A un certo punto in Italia, fine anni ’70, c’era più o meno un attentato al giorno. Un giorno mi telefona un mio compagno del liceo – entrambi impegnati da ragazzini in oratorio col prete operaio di turno, poi a scuola a far quel po’ di politica da liceo: c’era una certa precocità a quei tempi, giuro che si andava in manifestazione già alle medie, in seconda liceo eri il veterano dei pischelli, in quinta un dirigente cittadino. Del resto ad altre latitudini a quella età avevi due figli, cosa c’è da guardare? A Milano invece se volevi essere figo o eri autonomo o sanbabilino (poi c’era DP, appunto). Noi la prima. E tuttavia non deficienti, lo sapevamo che gli attentati stavano fregando noi per primi. Che sarebbe arrivata la reazione e avrebbe spazzato via tutto. Che i br e gli altri clandestini erano prima ancora che criminali e nemici, dei colossali coglioni. Insomma mi telefona e mi fa, un po’ affranto: «Hai sentito oggi, hanno sparato a X. È terribile». E io mi sono sentito rispondere: «… Embé, capirai. Cazzi loro. Si suicidino. E poi chissenefrega, basta, mi sono rotto i coglioni, siamo altro, facciamo altro». Messo giù il telefono ho osservato il mio cinismo da assuefazione, che era probabilmente una forma sana di sopravvivenza, un modo per uscire da un clima che ti voleva per forza dentro un pozzo a fare a botte con altri ugualmente dentro il pozzo. Non mi sentivo in colpa o disumano. Volevo semplicemente vivere, cazzo, a 15 anni, potevo mica essere un reduce. Probabilmente sono stato il primo ragazzetto anni ’70 che inaugurava un suo personale riflusso nel privato, che da quell’anno divenne oceanico e generale (tra i 15 anni e i 50 c’era chi rifluiva nell’eroina, chi nel sufismo zen, chi in Nietzsche e negli Adelphi, i più nella febbre del sabato sera). Naturalmente poi gli anni ’80 furono una vera merda per me e per il mio amico, filarsela un momento prima della tempesta non ti fa diventare di colpo un socialista rampante. E negli anni ’90 avrei sperimentato, stavolta senza filarmela, la gioia dell’eterno ritorno e la compulsione nell’errore. Non si avanza che a ritroso, e non si impara mai niente.
come diceva un mio amico saggio, temprato dalla rude campagna brianzola: si va avanti come a vangare!