Il fantasma della depressione


(Concorre per il post più inutilmente lungo dell’anno)

È uscita questa notizia sulle sostanze antimemoria. La solita proteina che fa la gioia dell’articolista (ma scienziati e giornalisti lavorano nello stesso ufficio?), specie d’estate, che succede poco e nessuno ha ancora ammazzato mezza famiglia. L’idea, sembra, è di farci una pillolina: tu la prendi e i cattivi ricordi se ne vanno. Ottima per le ansie da trauma, si dice. Qualcuno insinua che sia buona anche per le depressioni, ma probabilmente perché inserire depressione in un articolo fa odiens.

Ok, Gianluca giorni fa ci ha fatto un post, prendendosela a suo modo col moralismo di quelli che “il dolore ti fa crescere”. Come è ovvio, dato che “tutto è dimostrabile, soprattutto il contrario”, si può essere d’accordo e anche no, e anche entrambi.

Io poi ho sempre avuto simpatia, come tutti fan di fantascienza, per sostanze e pilloline: l’MDMA mi ha strizzato l’occhio e ho smesso il THC solo perché non mi fa dormire. Mai pensato a un Umano Autentico che sarebbe immorale trasformare o rendere impuro. Secondo me lo zucchero, la focaccia di Genova, la carne, persino i pomodori creano dipendenza. Mangiamo al 70% per motivi di astinenza. Quindi, per così dire, sono al di sopra di ogni sospetto di moralismo.

Nei commenti a quel post, Simona, chiarito che la pillolina in questione nulla potrebbe contro la depressione, scrive una cosa che mi colpisce: è ormai dimostrato che le depressioni hanno origini neurobiologiche (carenze di neurotrasmettitori). Ne consegue (non lo dice, lo deduco io) che le psicoterapie sono alquanto fuffose e che la psicologia deve occuparsi piuttosto dell’aspetto medico-scientifico del cervello.

A parte il fatto – notazione oziosa – che è piuttosto arduo definire cosa è scientifico e cosa no dentro il cervello (e anche fuori). Al limite scientifico è un metodo, ma difficilmente, credo, può essere un oggetto. E persino nel primo caso, è difficile, credo, mettere d’accordo due scienziati su cosa sia questo metodo.

Ma io non voglio difendere una o l’altra, psicologia o medicina, e che importanza ha un parere, poi? Il fatto è che la faccenda mi pare comunque più complicata.

Punto uno

Il fatto che un evento psichico abbia basi neurobiologiche è un po’ come dire che chi cammina muove le gambe. Insomma, è puro lapalisse, e non implica nulla in termini di interpretazione dell’evento patologico. Qualsiasi evento psichico, ivi comprese le depressioni, ha basi neurobiologiche, a meno di non pensare che lo spirito sia una sostanza, il che per noi materialistoni è cosa alquanto indigeribile. Gli stati psichici sono modificazioni della materia. Ma dire che sono anche causati da tali modificazioni è un passo in più, mi sembra non del tutto giustificato dall’osservazione (si chiama, curiosamente, interpretazione riduzionista, anche se aggiunge invece che ridurre, e peraltro non è esattamente l’ultimo grido in fatto di epistemologia). Certo, ci sarebbe da discutere il concetto di causa, ma è una faccenda lunga e molto al di là delle mie capacità.

I ricordi si fissano grazie alla presenza della suddetta proteina. Ok, non si tratta di intervento divino, né di scotch. Così, se elimini la proteina, elimini il ricordo. Più o meno è come dire che se ti tagliano le gambe, difficilmente cammini. Non sto banalizzando: la scoperta è certo rilevante, come in molti altri casi può aprire possibilità di cura che sarebbe sciocco sottovalutare. Sto provando a discutere piuttosto il ruolo della scoperta.

Come sappiamo fin troppo bene, la domanda che chiede come accade (ad esempio come accade la depressione?), cui risponde l’osservazione, è diversa da quella che chiede perché accade. Possiamo anche dire che la seconda domanda è senza risposta o meglio dà luogo a infinite risposte. (E queste, come accadono? Bel problema…). Se la pensiamo così, però, non siamo autorizzati a sostenere che l’inibizione della proteina elimina la causa della depressione. Possiamo solo dire: funziona. Anzi, per la precisione: ora funziona, ora non funziona, ora funziona…
Io, quando aggiusto qualcosa (mi piace molto aggiustare le cose) faccio allo stesso modo.

E le – infinite – risposte al perché accade, funzionano anch’esse, in qualche modo? Eh…
Peirce diceva: il concetto di un oggetto è l’insieme degli abiti di risposta cui mi dispone, cioè il modo in cui lo uso. Come usiamo i nostri perché? E c’è forse un perché anche in quell’insistenza sul come?

(Divagazione. Aristotele la pensava in modo complicato su faccende come queste. Io mi limito a osservare, tra parentesi – e infatti sono tra parentesi – quanto sia curioso il fatto che, già col termine base neurologica che ho utilizzato sopra, stia suggerendo inavvertitamente un’immagine del reale piuttosto metafisica: ci sono le basi, ciò che sta in basso, cioè in soldoni la materia, la hyle preformata, e poi, incastonate indissolubilmente nella materia, ci sono le forme, la struttura formale e funzionale – il codice genetico, detto altrimenti- a costituire il sinolo, la sostanza, cioè gli esseri. Non ci si libera mai?).

Comunque, per farla breve, quando rido aumenta l’endorfina, è un fatto. Ma la causa è la battuta spiritosa che mi ha fatto ridere o solo l’endorfina? Ho accennato a come forse risponderebbe Aristotele. La neurobiologia risponde: e chi se ne frega? Come diceva un mellifluo collega forlaniano quando voleva far da paciere tra due litiganti: ha ragione lei, ma ha ragione anche lei…

Resta il fatto che io posso assumere sostanze che stimolano in vario modo l’endorfina (o ne impediscono l’inibizione – è il sofisticato funzionamento di alcuni psicofarmaci), ma non è un po’ come leggersi un libretto umoristico? Come sistema di cura, a ben vedere, non è poi così geniale. Ridi che ti passa. Siamo al livello – concettualmente, perché tecnicamente siamo molto sopra, non c’è gara – ma siamo concettualmente al livello dei rimedi della nonna, pur ammantati di retorica scientista. Fatto sta che la farmacologia antidepressiva, ed è evento credo assodato, funziona in modo quasi totalmente sintomatico (accetto smentite da chimici di passaggio). E anche i farmaci di ultima generazione – i più docili in fatto di effetti collaterali – sono in genere consigliatia quel 5% di depressioni cosiddette endogene (insomma, in cui si sta male davvero). Negli altri casi, secondo autorevoli osservatori, è eccesso di cura, un po’ come dare gli antibiotici a un moscerino.

Punto due

Dunque, i farmaci antidepressivi agiscono per lo più da sintomatici. Cioè, se li smetti sei da capo. Sì, ti raccontano che nel frattempo sperimenti nuove modalità di vita che ti conducono alla guarigione. Ma secondo me è molto più facile, appena stai un po’ meglio, scordarsi di tutto e fare esattamente ciò che ti farà star male appena passato l’effetto, piuttosto che il contrario.

Niente di scandaloso, comunque: funzionano allo stesso modo tutti gli antifebbre, e anche gravi malattie possono essere tenute sotto controllo indeterminatamente con farmaci e cure. E meno male.

Ora, però, la cronicizzazione della cura (“non guarirai mai, ma non ti mancheranno mai pillole né sedute terapeutiche”) è solo uno dei due fatti che scatenano la gioia delle case farmaceutiche e degli psicoterapeuti. L’altro, più interessante, è l’invenzione del disturbo.
Ora ditemi: chi parlava di depressione solo 30 anni fa? Che io mi ricordi, praticamente nessuno. O almeno, non tanto da farci una malattia. Quando si è cominciato a chiamare depressione quella congerie di sintomi più o meno strani, generalmente poco rilevanti, raramente gravi, che una volta passava sotto i nomi di melanconia, o semplice tristezza, o prostrazione emotiva, o addirittura esaurimento? (“Il bambino è un po’ esaurito, dottore, non gli dà un bel ricostituente?”). Quando la parola e la cosa hanno cominciato a sorgere, e come? Quando si è smesso di pensare, magari facendola troppo facile, che il problema fosse una mamma troppo severa, la timidezza, l’assenza di fidanzate, un lavoro deprimente, o semplicemente il carattere (“È fatto così, che ci vuoi fare?”), e si è pensato che anche qui ci fosse un oggetto, dentro la testa, che si poteva guastare e andava curato da uno specialista, medico o guru che fosse (la famosa medicalizzazione)? Quando si è abbandonata l’idea, probabilmente sciocca, non dico di no, che il tempo cura tutto, cioè che occorre sudarsela come una febbre, e poi se ne va da sé – tranne per quel famoso 5% che, come si è detto, si butta di sotto?

Ma la medicalizzazione degli stati psichici, dicono, è una tendenza di lungo periodo nelle nostre società, le società del welfare. Le società, per capirsi, nelle quali le fasi dell’esistenza individuale sono scandite dall’internità a grandi apparati collettivi disciplinari (che sono anche apparati di garanzia, of course): la scuola, la fabbrica, l’ospedale, il manicomio, ecc., come insegnava Foucault. Grandi apparati oggi in una fase di profonda trasformazione che si può sintetizzarein una parola: personalizzazione. Così andiamo al punto tre.

Punto tre

Nella maggioranza dei casi, secondo certa psicologia, le cosiddette depressioni non sono altro che normali disturbi relazionali cronicizzati. Insomma, ci sarebbe una “ragione dell’errore”, nell’intreccio tra risorse individuali e contesto dei rapporti. Il fatto che oggi questi sintomi non trovino sistemazione all’interno delle dinamiche sociali, ma appaiano dirompenti, pura manifestazione di asocialità e di rifiuto, il fatto che facciano notizia, sarebbe quindi significativo più sull’evoluzione delle dinamiche sociali stesse che non sul sintomo.
Insomma, cosa diavolo abbiamo contro l’asocialità?

Una volta, nelle realtà comunitarie, si dice che tali comportamenti trovassero le loro nicchie ecologiche, il che significava di fatto cronicizzazione. Mi pare di ricordare che, in tempi di riduzionismo psicoanalitico, alcuni sedicenti dottori abbiano studiato i mistici e gli eremiti del passato come fenomeni limite di nevrosi. E vabbé. Ma a partire da un certo momento probabilmente, queste nicchie hanno cominciato a sfaldarsi, attraverso l’attribuzione di nuovi significati a ruoli preesistenti, come l’artista – che di colpo diventa, per definizione, un po’ folle e asociale, disadattato – il poeta – che diventa, ahilui, “maledetto” – o magari l’ubriacone…(Ve lo vedete Dante “maledetto”? Ai suoi tempi non funzionava mica così…).In quel momento, quei sintomi erano considerati accettabili entro la dimensione di quei ruoli.

Il fatto che gli stessi comportamenti siano percepiti oggi come fenomeno diffuso, quasi di massa, e nello stesso tempo visti con sospetto, riprovazione, e timore, significa che siamo diventati tutti artisti? Non proprio, ma qualcosa del genere, sì.
La richiesta di individualizzazione, di libertà, di autonomia (e spesso anche di creatività professionale) tipico delle società democratiche post-fordiste (il passaggio di cui si diceva sopra, interno alla disarticolazione delle società del welfare), pone di fronte a nuove possibilità, e anche a nuove difficoltà, a nuovi drammi. E a nuove medicalizzazioni, come appunto la cosiddetta depressione. Una medicalizzazione tutto sommato soft, singolarizzata, puntuale, fatta di pillole e terapie dosabili e trasportabili, che lascia sullo sfondo, a far da vivido contorno, il corredo di follia pura e raptus (e prima ancora di possessione) che un tempo accompagnava omicidi ingiustificabili, massacri di figli, genitori, familiari o passanti; termini che oggi, sui giornali, sono così spesso sostituiti dalla parola-che-va-su-tutto: “Da tempo manifestava segni di depressione”. Oplà.

E quindi? Quindi niente. Come al solito non arrivo a una conclusione. Butto lì un po’ di problemi e me la filo. Mica sono Alberoni, non ho una risposta per tutto, cazzo!

Update
Alcuni comici svarioni di tipo tecnico presenti nella prima parte, dovuti alla mia proverbiale nonchalance terminologica (tipo chiamare una cosa col nome di un’altra) possono trovare parziale conforto nei commenti, grazie al contributo di gentili lettori, che sono, come nelle migliori tradizioni della blogpalla, parte integrante del blog. A mio parere il succo del discorso, con le opportune precisazioni, non ne viene tuttavia intaccato. Anche su questo, naturalmente, accetto smentite.
 

26 thoughts on “Il fantasma della depressione

  1. io sto attualmente cercando di uscire da una depressione dovuta all’essere stato lasciato, al suicidio di un amico, e a tutto quel che è successo nel mezzo, più forse a mie vecchie depressioni mai affrontate.

    sulla medicalizzazione della depressione la pensavo come te… e però meno di venti giorni fa, dopo il mio ultimo e più serio tentativo di suicidio, ho cominciato una cura seria a base di antidepressivi di nuova generazione (paroxetina) e psicoterapia, e adesso mi sento già un’altra persona.

    anche la polmonite può guarire senza nessuna cura medica, solo a forza di amici che dicono “dai tirati su, non ha senso che tu stia così male”, in sei mesi, con grandi sofferenze, e col rischio di restarci secco. ma perchè farlo se puoi guarire (o comunque smettere di stare male) in tre settimane con delle medicine?

    (considera comunque che io sono ancora abbastanza all’inizio, quindi un parere definitivo sul funzionamento di questo tipo di cure, sui pericoli di ricaduta, eccetera, potrò darlo solo tra qualche mese)

    se vuoi leggere senza troppi veli cosa ha per la testa un depresso, sul mio blog c’è il racconto completo dell’ultimo mese.

    ciao,

  2. vb, massimo rispetto. Ma quello che dico non è che non vanno usati (anzi, riporto l’opinione di chi dice che, nei casi gravi, vanno usati). Men che meno dico che non funzionano (anzi, dico proprio il contrario: che funzionano). Come ho provato a scrivere, cerco piuttosto di capire (molto alla buona) il loro ruolo, il ruolo sociale della medicalizzazione della depressione. Del resto non sono un medico, e nello specifico “clinico” riporto solo opinioni altrui, essendo la mia irrilevante.

  3. salve sono un chimico di passaggio! non ne so molto, ma non so se direi che un antidepressivo agisce in modo solo sintomatico. C’e’ un meccanismo, che in un individuo “sano” è più o meno ben bilanciato, che regola la quantità di serotonina negli spazi intersinaptici. Nel caso del depresso parrebbe che la quantità di serotonina in giro sia molto più bassa, il prozac ne fa riassorbire meno (dopo che la serotonina ha fatto il suo lavoro di trasmettere uno stimolo da un neurone all’altro) ed ecco che i livelli rimangono più alti e si riavvicinano a quelli nella norma. Forse è solo questione di terminologie, ma è diverso da un antifebbrile, insomma, agisce alla radice. sarebbe un po’ come definire l’insulina un farmaco sintomatico.

    (io comunque, per i miei problemucci, ho preferito una bella psicoterapia) . ciao, angelo

  4. ciao Bg, dopo tempo torno a trovarti.

    Complimenti, sei riuscito a passare dalla depressione al controllo che manco tripodi …:))

    E io che speravo bastasse un minimo di tristezza per diventare un artista.

    Ultima cosa, potevi finire, così sei come Alberoni (che non finisce mai nulla, tanto lo pagano per questo). Ah già, ora sei giornalista ;))

  5. Grazie per aver scritto questo post.

    Purtroppo faccio parte di quel 5% e vorrei palesare spiegazioni sul ruolo sociale del (finto) disturbo mentale ma non so farlo perchè oggi i vetri nel cranio e un ragno nel cuore.

    Domani?

  6. chimico di passaggio grazie 🙂

    nella mia monumentale ignoranza e nonchalance terminologica, quello che volevo dire è che l’azione (indubbiamente “alla radice”, ma questo l’avevo capito) dura finché assumi il farmaco. Il che va benissimo, basta che la “causa”, (torna il vecchio tema), invece che essere collocata all’esterno del meccanismo neurochimico come fanno gli psicoterapeuti (nelle relazioni con gli altri che “si farebbero” chimica), sia fatta coincidere col meccanismo stesso, o negata come problema, in realtà col collocarla nel territorio del “congenito”, ossia dell’eterno, quindi inindagabile (il dna: “hai la depressione perché hai una carenza congenita”, il che è un po’ come dire: non so perché ce l’hai ma è irrilevante saperlo)

  7. adesso sparo la mia cazzata: penso che alcune forme di depressione possano effettivamente essere congenite, che altre possano essere indotte, aggravate o scatenate dall’uso di sostanze, e che in altri casi “vengano”. Come quando una arto usato poco o male si atrofizza, perchè non dovrebbe succedere anche al complesso sistema dei recettori e dei neurotrasmettitori? In altre parole, non è possibile che certe esperienze, lutti, sofferenze, sconfitte etcetc che ci abiutuano a guardare la realtà con un velo nero di mezzo,alla lunga deteriorino fisicamente i nostri delicati meccanismi neurobiologici? Premetto che anche io mi faccio schermo di una monumentale ignoranza al riguardo, ma in questo senso credo che la terapia farmacolgica non funzioni necessariamente solo come rimedio temporaneo, ma che in alcuni casi (comunque possibilmente associata ad una psicoterapia) possa funzionare come ricostituente o fisioterpia

  8. Wow! Prima di tutto complimenti per il post, sia per i contenuti succulenti che per lo stile e l’organizzazione un po’ barocca, che fa intuire che credi veramente in quello che scrivi, che ne fanno trasparire la passione con lui l’hai scritto, ma anche la relativa confusione e perplessità sulla possibilità di una risposta/conclusione al problema centrale sollevato.

    Accipicchia, ne hai messa di carne al fuoco! Dovrei scrivere un commento lungo 1 km per portare la mia modesta opinione sulle infinite questioni che hai toccato: sei passato dalle dispute epistemologiche che chiamerebbero in causa gli empiristi del positivismo logico contrapposti a quelli di derivazione razionalistica che accettano il realismo critico sulla definizione di status scientifico, al concetto di causa aristotelico, al perché alcune scoperte siano solo descrittive più che esplicative, a dedurre che dati sperimentali comprovanti un’alterazione neurofisiologica ben precisa significa che tutte le psicoterapie sono fuffose…

    Ma umilmente commenterò solo ciò di cui penso poter contribuire in modo costruttivo.

    Per prima cosa concordo con te nel dire che tutti gli eventi (o stati) mentali sono il risultato dell’attività neurobiologica, questo è scontato, ma con ciò penso tu abbia frainteso e travisato l’intrevento di Simona.

    Simona sostiene che le depressioni endogene hanno base neurologiche: per me ha ragione.

    Per fare ciò, dividiamo intanto le depressioni in due classi ben distinte, quelle endogene da quelle reattive. Le prime colpiscono persone che apparentemente non hanno alcun problema affettivo, non hanno una vita stressante ecc…La persona ha una vita ritenuta felice e serena eppure sta male.

    Il secondo tipo colpisce persone che sono passate per un momento di vita difficile, traumatico o stressante, e dal quale faticano a risollevarsi.

    Quindi, già da qui, per il concetto espresso prima, entrambi hanno una base neurobiologica, cioè entrambe sono uno stato mentale che altro non può derivare da attività neurobiologica, tuttavia, mentre per il primo caso non si capiva da quale antecedente partisse questa attività, nel secondo tipo di depressioni sappiamo che lo stato neurobiologico è partito da situazioni esterne.

    In questo senso, le depressioni reattive, non sarebbero nate da basi neurobiologiche, in quanto non è lì la scintilla del problema, che sta di fuori, ma la neurobiologia ne sarebbe solo il motore sano.

    Grazie ai moderni sistemi di neuroimaging, come la PET o la RMNfunzionale, si è visto che chi soffre di depressioni endogene, invece, ha questo motore neurobiologico a non funzionare per nulla bene.

    Una struttura sottocorticale chiamata amigdala, in questi pazienti, non funziona più come dovrebbe.

    Ma non solo nei depressi endogeni, ma anche nei parkinsoniani con disturbi della gestione delle emozioni.

    In base a ciò si è ipotizzato un ruolo centrale nel controllo delle emozioni da parte di questa struttura cerebrale.

    Quindi, nel caso delle depressioni endogene, per quanto ci siano stimoli positivi, per una causa che per ora sembra essere genetica, l’organo che sottende ad un’attività neurobiologica si ammala. Quindi la farmacologia, sostituendosi al mancato buon funzionamento dell’organo, riesce ad attenuare e a trattare la depressione.

    Nel caso di depressioni reattive, la neurofisiologia non sembra mostrare alterazioni rispetto a soggetti che stanno bene: come potrebbe ora, quindi, risolvere la neurobiologia il problema?

    Capisci che non è che se ne frega, e che, per gli strumenti che ora sono a disposizione, non si riesce a contrastarla farmacologicamente e, in più, si tenta di operare nello stesso domino che ne ha scatenato la nascita, ovvero uno stile di vita sereno e felice.

    Se poi ti lamenti perché né si sa la causa certa ma solo ipotetica che scatena il malfunzionamento dell’amigdala, né la causa precisa che porta alcune persone con difficoltà a riprendersi da eventi traumatici o stressanti, allora il dibattito si fa ancora più interessante e difficile.

    Trovare la causa certa o precisa non è facile, anzi, forse in alcuni ambiti è pure impossibile, ma non perché gli scienziati se ne fregano, ma perché gli strumenti d’indagine che al momento hanno, permettono solo di avvicinarsi sempre di più al problema, per passaggi successivi, restando in un ambito di certezza solo da punto di vista descrittivo, ma solo ipotetico probabilistico dal punto di vista esplicativo.

    Per quanto riguarda poi il secondo tipo di depressioni, quelle reattive, ognuna è una storia a sé, capirai che un’analisi dal punto di vista scientifico a livello neurobiologico, per ora introdurrebbe un’analisi di una moltitudine sconfinata di casi a volte enormemente diversi tra loro, oltre alla difficile rilevazione delle varie variabili in gioco. Ma anche ammettendo di riuscire a rilevarle, bisognerebbe essere in grado di creare un modello complesso ed esaustivo in grado di spiegare tutta la mole di variabili analizzate e correlate tra loro nelle infinite combinazioni possibili.

    Il fatto che una qualsiasi scoperta non risponda al come, ma solo al cosa, che non sia esplicativa, ma che sia solo descrittiva, accomuna tutti gli ambiti della conoscenza scientifica: anche se di molte malattie organiche od eventi fisici ne ipotizziamo solo le cause, grazie ad un certo grado di scoperte a livello descrittivo, siamo comunque fortunatamente in grado di trarne benefici, talvolta di vitale importanza. Il nostro progresso scientifico-tecnologico è frutto di queste scoperte.

    Ultima questione e poi finisco ( anzi, scusami del post troppo lungo, ma ne vergogno, ma mi hai felicemente appassionato!), la deduzione secondo cui tutte le psicoterapia sono fuffose è errata, sia dal punto di vista logico per il salto mortale carpiato deduttivo a partire dalle premesse, sia da un punto di vista dei fatti, empirico.

    Ci sono psicoterapie, che a partire da teorie scientifiche o da fenomeni comprovati, riescono a fare molto. Terapie comportamentali-cognitive che curano con successo le fobie, il bio-feedback tratta una larga scala di disturbi psicosomatici, sedute di addestramento che migliorano i problemi di bambini con disturbi d’apprendimento o adulti che hanno subito danni cerebrali. Ti assicuro che queste persone del rimedio della nonna ne fanno volentieri a meno, ma non di queste psicoterapie.

    PS: Motivi familiari mi hanno impedito sul più bello di laurearmi, e ora che lavoro a pieno ritmo sto tentando con fatica di ultimare la carriera accademica sospesa.

    In pratica da più di due anni sono un laureando in psicologia sperimentale, ovvero di quella psicologia sconosciuta ai più che tenta di studiare il comportamento umano da un punto di vista scientifico, diversamente da molte psicologie spicce fai-da-te che in alcuni salotti televisivi purtroppo ci propinano, e che spesso e volentieri sminuiscono il valore della psicologia in toto.

    Questo non significa che ho la verità in tasca, né che sono una persona che si è specializzata dal punto di vista clinico, ma mi piaceva intervenire portando un’opinione personale nata da una riflessione su informazioni magari più specifiche e documentate rispetto ad altri.

  9. luca, intanto grazie del tuo intervento. non ti preoccupare delle lunghezza, sei nel posto giusto 😉

    Ad ogni modo nel post non sostengo che un approccio o un altro sia errato, non sono un medico. Come ho detto sotto, mi interessava, a puro livello di riflessione oziosa, riflettere sul “ruolo” che uno o l’altro hanno, al di là del fatto che “funzionino” (che in realtà do praticamente per scontato. Il “funzionare” è la premessa perché un evento abbia un “ruolo”). La precisazione che fai tra le due tipologie di depressione (e relative “causalità” e trattamenti) penso sia giusta, e infatti anche io l’avevo fatta en passant nel post, desumendola da letture.

    In realtà, un po’ di salti e forzature nella prima parte mi servivano più che altro per arrivare all’ultima, l’unica su cui posso fare, con le mie conoscenze, una discussione sensata. A dirla tutta, quello che mi interessava nel post è discutere dell’asocialità e della sua immagine collettiva (per questo l’insistenza sui giornali). Ci sono arrivato attraverso un giro tropo lungo, forse, e si finisce per perdersi. Forse il bello è anche quello 😉

  10. Anche io ringrazio Luca. Ieri m’ero fermata subito perchè raccontarti la storia degli studi e delle tecniche per studiare i diversi tipi di deressione m’aveva messa di fronte alla parete di ghiaccio della mia malattia, vale a dire la non voglia di niente, financo scrivere.

    Oggi grazie a Luca posso glissare i temi tecnici e passare ad una considerazione sul farmaco che mi ha sempre affascinato.

    Esiste, credo, una componente emozionale legata alla “pasticca”. Mi spiego: inghiottire una sostanza (dall’aspirina allo zoloft) che ci dovrè procurare un qualche benessere induce una certa aspettativa e questo atteggiamento psicologico non può non avere qualche peso nell’effetto che il farmaco produrrà. L’approccio personale, la conoscenza o ignoranza della materia, le notizie sul farmaco, la cultura personale, l’ambiente in cui si somministra il farmaco son tutte variabili che possono contribuire a diversificare l’effetto generale della sostanza. La storia dei placebo è nota.

    Questo aspetto psicologico del farmaco, secondo me, va ancora molto indagato. E non soltanto in tema di psicofarmaci. (La risposta personale alla dose di ormone di un diabetico insulinodipendente è sempre varia, pur essendo la malattia sempre la stessa).

    Ci sono persone che assumono regolarmente benzodiazepine a dosi minime e lo fanno per tutta la vita, senza sapere che gli effetti benefici di un tavor da 1mg preso per un anno non sono più determinati da quel 1mg di lorazepam, al quale ormai l’organismo si è asssufatto. E lo sanno anche i loro medici, che però continuano ad assecondare il desiderio di essere “curati” per ansie che, se esistessero realmente, avrebbero bisogno di dosi ben più massicce.

    Il nodo gordiano che tu vuoi liberare sta in un punto diverso della discussione: il ruolo dell’asocialità, la sua indotta o naturale esistenza, la “necessità” della cura, ed il perchè di questa necessità.

    Io so perchè siamo asociali e so perchè siamo indotti a non voler essere asociali, pur desiderando ardentemente assomigliare agli artisti maledetti, ai geni incompresi o al Mistico di W.R.Bion.

    Ci è stata istituzionalizzata l’asocialità come è stato istituzionalizzato Gesù Cristo nella mondanità della Chiesa Cattolica.

    Il ruolo del matto di successo è uno dei più ambiti (guarda Alda Merini) ma se un utente tv incontrasse per strada Ligabue o Van Gogh li scanserebbe con orrore (così come scansavano Alda Merini).

    Ora mi fermo perchè voglio dire anche del tedio, della noia che vengono spacciati per angoscia esistenziale e non lo sono. Devo organizzare i vetri in testa.

    Domani?

  11. Vorrei scusarmi perchè pur essendo stata chiamata in causa, fino ad ora non ho partecipato alla discussione. L’argomento è complesso e non mi andava di rispondere sapendo di non poterlo fare in modo articolato per mancanza di tempo. In modo ancora del tutto superficiale e approssimativo adesso che ho un po’ di tempo in più posso dire che sono d’accordo che qualsiasi evento psichico sia il risultato di un’interazione tra la mente e il cervello e che nella quasi totalità dei casi di patologia sia praticamente impossibile stabilire la relazione causale tra i due eventi. Nel caso della depressione: il deficit neurobiologico è la causa o l’effetto? Non credo poi che tutte le psicoterapie siano fuffa. Alcune sicuramente lo sono, altre no, in alcuni casi possono aiutare l’uso del farmaco, in altri casi bastano da sole. I pericoli vengono dagli atteggiamenti talebani di chi crede che la “sua” terapia sia l’unica possibile. Infine: sono assolutamente d’accordo con chi denuncia l’uso allegro e ingiustificato dei farmaci anche in casi in cui non ce ne sarebbe bisogno. La medicalizzazione della tristezza è ormai un dato di fatto, ed è spiegata benissimo nel post di b. george, con cui, a parte i chiarimenti di cui sopra, posso dire di essere sostanzialmente d’accordo.

  12. Dunque, i farmaci antidepressivi agiscono per lo più da sintomatici. Cioè, se li smetti sei da capo. Sì, ti raccontano che nel frattempo sperimenti nuove modalità di vita che ti conducono alla guarigione. Ma secondo me è molto più facile, appena stai un po’ meglio, scordarsi di tutto e fare esattamente ciò che ti farà star male appena passato l’effetto, piuttosto che il contrario.

    si te lo raccontano ma è vero: io con gli inibitori della rcaptazione della serotonina ho fatto grandi passi avanti nella mia terapia cognitiva e ha raggiunto molti risultati che mi porterò apresso sempre (risultati riguardanti l’epistemologia profonda, o metafisica influente riguardo agli altri e ai miei rappoti con gli altri)

    sull’eziologia e le posizioni riduzioniste annesse sono d’accordo, ma mi pare una questione un po’ oziosa, visto che le terapie che usano questi farmaci non sono terapie “dell’origine” (insomma stanno fuori dal dibattito psicanalisi-psichiatria)

    Sull’invenzione del disturbo posso solo apprezzare l’approccio foucaultiano del tuo post e la constatazione della medicalizzazione degli stati psichici.

    Del resto è vero: non posso fare l’artista, il matto, lo scemo del villaggio, il poeta, l’ubriacone…cioè posso farlo, e infatto l’ho fatto cn ben sette anni di tosicodipendenza, e quando ne sono uscito quello che volevo era proprio medicalizzare il mio stato psichico (l’avessi fatto prima…)

    E’ facile dire “cosa abbiamo contro l’asocialità?”. Prova ad aver paura ad entrare nei negozi, a piangere per strada perché quello del bar ti ha guardato male, a non riuscire ad avere una ragazza per anni…

    Scusa ma questa parte del discorso mi pare veramente da sudente di filosofia del primo anno, culo parato, tanti amici e saccenza a profusione…

    con affetto

  13. Solo per sapere…02068 etc, tu, ex dipendente da sostanze tossiche, prendi farmaci che inibiscono la ricaptazione della serotonina, fai terapia cognitivo-comportamentale e stai meglio. Questo, nei casi di specie, avviene sempre.

    Puoi dirci cosa succede se non assumi le tue medicine? Non parlo dell’ansiolitico (benzodiazepine e co.), parlo degli antidepressivi ssnri, anzi più in particolare delle ultime molecole, tipo venlafaxina. Sono interessata all’assenza.

    (Credo che b.georg non intendesse sollecitare un appello d’enfasi apologetico per l’asocialità psicotica).

  14. comincia a firmarti, che poi te lo dico: io mi sputtano così su un ca**o di blog e te neanche so chi sei, a parte che fai tutta la professionale e mi vieni a spiegare cosa ha detto b.george neanche fossi un ragazzino di terza media? E comunque credo anche io che b. george non volesse sollecitare un “appello d’enfasi apologetico per l’asocialità psicotica” (non serve usare questi termini, che tanto non si impressiona nessuno, sai…) ma non mi è sfuggito il “focoultismo da ballatoio” che si respirava in questo post.

    Ma guarda, sono proprio lieto che “nei casi di specie” avvenga sempre. Se la sapessi tutta…

    Scusami anonima ma sei proprio partita con il piede sbagliato per parlare con me (ma forse non te ne sei neanche accorta, pensaci ok?).

    Sai, abbiamo tutti studiato tanti, ma tanti libri e fatto tante, ma tante esperienze. Adios

  15. Mi piacerebbe, sì. Almeno la crosta di maestrina che hai precipitosamente segnalato sparirebbe e vedresti una pelle trasparente e piena di tagli (tanto per far scena, ovvio).
    Sull’anonimato siamo a parimerito.

  16. studente del primo anno, ozioso, foucaultiano da ballatoio, culo parato tanti amici e saccenza da vendere: niente male come approccio alla discussione 🙂 Se ti ho dato questa impressione me ne scuso. In genere questi fraintendimenti nascono, o da errori nell’esposizione, o da pregiudizi nella ricezione. Non dubito, per parte mia, di essermi espresso male (e di avere anche molti limiti nell’analisi, che peraltro non mi pare tu abbia colto). Riguardo alle mie esperienze con la depressione o il panico, che autorizzerebbero a posteriori le mie opinioni, non posso darti molta soddisfazione: purtroppo questo non è un blog autobiografico. Non in quel senso. Quindi, esse rimangono private.

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