ferro-cemento


Il rovescio

Pare vivo sulla tenda bianca invece
è solo l’ombra stampata dal sole.
Il moscone è fuori, in verticale attesa
di uno spiraglio improbabile nel vetro
oppure – impenetrabile sorriso delle cose –
naviga i mondi acquosi che scorrono
su quel frammento di bolla,
terribili e lucenti,
all’infinito replicati dalla superficie.

Siamo gli antipodi di questo segreto trasparente
la soglia inapparente su cui tutto accade.

La memoria è nel phon

Mentre strattono il groviglio riottoso del cavo
mi ricordo, accade sempre a questo punto,
che da bambino un gesto non più maldestro
del mio attirò sullo zio lo scherno di mio padre.
Il rischio del corto rimane a paradigma:
tra i Titani non filava tutto liscio.

Dipano il cavo con attenzione pensando
a quel parente diminuito, scomparso.

L’uomo nel sacco a pelo

In fondo alle scale che dalla Stazione Centrale
vanno alla metrò c’è un uomo disteso ogni mattina
dentro un sacco, la testa rivolta alla parete.
La fiumana lo lambisce, nella nicchia del fiato

raso il muro l’uomo sembra addormentato, non pare
scuoterlo la calca muta. E sorprende l’ardimento
dello sterpo che resiste alla piena, della foglia
che ruota nell’ansa ammattita larga un metro appena.

Ferro-cemento

Sulla massicciata la pietra brulica
freme il ferro-cemento, metodico mi allineo
al punto (sta tra la piega nell’asfalto
e una retta dallo spigolo del muro).
È un luogo statistico e premeditato,
conta il freno del macchinista
e il numero dei vagoni, conta il ritardo
e perfino l’umore della fidanzata
che ne domina i riflessi o il piede.
 
Risalgono le bolle delle variabili
ignote, sospettate, ma io mi tengo
al ramo con le tacche incise
alla sequenza dei fatti accumulati – e così
oscillante produco l’incisione, sono la sagoma
di cartone, la fettuccia semovente
dei punti di rincorsa.

Sulla mattinata l’azzurro medita
e al centro dell’immagine fiorisce,
sboccia nel punto di fuga delle linee
collassate poi cola sulla banchina
e mi rapisce.

Reciproca contumacia

Se ti descrivo l’aggettivo
torna indietro, punge la lingua
la spina, la mina incandescente
brucia il dito.
Rossa la stilla apre una mappa
sulla mia camicia, la traccia
nasconde il mittente, infilza
la freccia il suo mandante.
Tu sei quel recipiente
che riempito riempie me,
ma quel che so mi travisa
e quel che vedo l’hai già tolto:
il riflesso mi inganna, nei lampi
del vetro si ritrae la luce.    

 

fine della caccia


L’insetto morboso

sfreccia sulla mano
ogni solco o segno
o tortuosa pista lo riaffaccia
al baratro
della pianura di carne

dapprima la camminata
in ricognizione, poi la misura
e l’indagine: calibra
gli strumenti di rilevamento
saggia e morde la moneta
che sia solo moneta

procedendo per palpazione
scruta e tasta
rovista l’investigatore
aguzza la vista
e l’indizio lima la traccia
dell’indiziato

e attende tra le foglie
l’uccello di passo
a sua volta atteso
il bracconiere a specchio
i suoi cani umiliati dal fucile
del guardacaccia

poi il perimetro di polvere
e sassi raspato all’infinito
rastrellato dal passo
di tacchino, parentesi inetta
anello inanellato
nella catena dei volanti

ma non c’è prova
provata e perquisita
del brancolare frugato
al setaccio della verifica
la curiosità ha fatto
lo spione inesplorato

quindi l’esploratore
senza mappa giunge
nel nessun luogo
se perdersi diventa una rotta
di apparizioni
e tanto gli basta.

doppio errore

I
È passato in fretta il tempo dei saluti
sospesi, delle mezze parole
mezze frasi interrotte
le nocche dell’uomo di fronte
sono aperte lungo una linea obliqua
(ma perché tace il ricordo
della lama?)
sui fili sventolanti brachette
gialle stese ad asciugare
guardando giungere il treno

certe volte perdi la presa
l’incavo della mano
si spiana o forse i fatti
li attraversa come si dice
che i fantasmi trapassino i muri
è restare come l’ebete
che fissa l’intonaco una crepa
una non crepa all’infinito
cercando riparo in una lingua
morta da resoconto da catalogo
riepilogo nemmeno veritiero
risuona per moto involontario

II
non avere fretta prima o poi
si compone un’immagine
le tessere mosse da mani invisibili
i profili combacianti
sarà un movimento anonimo
come la brama del magnete

certe volte felici sai che non lo prendi
il mondo si prende
da solo in forma di mano
stai tra le cose amate
disamate radente a un muro
storto serpeggia la fenditura
vertigine oscura della soglia

poesia incivile


1. matrie lettere

Cercavo una buona causa
ma i versi del babbuino
non servono in guerra
né si poteva sventolare il foglio
in segno di pace
per quanto lavato più bianco
o come corsetto antifucilazione

così non avendo i bambini soldato
mi sono rifatto sul precariato
scusate non è molto
siamo un paese sovrasviluppato

al male però non c’è rimedio
soprattutto al mio
portafoglio
non mi resta che affidarmi a
Ma
nitù.

2.  la musa

la musa è parsimoniosa
o forse inappetente visti i risultati
dicono che l’irrilevanza sia un problema imbarazzante
che un’immagine vista da un treno non sia
un’immagine vista da un treno
che la pagina debba contenerne di cose
fino a scoppiare e il botto allora si sentirà
anche in cina, o in copertina, sembra
che dobbiamo credere alle favole
cocciutamente (io mi adeguerei ma quali?)
che l’io vada esiliato (come non fosse
un lusso averne uno)
o almeno gonfiato a rospo
a simulare un tesissimo nosotros
– l’esso non è in vista
nemmeno come benzinaio –
che questo vuoto a specchio
sia il ritratto della futilità e
su questo, lettore, concordo.

3. la toppa e il buco

4. autopticon

cosa c’è dopo il nulla
quando la lima col suo lavoro certosino
ha ridotto la punta a un punto
ha espunto, scartato, indirizzato altrove
piallato ogni rilievo
sfrondato a colpi d’ascia
netti l’agave bonsai sul terrazzino
i lividi del mio linguaggio
fanno l’autopsia al mio mondo.

la poesia, signora mia

La poesia non la legge nessuno
da che mondo èccetera, i poeti medesimi
magari e le signore, ma l’oblio
è un gran vantaggio
perché alla quarta riga l’estensore
nel fuggi fuggi generale
potrebbe osare private confidenze indiscrete
inconsuete almeno, inascoltate, alla settima riga

puntare all’impudico o al dileggio ma dissumulando 
per non attirare l’occhio già assonnato sulla nona:
eccolo inveire su governo opposizione
e sulla nazione tutta, compreso chi legge, all’undecima poi
quando il gregge è dileguato
(resistono esteti a malpartito
e maratoneti) può sbraitare contro vescovi
santi papi eroi e navigatori
alla sedicesima, ci siete tu e lui,
tocca al padreterno al padrepio e a tutti i pippibaudi
alla diciotto poverino è solo, ripensa ai maestri, professori, bidelli e tutori
dell’ordine o scrittori di eroici furori
e senza pudori – poiché a venti è cifra tonda –
ragliando li manda tutti a quel paese per non parlare di amori
antichi con la muffa, albe tramonti tutta la poetica
opera buffa in disuso ecchi più ne ha ne ha
e infine chiuso l’arco delle ventiquattro
si sfancula da sé vivaddio!
e già che ci siamo ci vado pure io
voi restate in pace la messa qui è finita
se diovuole si tace!

La poesia la poesia non la legge nessuno
infatti è noiosa non come le melisse
melasse o i re dell’orrore candito che ammanniscono
storielle di sedicimila fogli avvincenti
come l’edera, a buon rendere tuttavia.


Guardi i monsoni rotolare nell’oblò

della lavatrice, le mollette colorate
appese ai fili o sono pesci messi a secca
a Monte Isola? L’andirivieni del mare
fa risacca tra le tende a perline della porta,
la voce della nonna che ti culla suonerà
una canzone di mondine.

Così nuovo sei che non fa nulla
se il senso è proprio o ritrovato
quasi una poesia in forma di neonato.

il bello del mattone

La poesia è un bene rifugio
come il mattone nei tempi di magro
non ci costruisci niente
e la resa è fissa dai tempi del latino
quasi zero, ma ci stai
come il vecchio che riposa fuori l’uscio
due stanze, servizi, qualche quadro
la lumaca attorcigliata nel suo guscio

toccata e fuga

I
in sogno agitavano la mano
se ne andavano!
restavo balconato tra i saluti
confinato nelle mie stanze
di reperti all’incanto

un tempo ai miei anteposi
la dea della minuzia
ma quella è miope e non vede
a un palmo dal naso
ne persi le tracce all’istante

II

l’acqua arabescata sale
dal tavolo in cucina sopra il foglio
gli anni disegnano sul volto
una raggiera, piumaggio
di fili intorno all’occhio

la materia in spire avvolta pare
muta, non li senti i sussurri
nel frastuono. Se la vena
esibisce la bellezza vorace
le tue carni già pregusta.
 

adesso

in questo istante
ovunque disseminato
un milione di lattanti
lascia cadere il gioco
afferrato dal bordo
del seggiolone
senza che si propaghi
il terremoto
ma sono tanti di più
gli uomini che aprono
l’ombrello al cielo grigio
all’unisono dieci milioni
suppergiù pronunciano
la parola credi?
molti meno compitano
misogino con tono
sospettoso sulla punta
delle dita

un miliardo di signore
si aggiusta la chioma
la mano a pettinino
una più una meno
e sono centomila i vasi
in fiore che spiccano il volo
proprio ora (le teste
centrate? dieci appena)
innumerevoli vecchi
diciamo tutti quanti
hanno sbuffato un secondo fa
ma non s’è alzato il vento
dai fiati e dai sospiri
e quanti tanti, vero?
pensano come me
ritratta la mano da un luogo
qualsivoglia a quante
simili ritratte mani
da infiniti luoghi
di qualsivoglità
ad esempio ecco, quella là
compongono questo coro infinito
di raddoppi combacianti

ora per ora
questo impensabile mondo
in contrappunto, la beata
simultaneità