cosa c’è dentro di me?

"Dentro non abbiamo niente di particolare, solo gli organi interni. Quel dentro cui pensi tu, è tutto fatto di fuori".

(*)

LATO A
Imbarazzanti scoperte nell’osservazione di sé

Osservo la mia mano. Mentre la osservo, osservo anche me che osservo la mia mano.
Passo ora ad alcune importanti considerazioni, non prima di aver provato il brivido di eccitazione tipico di ogni epocale esperimento scientifico – e anche quello di avere una mano niente male. Dunque: la seconda osservazione – osservo me che osservo la mano – sembra diversa dalla prima. Certo, sarei portato a considerarla un’ovvietà, una faccenda vagamente masturbatoria; tuttavia mi riesce così di rado fare due cose assieme, che non mi sembra il caso di passarci sopra. Così cerco subito di concentrarmi su quel tizio "che osserva me che osservo la mano", nel tentativo di coglierne al volo la natura.
Ma mi bastano dieci secondi di tentativi a vuoto per rendermi conto che si tratta di un tizio sorprendentemente difficile da afferrare, sfuggente e ambiguo. Se non ci credete, prendetevi due minuti e provate. Del resto, scusate: come lo dovrei afferrare, quel tizio? Con cosa? Ho già usato tutte le mani! Ad ogni tentativo di presa, anzi, quello si allontana di un gradino: io osservo la mano; io osservo me, che osservo la mano; io osservo me, che osservo me, che osservo la mano; io osservo me, che osservo me, che osservo me, che… eccetera. Sembra una fuga di specchi.

Insomma, c’è la percezione, ma poi c’è un residuo, c’è "qualcuno" che percepisce, si direbbe. Qualcuno che si mette, ogni volta, a una pur infinitestimale distanza dalla percezione della mano, come se le due azioni – che in definitiva dovrebbero essere me – non fossero del tutto coincidenti. Come se ci fossero, per così dire, almeno due me, separati da uno spazio vuoto. Che dentro di me ci sia il vuoto? Il vuoto fa di me ciò che sono? Un po’ l’avevo sospettato, ma…

Prendete l’ago del termostato: quello si muove quando il suo "organo di senso", un piccolo affare sensibile ai cambiamenti di temperatura, gli trasmette il messaggio: ehi, c’è un calo della temperatura, vai sul numero corrispondente. Ma tutto finisce lì. Anzi propriamente non c’è nessun messaggio e nessuna trasmissione e nessuna voce nel deserto, ma solo collegamenti e spostamenti. Nel mio caso invece non c’è solo – mi pare – un passaggio di scariche elettriche dall’occhio al cervello, c’è – mi pare – dell’altro. Certo potrei ingannarmi, forse davanti a me non "mi pare" proprio nessuna mano e io sto sognando, anzi forse non c’è proprio nessun "io"; tuttavia quel residuo, pur aleatorio, pare non subire conseguenze decisive da un tale ipotetico inganno: è lì. O almeno "mi pare". Ma che ci sia o solo appaia non fa gran differenza per me, a ben vedere.
Forse potrei immaginare, o anzi costruire, un termostato talmente complicato capace di provare esattamente la stessa doppiezza che percepisco in me. Ma avrei solo spostato il problema, perché se non so cosa in me produce quella doppiezza, non so nemmeno da che parte cominciare per ri-produrla.

Posso provare a tradurre diversamente la questione con un’altra frase. Si sa che il linguaggio è menzognero, magari è colpa sua. Dunque: mentre osservo la mia mano, "so" che la sto osservando. Ma che "sapere" può mai essere quello che non ha alcun bisogno di parole? No, allora: mentre la osservo, "sono presente" alla mia osservazione della mano. Ma del resto come potrei essere assente? Che sciocchezza. Proviamo così: "sono cosciente" del fatto che sto osservando la mia mano. Ecco che una parola, apparentemente, risolve tutto. Io sono cosciente delle mie sensazioni, anzi "io" sono questa coscienza, quasi più di quanto sia quelle sensazioni. Bella trovata, come ho fatto a non pensarci prima?
Però se mi domando: cos’è questa "coscienza?", di nuovo non so rispondere. È un’ulteriore percezione che si aggiunge alla prima? Una condizione della prima? Uno dei due lati di cui si compone l’intero? La mano di là, io di qua, oggetto e soggetto, esterno e interno; sì ma anche la mano è "mia", cioè è il soggetto, dunque l’esterno è all’interno? "Mia" di chi? E mi viene un dubbio anche peggiore: come posso sperare di giungere a una risposta soddisfacente, considerato che il mio stesso domandare, in definitiva, pare avere come presupposto, come condizione di possibilità proprio ciò che dovrei indagare? (C’è una sola certezza in tutto ciò, infatti: non s’è mai saputo di esseri in-coscienti che vadano in giro a far questione di questo e quello).

Naturalmente non siamo mica nati ieri. C’è gente che si fa domande simili – certo meglio formulate –  da millenni. Per millenni i filosofi, i teologi, i moralisti, i letterati, si sono chiesti ad esempio: cos’è l’anima? (Il termine "coscienza" non era così frequentato, nei tempi remoti). Conoscere la risposta avrebbe significato capire quale legame intratteniamo con un essere superiore e cosa ci distingue dagli esseri inferiori. Questione importante, come vedremo tra poco. Oggi ben pochi si pongono la domanda negli stessi termini: l’anima pare alquanto scesa nella classifica dei nostri interessi.

Tuttavia è anche vero che le conseguenze che si intende ricavare dalle eventuali risposte alla nuova domanda – cos’è la coscienza? – non sono così differenti da quelle che si sperava di ricavare indagando l’anima. Cosa ci fa essere umani? In cosa ci distinguiamo dai non umani? La coscienza infatti, non diversamente dall’anima, è considerata un discrimine. Essa è ciò che, si ritiene, rende personali le sensazioni, le rende esperienze vissute, prime tra tutte le esperienze della gioia e del dolore. Sapere di soffrire – o avere la potenzialità come specie, se non come individuo, di tale sapere – è considerato il limite sopra il quale si debbono applicare rilievi di tipo etico e morale. Senza tale potenzialità di consapevolezza si ritiene infatti – esplicitamente o meno, non importa – che la vita non differisca in sé dal mero "funzionamento".

LATO B
Se ti taglio una mano, chi è che prova dolore?

Un meccanismo non prova dolore nel rompersi. L’aragosta immersa viva nell’acqua bollente, invece, si dibatte e "urla" il suo dolore in un modo che ci spinge al raccapriccio (a meno che non siamo cuochi professionisti). Ma se quel dolore non fosse che la mera somma finale di meccanismi biochimici – una tal sollecitazione provoca una tal reazione e così via – senza che vi sia alcun soggetto "lì dentro" capace di consapevolezza, o senza che in alcun punto del percorso biochimico si rintracci una qualche sostanza capace di suggerire la presenza di una tale capacità, quelle urla diventerebbero simili in modo imbarazzante allo stridore assordante del metallo un istante prima che l’ingranaggio si spezzi. Nel caso dell’animale, sarebbe una parte di un meccanismo funzionale alla vita che non implica di per sé alcuna consapevolezza: forse quelle urla altro non sono che un tentativo, sviluppatosi durante l’evoluzione, di spaventare l’aggressore, senza che ci sia dietro alcuna coscienza e tantomeno alcuna scelta consapevole e vengono attivate, in questo caso, per una sorta di errore o imprecisione percettiva che scambia il bollore per un aggressore animato e pericoloso. E come non avrebbe senso porsi scrupoli etici nei confronti del metallo, così le aragoste continuano a finire nell’acqua bollente.

Naturalmente viene da chiedersi: le aragoste sì, ma i gatti? I cani? I cavalli? I bambini? A che punto si situa la linea che separa la zanzara da tuo figlio? Si conducono esperimenti su animali di ogni tipo, anche se con quelli ritenuti superiori ci si fanno maggiori scrupoli, o meglio si elaborano ipocrisie più complesse, ma di certo non ci si fa scrupolo di sopprimere intere schiere di maiali e ricavarne salsicce. Giriamo quindi il problema su se stesso: se il dolore può essere considerato un mero meccanismo nell’aragosta, forse può esserlo anche in me. Anche io urlo, anzi io soffro: non sono mica solo un rompersi, non sono solo un dolore sviluppatosi evolutivamente e funzionante biochimicamente, io sono una sofferenza, un “io soffro”! Almeno credo. Ma forse no. Forse questa mia "coscienza" è solo un gioco di specchi: l’urlo è un meccanismo evolutivo e quella che chiamiamo volontà, espressione eminente del "me stesso" che suppongo di essere, non è che una pia illusione, qualcosa che giunge a cose fatte e si prende meriti non suoi. Ci illudiamo, riempiendoci la testa di entità inesistenti, puri labirinti autocreati, quando in realtà noi "veniamo vissuti" piuttosto che vivere. Quindi che non c’è alcun valore in me che non ci sia in una formica, o detto altrimenti: non c’è alcun valore in me tout court. E nemmeno in te. Sappilo bene quando farò di te quel che più mi aggrada.

Si capisce bene, viste le conseguenze, quanto sia stata grande l’importanza attribuita alla domanda iniziale: dalla risposta dipendeva forse la possibilità stessa di una qualsivoglia regola sociale.

Ma a furia di dibattiti furibondi, è pur vero che invece di avvicinarsi a una risposta, si moltiplicano le domande. Ecco di seguito un breve elenco di quelle più diffuse tra i partecipanti.
La coscienza è ovunque o da nessuna parte? O solo in alcune parti – in alcuni animali, ad esempio? E che parti di queste parti la producono? È fisiologica, o sociale, o culturale? Dipende dagli effetti retroattivi che la relazione con gli altri provoca in noi? Si tratta di un oggetto "reale", l’azione di un particolare distretto corporeo a lei deputato che l’esprime come una funzione, o è l’effetto complesso ma aleatorio di particolari pratiche, ad esempio alfabetiche, che reinterpretano gli eventi ordinandoli in modo peculiare? È la somma di molte altre capacità, come ad esempio la capacità di apprendere, o qualcosa del tutto diverso, specifico, originale? Oppure è sia l’una cosa che l’altra? E da quando inizia, quando finisce? Si è certi che non possa più tornare? Se non può esistere autonomamente, è lecito considerare disponibile il corpo che potenzialmente la accoglierebbe o l’ha già accolta? O invece si tratta di una potenzialità di specie, la cui assenza eventuale nell’individuo non è sufficiente per dar luogo a quella disponibilità?
Oppure niente di tutto ciò: è solo un’illusione, un effetto superficiale, un riverbero che non gioca nessun ruolo particolare e noi, a ben vedere, non siamo che termostati molto complicati che solo supponiamo di "sentire"? Ma come lo supporremmo? E se tale supposizione fosse errata, una pura bolla vuota e senza contenuto, cambierebbe davvero qualcosa di ciò che noi “crediamo di essere”? Ma soprattutto, non è un errore molto tipico usare un prodotto – lo strumento, il meccanismo – come modello retroattivo per "guardare"  eventi che lo precedono e ne sono a fondamento – i produttori?
E se fosse tutto un falso problema, un’ovvietà che solo noi, dotati di linguaggio, riusciamo a rendere infinitamente labirintica e complicata mentre invece appare in sé elementare e evidente, manifesta nel batterio quanto in Einstein?

È chiaro: qui non ne usciamo vivi.
Dobbiamo ancora domandarci "che cosa c’è dentro di noi, in verità", o sarebbe meglio cambiare discorso?

LATO C (?)
Porte girevoli, o di come la sincerità sia fraintesa

Conscio della mia inadeguatezza rispetto a un compito titanico, provo a cambiare discorso, anzi a prendere la cosa da tutt’altro punto di vista. Chiedere "cosa c’è dentro di me" forse ha qualcosa a che fare con la sincerità. "Cosa c’è davvero dentro di me?", si chiede il ragazzino fornicatore di fronte all’immagine di una vita santa verso la quale si sente così drammaticamente inadeguato. Quali moti mi animano, per davvero?

Spesso invochiamo la sincerità. Ma per essere sincero dovrei sapere prima di tutto cosa sono. Ognuno però sa piuttosto poco di se stesso; come diceva uno, “io sono quello che tra tutti non incontrerò mai” (eppure ne scriveva). Quello che sappiamo di noi stessi è frutto di un gioco di specchi dall’origine incerta. Quindi sincerità sembra che significhi: attingere a un grado più elaborato, anzi più tortuoso, di menzogna, o di costruzione se si preferisce.

Ma non è a questa sincerità che si pensa quando si invoca la sincerità. Ciò cui si mira è un tentativo di scuoiarsi per vedere "cosa c’è sotto", e scuoiarsi è un’attività complicata, che oltretutto sporca il soggiorno. L’idea è che ci sia un nocciolo, un se stesso da sempre deciso, cioè un grumo inesploso da dipanare con interminabile logorrea. È assai probabile che se tutti provassero a essere sinceri in questo secondo e vano modo, singhiozzando uno nelle braccia dell’altro a tarda sera e tirando fuori le paure private più terrificanti e i pensieri di fallimento e impotenza e le terribili piccinerie bell’e buone, denuncerebbero, “dietro” ai propri atti, sentimenti molto comuni: passione, invidia, vanagloria, paura, senso di vuoto, desiderio di compiutezza, piacere, narcisismo, pietà e così via. Non credo scopriremmo niente di nuovo.

Potremmo contabilizzare le rispettive colpe o mancanze e i rispettivi punti di solidità, i pregi a cui ispirarci o gli insormontabili difetti che ci condannano; ma cosa distinguerebbe questa volontà di sapere circa noi o gli altri, dalla volontà di possederli o possederci? E c’è impegno più complicato, tortuoso, impossibile e inutile che tentare di possedere qualcuno o se stessi? Non è proprio il permanere di una distanza la condizione per articolare una relazione? Inventare un discorso su di sé per giungere a un "qualcosa", a un dato, a un "vero-di-sé" collocato dentro di noi che ci faccia permanere nell’essere che siamo, significa a ben vedere sottoporsi a un giudizio etico preventivo, già stabilito, già regnante, su ciò che è bene e ciò che non lo è. E questo giudizio è una profezia che si avvera, che ci trasforma in ciò che il giudizio decide sia "essere una persona".

Se fosse davvero possibile essere "sinceri", non si dovrebbe invece giungere molto presto al silenzio? Guardando dentro di noi potremmo giungere rapidamente a uno spazio vuoto, la non-cosa che ci permette di farci attraversare, di attraversare e di rimanere in qualche modo coesi, cioè di essere diversi da un sasso, ammesso che sappiamo davvero cosa sia un sasso. Si arriverebbe a un curioso “silenzio parlante”, che poi è stranamente proprio quello del sasso, o dell’animale o di noi stessi nel divenire sassi o animali o altro.

"Dentro" probabilmente non abbiamo segreti, solo gli organi interni. Ciò che ci accade e che siamo è tutto in superficie, perfettamente visibile: una visibile e determinata modulazione di carne. Siamo già nella verità e come non potremmo? Il dentro è tutto fatto di fuori. Non serve cercare di entrare negli altri, dato che noi siamo già negli altri, e nel contempo separati da loro, da sempre; diversamente non sapremmo per esempio parlare o fare un sacco di altre cose che normalmente facciamo "con" gli altri, dentro e fuori dagli altri, tra cui desiderare, soffrire ed essere indifferenti.

Quell’attività prepotentemente tautologica che è la costruzione di comuni forme e modi di vivere-assieme, non consiste nello scoprire la rispettiva verità, che è già tutta alla luce del sole (o non sarebbe) ma nel costruire forme di transitare gli uni negli altri. Riti, se si vuole chiamarli così. Forme pienamente vuote. Agio, anche se spesso disagio. Scrivere, ad esempio, può essere uno di questi riti che, come gli altri, ci fa diventare ciò che già siamo, spostandoci tuttavia impercettibilmente di lato e aprendo una nuova distanza. Non per costruirci sopra la nostra sincera verità. Per smantellarla, magari.

Non ci sono ovunque serrature, né chiavi, solo porte girevoli e noi siamo queste porte, questi transiti. Meno la porta è ostruita, più il transito funziona. Scrivere può essere un buon modo di levare intoppi, di scartare e lo scritto è lo scarto, il suo resoconto. Quando lo diciamo bello è perché parla di sé (parlando d’altro!) e piegato amorevolmente su di sé, si narra. Così possiamo alla fine persino amare noi stessi e il nostro corpo che piega e segna il mondo, operazione la più ovvia e complicata di tutte.

(*)
nota
La domanda che fa da titolo a questo post – cosa c’è dentro di me? – è stata rivolta tempo fa dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara ad alcuni blogger, tra cui il sottoscritto, assieme all’invito a rispondere con un pezzo di max 1400 battute, che sarebbe poi comparso sul sito del giornale suddetto (va detto che il senso di quella domanda non era: "cosa c’è dentro Giuliano Ferrara", come si poteva forse arguire, quanto piuttosto: "cos’è la coscienza?", oppure: "cosa siamo noi?").
Il pezzo che precede non è mai stato inviato. Il motivo mi pare (tragicamente) evidente.

8 thoughts on “cosa c’è dentro di me?

  1. Ah finalmente, che bel post! 
    Ho apprezzato tantissimo lato A e B (un po’ meno lato C, ma è questione di gusti). 
    Qualche osservazione:
    1. grande incipit (mi piacciono gli incipit).
    2. tu che osservi la tua mano e sai di osservarla secondo me sono due cose diverse solo da un punto di vista logico, ma mentre succede sono la stessa. se no oltre alla vista ci vorrebbe un altro senso che percepisce la vista, e poi un altro senso che percepisce il senso che percepisce la vista, eccetera. non funzia. per la nostra specie la percezione contiene la coscienza della percezione. non mi vengono in mente controesempi: come farei a vedere qualcosa senza sapere che io lo sto vedendo? (forse i sogni, ma dato che non ci sono oggetti esterni parlare di percezione è improprio).
    3. alla storia degli animali-meccanismi, io non ci credo. non c’è bisogno di essere coscienti per provare dolore. e perché il dolore senza coscienza non dovrebbe essere dolore lo stesso? (anche l’aragosta cerca di saltare fuori dalla pentola quindi con il dolore – a modo suo – ci fa i conti). non c’è dubbio che la risposta comportamentale sia un "meccanismo" forgiato dall’evoluzione ma non facciamoci fregare dalle parole: diciamo "meccanismo" per modo di dire. anche chiudere gli occhi quando un oggetto mi sta arrivando in faccia è un meccanismo forgiato dall’evoluzione ma non per questo quando chiudo gli occhi sono un robot. 

    Complimenti per il post, divertente e chiaro. leggerlo è un piacere.  

    P.S. curiosità: il motivo tragicamente evidente è che il pezzo supera di molto le 1400 battute o che a Ferrara non piaceva la risposta? 

  2. grazie
    nel tuo punto 2, tu arrivi alla stessa conclusione cui arrivo dopo la primissima analisi (regresso all’infinito). però poi risolvi la cosa dicendo che la coscienza è connaturata. eh, troppo facile 🙂 mi pare la stessa soluzione nominalistica discussa a metà del Lato A.
    i lati A e B sono in realtà un’elencazione, fatta coi miei strumenti, di argomentazioni correnti (dennet, searle, i comportamentisti, quelli che cercano la coscienza nei neuroni, i fautori di intelligenza artificiale debole o forte e via discorrendo).
    Il lato C invece è una contraffazione spudorata di un mio post di 4 anni, solo ritoccato nella forma. avrei dovuto riscriverlo tutto per trasformare quelli che sono deboli spunti in argomenti forti, il che mi avrebbe richiesto troppi sforzi. per i miei scopi andava bene anche così.

    (il pezzo supera la consegna esattamente di dieci volte. mi pare un motivo più che sufficiente per non poterlo pubblicare 😉 )

    bg

  3. ciao tu, ciao alle mani di tu.

    ammetto d’aver letto i vari lati velocemente e quindi potrei essere ridondante o fuori luogo, ma mi permetto lo stesso di buttar lì una lettura (ché magari avrai già fatto, ma tant’è):  J. Le Doux, "Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quello che siamo" – Raffaello Cortina.

    stammi bene.

    a
    b

  4. Caspita! Hai un dono della sintesi stupefacente! Con chiarezza cristallina – e con la forza d’un diamante – hai riassunto perfettamente una "visione esistenziale-fenomenologica" (ma tieni presenti le virgolette eh!) che mette insieme molte cose… Mentre leggevo mi venivano in mente Hofstadter, Dennet, ma anche "pensatori" (scrittori) come Kundera, Cioran, Calvino, Pessoa… A colpirmi, soprattutto, è la FORMA, lo STILE, e proprio quelle che Italo Calvino nelle "Lezioni Americane" indica come qualità di Esattezza e Rapidità… Hai scritto un breve saggio davvero incisivo, sublime, avvincente (l’ho letto tutto d’un fiato, ma con inpotica attenzione, parola per parola), in perfetta sintonia col mio modo di concepire molti aspetti della "realtà umana" e non solo…. Bravo. Tanto di cappello!…

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