte con una tale conturbante perfezione che ti viene il desiderio di essere tu quell’insignificante impiegato invece che… questo qua ("realismo" sembra del resto un concetto limite, un punto asintotico di utopia irraggiungibile per un difetto d’origine: la carne di quelle vite è la parola scritta, cioè l’assenza allo stato puro. La letteratura può essere realista, ovviamente, a patto di non essere reale).

Tutto qui, nella "vita", sembra effettivamente dettato dal caso, comprese le rare svolte e gli snodi dell’azione, peraltro quasi mai originali. E questo malgrado il ricorso continuo, che tutti operiamo incessantemente, a ricostruzioni di comodo e a posteriori, deus ex machina convocati ogni volta e all’occasione nella forma dell’ultimo fatto accaduto, che retrodata la propria necessità a tutto il percorso che l’ha preceduto e che a essere sinceri nemmeno per idea lo preparava, come ci vuole far credere. A essere sinceri: la nostra esistenza appare un’accozzaglia vera e propria di eventi il cui unico fragile filo conduttore è l’essere accaduti alla stessa persona (ammesso che lo sia, la stessa, dato che l’unica prova è di nuovo quella sequenza di eventi del tutto presunta, in una fondazione circolare in cui A garantisce B perché B garantisce A). Una tale giustapposizione di fatti può apparire "sensata" solo grazie al consueto e costitutivo errore prospettico e sofisma per cui al centro costante delle impressioni di ognuno, il singolo io, viene attribuita una universale centralità narrativa che non dovrebbe avere e così, da questa a quello, come nel trucco delle tre carte, il senso ci passa sotto il naso.
Ecco, se le nostre vite fossero scritte da uno sceneggiatore, costui sarebbe di sicuro ubriaco e molto, molto svogliato. Oltre ad avere probabilmente qualche santo in paradiso.

Per questo la più banale e ben architettata commedia hollywoodiana riesce a prendere possesso dei nostri corpi trasformandoci per un’ora in esseri del tutto privi di volontà e raziocinio: perché nel venir narrata – nel venire ben narrata – qualsiasi "storia" è più interessante della "nostra". A meno che voi stessi non siate "parte di una storia", beninteso: forse persino il presidente degli Stati Uniti nel tempo libero si appassiona alle vicende sentimentali di Grey’s anatomy, ma non più di quanto i personaggi di Grey’s anatomy potrebbero legittimamente interessarsi alle sue.

E intendiamoci, è giusto che sia così: le storie "sono state inventate" per quello. E il fatto che la nostra non appaia una storia, ma una vita, non è un suo difetto, anche se ultimamente tutto sembra tramare perché così ci appaia (la nostra esistenza può essere reale perché non è affatto realista).

(continua…)

4 thoughts on “la conturbante perfezione delle storie – 1

  1. finora sono più o meno d’accordo su tutto, ma aspetto la conclusione. intanto raccolgo le idee. caso vuole che pochi giorni fa abbia scritto un pezzo per una rivista indipendente (“el aleph”) dove mi interrogavo di nuovo sul problema della “verità” nella narrazione. non so se poi verrà pubblicato (la rivista per ora langue nel limbo fra “vecchio corso” e “nuovo corso”), ma è un tema sul pezzo per il sottoscritto.

    saludos!

    g.

  2. anche io aspetto la conclusione, ma pare allontanarsi man mano che aggiungo qualcosa, il che significa che non ho idea di cosa sto scrivendo 😉

    (puoi metterlo su da te quel pezzo o devi attendere l’aleph?)

  3. devo attendere l’aleph. però se vuoi te lo mando per mail. non so quanto quagli con la discussione, ma cerca di centrare il punto sul tema verità.

    ah, vedo che hai postato un seguito. benebene. 🙂

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