il panettone migliore è quello morto

un giorno, che era ieri, andavo dal nonno col tram 29 e c’erano due signori col cappotto che aveva la pelliccia di cane al collo e i signori avevano i bracci pieni di pacchi di natale, e non so perché ma uno diceva all’altro: che i panettoni non sono come una volta a meno che non spendi un sacco di euri, e l’altro diceva: che è proprio vero ma lui li mangiava lo stesso perché era la tradizione, diceva. non volevo sembrare che li ascoltavo da maleducato, così mi sono girato e per la strada dal tram ho visto un signore in bicicletta che volava perché aveva topiccato in un panettone che era lì da prima ma non l’aveva visto, e il signore volante quando atterrava era scontento, quasi come mio nonno quando ha perso l’inter e diceva un sacco di parolacce anche belle pesanti. che poi io so che a milano i panettoni li toglieranno tutti perché coi paraurti ci picchi sempre dentro e dopo devi spendere un sacco di euri per le riparazioni, e la moratti ha detto che è una cosa incivile e che sono anche brutti e antistetici, tranne quelli dipinti da un signore ma non ricordo il nome forse quelli lì li salveranno in una mostra dei panettoni dipinti da pinguino, cioè panettoni pinguino. ma io non sapevo che si mangiano anche. non è contro la legge degli nimalisti o una cosa del genere? mio nonno dice che il cane migliore è quello morto perché una volta un cane pitbul l’ha sgagnato alla gamba mentre era ai giardinetti a leggere il giornale e a lumare le signore che portano i cani ai giardinetti, ma anche questo è contro la legge, cioè mangiare i cani, non so se coi pinguini è diverso, anche se sempre mio nonno ha detto che in cina li mangiano i cani. tutti interi gli ho chiesto no a fette col panettone a natale per festeggiare che ‘sti cazzo di cani sono morti ha risposto, così penso che i panettoni alla fine si possono anche mangiare, ma i cani no, perché non siamo mica in cina.


il panettone tipico di milano


il panettone artistico

panettoni buoni?
artisti del panettone

de blogo bellico

o l’autoritratto impossibile, con tanto di botola e arti sparsi

(…) Quando poi la memoria prese a ruotare su di sé per via di certi segni che ritornavano, di certe coincidenze, di segnali inaspettati che muovevano corrispondenze che solo per noi avevano senso, avemmo l’impressione che il ricordo girasse intorno a un asse invisibile ma uniforme di comprensione e di significato, ci colse cioè la sensazione di acquisire spessore. Così, molto sollevati, credemmo che la memoria non fosse che la premessa della storia e quindi si potesse narrare, che l’indagine fosse in corso e il colpevole alle strette. Senza pensarci cominciammo a percorrere in lungo e in largo il piano proiettandovi ombre, con grande entusiasmo. Tuttavia nel momento in cui quella storia, che pareva la nostra, venne alla fine tutta narrata o meglio scritta, l’episodio adeguatamente drammatizzato, romanzata la formazione, chiuso il quadro e la cornice, i problemi che credevamo finalmente in via di felice risoluzione, cioè il problema della coincidenza di noi con noi stessi, il problema dell’articolazione dei fatti, il problema della loro messa in gerarchia, della loro dominazione e disposizione come satelliti intorno al loro sole che poi eravamo noi, così da poterne parlare con noncuranza come si fa ogni giorno parlando di questo e quello cioè di ciò che abbiamo o pensiamo di avere a disposizione, tutti questi problemi, scoprimmo con terrore, si erano in realtà moltiplicati. Fummo avventati, o ingenui? Come si poteva sperare di trovare consistenza disponendo tutte le parti su un piano non più spesso di un foglio, anzi, proprio su un foglio? Prendersi in una scrittura così intesa, laddove i fatti slegati da qualsiasi memoria apparivano prima di tale presa sfrangiati, sconnessi, incongrui e noi con loro, del tutto insaputi, aprì infatti ulteriori ambiguità poiché la scrittura è l’assente per definizione, il morto che parla al vivo. Ecco che nella storia appena scritta i personaggi così ben torniti e messi lì col loro cipiglio come statuine nel presepe malauguratamente non coincidevano con i narratori, come avevamo dato per scontato e nessuno di loro coincideva del resto con gli attori che li mettevano in scena, e degli autori poi nessuna traccia; ognuno di costoro andava dalla sua parte in libera uscita, le gambe di qui, il tronco a destra, le braccia per conto proprio. I profili non erano ben sovrapposti, gli scarti si allargavano, gli anfratti invisibili diventavano botole e noi finimmo per caderci dentro come chi, volendo prendere un oggetto caduto sul fondo di una botte, ci si infila e rimane lì a penzolare al contrario col culo e i piedi in alto, incapace di trovare rimedio. Una posizione sconveniente. La speranza di venir raccolti, legati, precipitò senza che nemmeno ci accorgessimo: la misura, che credevamo naturale e spontanea e che sommessamente ci inorgogliva, invece proprio lei vacillò, noi non eravamo noi ma una caricatura (e la caricatura rivelava sì una verità su di noi ma di traverso o di riflesso, contro la nostra volontà, nostro malgrado, faccenda che gli altri non esitarono a farci notare, ciò che poi si rivelò la nostra salvezza). Lo scacco fu tale che per venirne a capo alcuni non trovarono di meglio che farne una professione. È a questo punto che ci venne il sospetto che la piegatura che aveva dato forma alla forma non avesse gemmato da quel tronco e che nella memoria, nella scrittura che la narrava, infine nella storia non ci fosse alcun riassunto disponibile, alcun asse di rotazione stabile che andasse evocato o ricostruito. Ci venne insomma il dubbio che la storia, regno della finzione o meglio della possibilità, giungesse a dire una verità o meglio a parlare di fatti non contro la propria natura, nell’autentico, ma attraverso quella natura, nello scherzo, cioè il più possibile lontano da noi. Come procedemmo a quel punto, riemersi dal naufragio su di un una scialuppa malconcia e strapazzata, laceri, ma vivi, non è faccenda che meriterebbe da sola l’attenzione di un intero racconto d’invenzione?

una giornata di Elisio Bretoni

Ero lì che vagavo in questa Feltrinelli che mi sembrava a dire il vero più grande del normale: pile di libri a grande tiratura innalzate ovunque, libri ordinati secondo regole stabilite centralmente dagli uomini del marketing, la muraglia cartacea del giornalista natalizio, il romanzume italiano e internazionale, tutto un percorso di guerra di instant book, trincee di precotti pronti per l’assalto all’acquisto culturale. Non è che avessi un piano, ma quando ho visto il fortino dell’ultimo Ammanniti, alto come un uomo di statura media e che probabilmente poteva anche inghiottirlo un uomo di statura media m’è tornata in mente un’intervista da Fazio.
-Ammanniti: Quelle periferie, quelle distese di nulla, di case, di fabbriche, di villette, quelle distese tra una città e l’altro in cui noi (ma noi chi? mi chiedevo io) passiamo magari col treno senza fermarci, attraversandole velocemente…
-Fazio: In cui tra l’altro abitano moltissime persone, a volte in condizioni disagiate…
-Ammanniti: Esatto, ecco, quell’immagine, quell’umanità mi ha ispirato prima di tutto nello scrivere il mio ultimo…
Ma noi chi? mi ero chiesto ascoltando esterrefatto i due che parlavano dallo schermo. Perché parlavano a me, ma soprattutto di me, visto che io lì ci vivevo, invece loro non ci vivevano, passavano soltanto sul treno, e tuttavia quel tizio di cui avevo letto un libro mediocre di quelli tutto trama per stimolare sentimenti e diuresi aveva scritto un libro su di me, senza conoscermi, che razza di faccenda è questa mi ero chiesto, cosa ne può sapere, e cosa posso imparare io da quel libro se non ciò che lui immagina di me senza conoscermi, cioè cosa posso conoscere se non la sua testa, il suo ambiente che mi considera alla stregua di un paese straniero e pretende comunque di spiegarmi cosa sono. Ci ero rimasto male insomma. Così quando ho visto la fortezza di Ammanniti ho pensato fosse il caso di applicare le regole di quel gioco di spostamento, innocuo e forse un po’ infantile ma piacevole e almeno fonte di un vago senso di risarcimento. Mi sono diretto verso gli scaffali e ho preso un paio di copie del libro di Moroni da una piccola pila appoggiata su un bancone laterale, sono tornato al fortino e le ho deposte sopra. Almeno questo lo conosco mi sono detto. Almeno è solo al secondo libro, ha tempo prima che la macchina lo stritoli costringendolo a parodiare se stesso per quindici romanzi di fila, a gettare via i propri sogni di ragazzo, a tradire se stesso. Sapevo che quei pensieri erano sciocchi, dato che in realtà non si può non tradire la propria infanzia, tuttavia come previsto il gioco mi aveva fatto sentire meglio. Mi sono allontanato di qualche passo e aspettavo che qualcuno passando notasse il libro di Moroni nella sua nuova e centralissima posizione e si mettesse a sfogliarlo, e mentre aspettavo mi veniva in mente il libro che avevo letto in treno, Lunar park di Bret Easton Ellis. E senza pensarci, come se fossi mosso da una forza superiore, sono andato allo scaffale dei romanzi e ho cercato il libro di Ellis, di cui pure una copia stava già nella borsa che avevo a tracolla, oltretutto una copia autografata dall’autore (la dedica era: Patrick Bateman does not exist, scritto a caratteri grandi in una calligrafia decisa, aperta e simpatica, poi la firma e sotto tre righe parallele tracciate velocemente con la biro blu che gli era stata prestata per l’occasione). Ho preso il libro di Ellis e sono tornato al bancone in cui giaceva la piccola e defilata pila di romanzi di Moroni, e ce l’ho posato sopra sopra. Perché lo avevo fatto? Era una sciocchezza, anche se di certo Moroni non lo sarebbe mai venuto a sapere, ma che senso aveva questo gesto dopo che io stesso avevo messo Moroni sopra ad Ammanniti?  E soprattutto, perché mi stavo facendo queste domande, come se non fossi stato io a compiere l’operazione? Ripensavo al libro di Ellis e provavo a capire se per caso ciò che mi aveva spinto – ma continuavo a pensare: spinto chi? sono stato io a farlo! – andasse cercato nelle differenze di stile tra le due letterature, l’italiana e l’americana contemporanea, e continuando a pensare mentre tra l’altro me ne stavo piazzato in mezzo al corridoio e parecchie persone avevano già manifestato un certo disappunto perché rendevo faticoso il passaggio, mi è venuto in mente Oblio di DF Wallace, un libro che per qualche motivo consideravo vicino e lontanissimo dal libro di Ellis. Ma non è vero che stavo in mezzo al corridoio: senza che mi fossi reso conto dello spostamento adesso ero di fronte allo scaffale con la lettera W. Ho preso il libro di racconti di Wallace e con una certa compiaciuta sorpresa mi sono avviato verso la lettera E. Lunar park resisteva ancora, nonostante si trattasse di un libro dell’anno prima, in una piccola fila di libri a tutta copertina sullo scaffale mediano, e non in costa come tutti gli altri, famosi e mezze tacche ma ugualmente non in classifica: senza pensarci due volte ho messo la copia di Oblio davanti alle copie di Lunar park, rendendole invisibili. Mi sentivo completamente idiota e tuttavia in qualche modo anche soddisfatto, come se stessi ristabilendo una sorta di ordine, peraltro assurdo, come potevo ben capire. I racconti di Wallace… quel loro procedere sperimentale, quel parlare di sé dentro materiali di tutti i giorni ma anche stravolti dall’assurdo, freddamente e anatomicamente considerati… Non sapevo per quale motivo e non me ne sono stupito, cominciavo a non stupirmi più delle bizzarrie di quella mattina, ma le gambe mi avevano riportato di nuovo alla lettera M. Davanti ai miei occhi stava, ben incassata nella sua fila, la costa di Centuria, il mostruoso romanzo di romanzi di Manganelli, l’opera in grado di gettare nella costernazione qualsiasi aspirante narratore per l’impossibilità del paragone. L’ho preso e naturalmente mi sono avviato verso la lettera W. Pensavo ormai di aver capito il gioco, di controllarlo. Ho infilato il libro nel buco lasciato prima dallo spostamento di Oblio, ma appena ritratta la mano ho guardato la costa: non era  quella di Centuria, era la costa di una copia delle barzellette di Totti (il secondo volume per la precisione). Ma com’era possibile? Non potevo aver sbagliato libro. Mi ricordavo di aver visto la copertina di Centuria, di aver tenuto in mano il libro. Centuria si era trasformato durante il percorso dalla M alla W. I libri non si trasformano mi sono detto. Forse sei solo distratto, hai posato Centuria da qualche parte e ti sei messo a sfogliare le barzellette e poi te ne sei dimenticato. Può succedere di fare una cosa soprappensiero. Deciso a chiudere questa parentesi imbarazzante ho preso il Totti per riportarlo al suo posto (non sapevo quale fosse), ma dopo alcuni passi ho deciso che era meglio lasciarlo in un posto qualunque: non sarebbe stata una cosa grave visti i precedenti. Mentre lo deponevo su uno scaffale di storia, sopra a una copertina che proclamava l’avvento di un periodo di gravi turbamenti a causa di certe interpretazioni di un antico testo arabo, il libro di Totti si era trasformato di nuovo: ora era Finzioni di Borges. Questa volta mi sono spaventato sul serio. O dalla mia memoria colava fuori tutto quanto e il mio prossimo futuro era un ricovero per la cura delle malattie degenerative del cervello, oppure stava succedendo qualcosa di pazzesco. O forse…
Mi sono chiesto come mai la Feltrinelli mi sembrasse così grande, così più grande rispetto a tutte le volte che c’ero venuto. Le pareti non erano allo stesso posto. Anzi, ora non riuscivo nemmeno a scorgere la parete in fondo al lungo magazzino, completamente immerso in una luce bianca e piatta. In quel momento un uomo più basso di me con la barba incolta mi ha urtato il braccio e ha sussurrato qualcosa di incomprensibile. Mi sono voltato di nuovo e stavo davanti alla lettera D, sezione fantascienza. Sapevo perché ero lì. Anzi, sapevo perché non ero affatto lì. E perché niente era lì, in effetti. Ma ricordavo gli ultimi istanti, l’uomo che ha gridato e poi un lampo. Dovevo uscire subito da lì o sarei morto, sempre che non fossi già morto. Ho afferrato L’uomo dai denti tutti uguali e l’ho scagliato con forza contro la parete, facendo crollare di colpo tutto quanto.
Due colpi infatti, ricordavo bene, uno all’addome e uno alla gola: naturalmente ero svenuto, esattamente come il doctor House, ultima puntata della seconda serie che avevo visto di recente (ma quando? non lo ricordavo) ma questa volta era tutto vero. Aprendo gli occhi mi sono accorto che stavamo percorrendo un lungo un corridoio, o meglio loro lo stavano percorrendo, io me ne stavo in barella e sentivo un sapore dolciastro e appiccicoso in bocca e una fitta leggera e sopportabile là in basso. C’era concitazione ma stranamente io ero perfettamente calmo: uscire da quel sogno mi aveva rinfrancato sulle mie possiblità di controllare la situazione. Al mio fianco ho scorto Caddy, vedevo la sua bocca muoversi ma capivo solo le parole "colpito", "blogger", "sala operatoria". Ho provato a rassicurarla: stavo bene, davvero. Ho provato a dirle: dovete usare wordpress. Ma ormai eravamo già oltre la dissolvenza finale di quell’episodio.
Questo è quello che credete di aver veduto. Ma quello che è accaduto dopo la dissolvenza non potete averlo visto. E anch’io non ero sicuro di vederlo, perché in breve avrebbe oltrepassato la soglia di sospensione di incredulità che una storia può richiedere, per quanto mi riguarda. Il primo ascensore cui siamo arrivati era guasto, o almeno così diceva un cartello che tutti quanti i presenti hanno letto ad alta voce e all’unisono. Allora hanno girato di furia la barella – ho sentito in quel momento quella che credo fosse un’imprecazione di Cameron, ma stranamente non era in inglese – e mi hanno portato correndo e urlando a un secondo ascensore, che abbiamo scoperto essere completamente bloccato e invaso da scatoloni enormi che un addetto alle pulizie stava portando negli scantinati (ero sicuro che si trattasse di elaborate trappole per topi). Vedevo la disperazione sul volto di Cameron mentre mi lanciavano nel corridoio illuminato al neon verso il terzo ascensore, e mi chiedevo come mai io fossi così calmo e rilassato. Ovviamente anche il terzo ascensore era inutilizzabile per via di un assembramento gigantesco di giornalisti che facevano ressa intorno a un personaggio bersagliato dai flash, il quale teneva a bada quei mastini con la mano e con un sorriso molto disinvolto, e che ero sicuro di non aver mai visto in vita mia. L’assembramento era tale che procedere nel corridoio era del tutto improponibile. Di colpo mi stava salendo un fastidio per questa concatenazione di eventi così evidentemente fasulla e male assortita e così ho fatto per alzarmi afferrando il braccio di Cameron.
Ora però lei non aveva addosso più il camice bianco ma una giacca di tweed di colore indefinibile. E non era più lei. Ho alzato lo sguardo sul quel viso, sapendo che avevo appena trapassato un’altra parete inesistente: adesso ero in piedi e il braccio che stringevo apparteneva a mio fratello. Mio fratello mi guardava con un’espressione perplessa che ho interpretato come compatimento. Ho mollato il suo braccio mentre lui con una voce calma in cui ho scorto rassegnazione mi ha detto:
Il problema è che secondo qualcuno sembri un po’ presuntuoso. Per questo non ti amano.
La cosa mi ha fatto rimanere di sasso, anche se non sapevo perché. Come mai mi dava così fastidio quella insinuazione su un lato che ritenevo secondario del mio carattere? Quasi gli ho urlato in faccia:
Sembro? Sembro presuntuoso? Ma io SONO presuntuoso!
La precisazione non aveva molto senso, mi rendevo conto conto, e non era una strategia di difesa molto efficace rivendicare ciò per cui ero evidentemente oggetto di stigmatizzazione collettiva. Mio fratello tuttavia mi guardava stupefatto: sul suo volto era comparsa una maschera di sorpresa che in breve stava diventando di orrore, come se fosse costretto a guardare qualcosa di insostenibilmente disgustoso. Non capivo il motivo di quell’espressione e ho ripetuto la frase, il che ha fatto peggiorare le cose. Lui cercava di divincolarsi, io continuavo a ripetere quelle che mi sembravano parole innocue ed espresse in corretto italiano. Evidentemente non era così. Sono rimasto ad ascoltare, intanto che mi affannavo a trattenerlo e a ripetere con un tono sempre più alto la frase, uno strano ticchettio che pareva sorgesse proprio dentro la mia voce, in un punto lontano e sommerso. Cos’era? Il ticchettio si faceva più distinto, poi è diventato una specie di gracchiare, sempre più acuto, insopportabilmente disgustoso, finché ha sovrastato completamente le parole che mi uscivano dalla bocca: non stavo parlando, emettevo un assurdo e orripilante rumore, come un fruscio che sapeva di morte, di chiuso, una versione amplificata e sorda dello sfregolio delle mandibole di uno scarafaggio. Mi sono ritratto spaventato da me stesso e ho iniziato a scappare, ma mi trovavo in una casa sconosciuta, che assomigliava a uno dei piani superiori di un grande albergo di lusso in cui ero stato durante il mio viaggio a New York, dieci anni prima. Mi sono gettato a capofitto su una porta: per fortuna era aperta ma nella stanza il buio mi ha fermato dopo pochi passi. La porta si è chiusa dietro di me. Una debole luce veniva da una presa di corrente posta di fronte e illuminava appena poche decine di centimetri intorno a sé di una lenta penombra giallastra e snervante, era come se stessi guardando dentro un baule immerso nell’oscurità sul cui fondo lampeggiassero appena degli oggetti luminescenti, vivi, ma completamente alieni. Ho scorto qualcosa ai bordi di quel fioco campo luminoso e ho riconosciuto il mio gatto. Per motivi che ho rinunciato a indagare era quasi il doppio della sua taglia consueta, e nella bocca semiaperta teneva qualcosa che stava come masticando, qualcosa che tuttavia sembrava non consumarsi sotto i suoi denti. Il suono dei suoi denti era simile a quello, orribile, che avevo emesso parlando con mio fratello. Mi sono avvicinato e ho cercato di prendere quella cosa: mi pareva che fosse assolutamente necessario prenderla, che in quell’oggetto potevo trovare una spiegazione a tutto. L’ho afferrato e ho capito che si trattava di un altro libro, anzi del libretto che avevo pubblicato pochi mesi prima. L’ho tirato debolmente verso di me e il gatto ha mollato quasi subito la presa. Il libro era morsicato ma non  rovinato del tutto. L’ho sfogliato ma per quanto la luce fosse debole non riuscivo a vedere alcuna scritta. Ho pensato di aver formulato male la frase, infatti avrei dovuto dire "a causa" e non "per quanto". Ma non si trattava della luce, erano le pagine del libro ad essere completamente bianche. Tuttavia c’erano i numeri di pagina. A pagina 63 era stampata, a carattere palatino centrato, quella che mi sembrava l’unica frase contenuta in tutto il volumetto (63 è il mio anno di nascita). La frase diceva: La seconda parte della tua vita andrà in onda alle 3.40 del mattino sul canale 2. Ho guardato l’orologio: le 3.41, naturalmente. Ho cercato a tentoni un televisore, che era proprio dove mi aspettavo di trovarlo, in fianco alla finestra, a sua volta nascosta da pesanti tende di velluto di cui non riuscivo a identificare il colore. L’ho acceso e armeggiando coi i tasti alla base dello schermo si è sintonizzato sul canale 2: Rai2 trasmetteva il monoscopio.
Ho capito. Una voce che non proveniva dal televisore (forse dal gatto?) ha detto qualcosa che ormai sapevo perfettamente, e che sapevo essere assieme vero e assurdo: le ore 3.40 non esistono.

Qualcosa mi avrebbe svegliato prima o poi, ma non c’era più effettivamente una gran differenza.

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Libri

la dura verità

sommario

Un uomo colpito sul capo in età precoce da una verità spigolosa si comporta come se
quella verità fosse evidente a tutti. Ma dovrà ricredersi e affrontare un viaggio, al termine del quale…

tutta quanta esposta

Del suo incontro con la verità non è possibile fornire un resoconto certo, se si esclude il fatto acclarato che gli piove sul capo con violenza quand’è ancora troppo piccolo perché possa in seguito ricordare l’episodio. Notizia ugualmente indiscussa è che da quel momento ignoto egli si comporta come se quella spigolosa verità sia evidente a tutti. Anche di questo comportamento non si può tuttavia fornire una spiegazione plausibile che ne faccia risalire la causa a una sua debolezza costitutiva di mente o sentimento piuttosto che a una virtù morale superiore, di quelle inspiegabili che quasi oltrepassano in altezza il limite dell’umano, in ogni tempo convenzionalmente tracciato laddove non si ha alcuna intenzione di arrivare. La fine incresciosa della sua fiducia in questa universale notorietà non depone né a favore né contro una di queste alternative. La rivelazione, lui bambino, potrebbe aver preso ad esempio la forma di una pallonata inaspettata, di quelle precise e fatali che durante i giochi la fronte dell’infante più vicino sembra attirare come una calamita. Forse nel suo caso lo schiocco, piuttosto che grida e pianti provoca un’attonita meraviglia a misura di universo, un esordio in seguito mai più colmato e che al momento dei fatti si presenta al suo più alto grado di sviluppo. Ma si può anche ipotizzare che nessun evento pubblico sia rintracciabile a discolpa della sua condizione; la verità per qualcuno è soltanto quella mano ignota e unghiosa che ancora non nati, trattenendo il calcagno, immerge nel battesimo del destino, così che distinguersi dal liquido infido da cui non si viene più estratti o vedere separato il proprio profilo dal suo specchio, diventa impossibile. Fatto sta che nemmeno l’ombra di un dubbio percorre la fronte spaziosa dell’uomo durante la giovinezza, che passa serena e priva episodi di rilievo: quella rude entrata rimane sotterranea o così diffusa nella sua coscienza da risultare indistinguibile, come un’impercettibile nube. Se del resto escludiamo dall’esperienza una certa dose di contrasti o la capacità di coglierli, è giocoforza che essa ci appaia com’è, né buona né cattiva, tale da non suscitare quell’eccesso di pensieri che ci può rendere infelici. Tra la sapienza e l’ignoranza i saggi non scorgono alcuna differenza, e nemmeno gli idioti, perché tale è il fulgore della luce o la densità del buio che la realtà circostante tende ad apparire alquanto vaga, e comunque non così articolata da rendere necessaria un’indagine ulteriore. Ma questa situazione, immobile come l’acqua nella canicola, è sul punto di scivolare nel buco nero dello scarico.

Divenuto adulto, infatti, l’uomo si accorge in breve tempo che per quanto riguarda la verità le cose stanno diversamente e di molto: egli è l’unico a quanto pare a portare in testa il segno dell’antica collisione. Interrogati a riprova alcuni passanti durante lo svolgimento di una gara podistica cittadina intorno alla natura contundente e manesca di quella sostanza a lui così familiare, tutti indistintamente si limitano a osservare l’uomo con sguardo preoccupato, facendo poi cenno di allontanarsi di un paio di passi, per prudenza. La scena si ripete uguale molte volte, tranne per alcune varianti in cui un ombrello e qualche piccola borsa di pelle animale colma in modo irreale di oggetti ignoti ma singolarmente granitici si trovano a sostituire il flusso verbale, ma in direzione contraria. L’uomo tende a imparare dai propri errori specie se corredati da una quota di dolore fisico; non diversamente dal caso generale, quello particolare giunge in fretta a una conclusione: finora egli aveva creduto che tutti se ne dessero per intesi e come non si sta a questionare sull’esistenza dei nasi o del didietro, anche la verità andasse sotto silenzio per troppa manifestazione. Un grave errore: la faccenda stava – e sta, a dire il vero – proprio al contrario, l’ignoranza sul punto è addirittura universale! Che curiosa situazione, pensa l’uomo: un oggetto così consistente che diventa invisibile. E lui che pare l’unico vedente, poi! Come si spiega? E come rendere visibile l’invisibile? Cioè, come rendere evidente l’evidenza, evidentemente non così evidente? Che imbroglio… Le parole sono così deboli, e pure loro invisibili. Saranno dure a sufficienza per lasciare segni certi sulla testa altrui? Massaggiandosi un doloso e recente rialzo occipitale, l’uomo si scopre a nutrire qualche dubbio circa la gratitudine del mondo.

La sorpresa per la piega inaspettata che la vita adulta gli va riservando rimane a mezz’aria nella sua testa per un breve tempo quando un pomeriggio, fermo davanti a una vetrina di cravatte prodiga di riflessi semoventi, precipita e gli si mette di traverso in zona corticale. Ecco ciò che finora non aveva notato, benché probabilmente risultasse chiaro anche all’ultimo dei menomati: "gli altri" presi insieme possono sembrare uno, ma uno per uno sono sorprendentemente di più! Anche più che sorprendentemente di più: sono un numero sproporzionatamente elevato! Addirittura, nota stupefatto mentre si volta e rivolta girando in tondo sul suo piede, innumerevole è la moltitudine che variamente lo circonda, gli cammina appresso, gli dorme accanto, senza oltretutto che nessuno dia segno di notarlo così che egli pare felicemente trasparente ai loro occhi, e del resto loro lo sono stati colpevolmente ai suoi. Come se appunto di riflessi si discuta e non di esseri in carne e pelle. Anche a voler considerare solo il quartiere in cui abita, computa l’uomo, vi sono più persone di quante egli ne abbia conosciute finora in tutta la vita, che con calcolo giovanile gli pare già dotata di una lunghezza consistente e grave. È poi sufficiente passeggiare lungo una via del centro o fermarsi a osservare la fiumana che procede disattenta e non si può che rinunciare rapidamente alla sovrumana fatica di riepilogare gli individui che scorrono davanti agli occhi uno dopo l’altro o anche tutti assieme. Se poi l’immaginazione cerca di figurarsi per quanto riesce tutte le vie di tutti i centri e magari anche delle periferie, dei borghi, dei paeselli, delle frazioni e delle case isolate che più o meno pittorescamente fanno del mondo un vasto e ambiguo presepe, è facile che l’intelletto perda l’equilibrio. Che ci fa tutta questa gente, si chiede l’uomo, che ci fanno tutti questi umani ognuno fornito di membra in numero generalmente pari, una testa dispari, occhi animati, frasi che escono dalla bocca in ordine imprevedibile e in lingue svariate, ognuno rimemorante anche a richiesta una storia personale fatta di episodi puntuti o di ricordi variamente compendiati a sommario forse in parte persino originali o almeno ad ognuno ugualmente capitati, precipitati addosso e, faccenda scabrosa e imbarazzante, un’abilità nel disconoscere o addirittura opporsi per i motivi più svariati o anche senza motivi alla verità di cui egli pare il solo iniziato? Come si può prenderli uno a uno ed essere sicuri, certi che abbiano davvero capito? E a che serve una verità, altrimenti?

L’incapacità completa di rispondere a queste semplici domande di fronte all’enorme numerabilità del reale lo convince a sufficienza della sorprendente futilità della sua scoperta o vocazione, o chiamata, o come alla fine la si voglia chiamare e lo getta per un certo periodo in una rassegnata accidia e senso di fallimento, che si traduce fin troppo prevedibilmente in un bambinesco moto di protesta e di sciopero a oltranza. Finché un mattino, mentre la saponetta slavata gli scivola dalle mani sul lavabo non immacolato, ecco che una nuova rivelazione non meno indifferente al proprio angolo di impatto delle precedenti lo colpisce chiamandolo all’istante a una nuova impresa che egli, ancora in piedi in abiti succinti davanti allo specchio sbeccato, si figura così: con metodo, ogni giorno, si impegnerà a conoscere una persona nuova nel tentativo in sé disperato ma non inutile né privo di qualche soddisfazione, forse la sola rimasta nel campo avaro del sapere, di limitare giorno per giorno di una quantità ben determinabile la propria ignoranza intorno alla realtà, che così evidentemente si presenta con un’esagerata bulimia di volti e lati.
A questo compito da quel mattino luminescente e saponario si sottomette con dedizione ed entusiasmo. Trascorre dunque tutto il tempo libero sui lunghi marciapiedi della sua città, staziona nei locali fino a notte, si intrattiene nelle pensiline dei tram, sulle panchine dei giardinetti spiantati, conversa con i vicini di carrozza sui treni della metropolitana, si accosta ai crocchi di anziani nelle piazze per inserirsi a tempo in una di quelle conversazioni oziose e sottrarne con garbo uno al gruppo intrattenendosi con quello. Non dimentica di tentare nessuna via tra quelle che il vasto mondo gli offre generosamente e la chiara visione del progetto che si è dato gli rende leggere le brevi difficoltà, i temporanei insuccessi e i limiti personali di imperizia mondana, scadente conversazione e grave timidezza che finora gli avevano reso aliena l’umanità circostante. In breve tempo le persone ogni giorno conosciute diventano da una due, poi cinque, quindi dieci. Fiero dei successi e in pieno incendio per via della fiamma della conoscenza ben nutrita, decide di abbandonare il suo impiego, che ormai costituisce un evidente impedimento alla ricerca, e si licenzia. Nelle molte ore di cui finalmente dispone giunge con metodo e impegno a conoscere ogni giorno una ventina di persone e pur nella brevità e variabilità fugace dello scambio verbale, ritiene di ridurre ogni volta di un tratto certo la propria ignoranza del mondo.

Tuttavia, mentre lento e metodico come i suoi pellegrinaggi pedonali il sapere si accumula, crescono in lui nuove e insperate abilità: impara specialmente a giungere per via diretta, se così si può dire, all’essenza delle persone saltando i preliminari e i luoghi comuni di approccio e di conversazione e tutto quel più e quel meno pomposo o divagante di cui si gonfiano lieti i discorsi, e insomma gli si apre un mondo: rintraccia certe costanti, ricostruisce certe tipologie, certe ricorrenze: impercettibilmente si disegna nella sua mente e si svolge sulla sua lingua una casistica, un’enciclopedia vivente di tic, di sequenze reattive, di smorfie, di sospiri e di slanci, di nostalgie, una tassonomia di sguardi obliqui e diretti, di curve e rette, pieni e vuoti, di odori, di retropensieri e avanpensieri, un catalogo di attitudini, di morfologie e di sintassi, di psicologie e psicocinetiche, un tesaurum di tutto ciò che attiene all’innato e all’appreso, all’influsso celeste e alla presa terrestre, al consapevole e all’ignoto, all’agente e al paziente. L’inaspettata scoperta gli permette di velocizzare enormemente il compito portandolo a uno stato di esaltazione febbrile: ora può notare e noncurare tutto ciò che ricorre tra un caso e l’altro e concentrarsi sulle differenze, ciò che non coincide e si sfalsa tra un volto e l’altro, tra un tono e il successivo. Le persone che ogni giorno riesce a conoscere grazie a questo consistente salto di scienza applicata salgono rapidamente di numero: trentacinque, poi cinquanta e in un crescendo di virtuosismo e dissimulazione settantacinque e poi cento individui penetrati nell’intimo, o meglio nella propria specifica differenza, ogni giorno che arriva sulla terra.
Ma ormai nella sua mente si fa sempre più chiara un’idea – o forse sempre la stessa diversamente coniugata: ricostruire, mettendola per iscritto, la mappa di questo strepitoso intreccio di ricorrenze e variabilità, rintracciarne la regola che elabora gli strati e distribuisce a raggiera i petali delle posture umane in numero esatto, che presiede allo sviluppo immancabile delle ossa impilate, alla curva dei nasi e dei caratteri. Comprato un grande quaderno e due penne biro, chiude la porta di casa e si dedica anima e corpo al tentativo. È un compito di vaste proporzioni, di smisurata difficoltà, che richiede un’infinita accortezza, una memoria fuori dal comune e una capacità di visione complessiva incalcolabile: non senza un certo spavento, cercando di riassumere i dati che si affollano nella sua testa, l’uomo giunge a una prima sintesi operativa che assomma a milleseicentoventicinque variabili, che operano su centosedici livelli, sulla base di quarantasette gradienti, e venticinque angoli di incidenza, ricostruendo così, calcolati i casi spuri e le possibilità nascoste, un totale approssimativo e stimato di centrotredicimilioniseicentoventitremilaquattrocentosessantadue tipologie di base, o "volti", come li chiama. Di buona lena, malgrado un progressivo dimagrimento che comincia a farsi evidente senza intaccarne la disciplina, l’uomo prende a tracciare sull’ampio quaderno una gran quantità di equazioni, grafici, cerchi concentrici, diagrammi con i quali intende riassumere una buona volta il conosciuto e prevedere l’ignoto, e in piena coscienza se ne parte in questo nuovo infiammato viaggio verso il vero. Ciò che per primo difetta al compimento è il supporto, ossia la carta. Dapprima egli cerca di porre rimedio alle limitazioni traspositive con l’acquisto di nuovi quaderni, poi ne incolla i fogli alla dimensione tazebao, li sovrappone, li incrocia, si inventa singolari accrocchi simili a torte nuziali multistrato in un furore di calcoli e impazienza, di visioni e irritazioni che rapidamente dilaga lasciandolo a sera vacillante nel corpo e nella mente. Incolla alle pareti alcuni provvisori risultati e prende a miniarli, istoriarli, compendiarli con frecce, iscrizioni, commenti, apre finestre ad anta nella carta e traccia note sull’intonacato, deborda dalla cellulosa armato di scala e biro fino al soffitto, lunghe file di caratteri partono in avanscoperta verso il lampadario, lussureggianti palme di commenti cascanti attraversano gli spigoli e giungono dall’alto al pavimento, lo stipite legnoso accoglie file ininterrotte di doppie colonne sommate in fondo al totale dello zoccolino, le vaste pianure verticali delle pareti germogliano di figure, schemi di raccolta, mondi riassunti in compendio calcolato che contengono altri mondi, tracciature, miniature, strappi di tappezzeria a fiorellini intorno ai quali spuntano petali di segni, foreste di simboli e insetti in movimento ininterrotto sul pavimento inzeppato di innumerevoli note a margine, botole e anfratti lessicali, nell’immobile sacca d’aria tropicalizzata e raccolta della casa da cui l’uomo smette definitivamente di uscire.

L’universo, che alcuni chiamano pagine gialle, si espande e contrae come un polmone invaso lungo assi a perpendicolo fino alle lontane pianure ghiacciate dove resistono solo forme di vita elementare. Pare non sia possibile percorrerlo nel suo intero e misurarne lo sviluppo quadrimensionale. Murato vivo nella sua proiezione planare l’uomo ha invece compiuto la sua evoluzione personale e seduto per terra seminudo nel silenzio del salotto istoriato dentro un vortice immaginario, comincia a ricordare il futuro e i volti accigliati il cui seme non è ancora stato deposto, fino alla fine dei giorni. Che sopraggiunge precisamente un mercoledì in tarda mattinata, dopo una breve sonnolenza priva di sogni, mentre scivola dal letto affrescato: un interminabile e smisurato secondo colmo di accadimenti immaginari, dopo l’impatto fatale del capo con la piastrella.

la dura verità

6.
Di buona lena, malgrado un progressivo dimagrimento che comincia a farsi evidente senza intaccarne la disciplina, l’uomo prende a tracciare sull’ampio quaderno una gran quantità di equazioni, grafici, cerchi concentrici, diagrammi con i quali intende riassumere una buona volta il conosciuto e prevedere l’ignoto, e in piena coscienza se ne parte in questo nuovo infiammato viaggio verso il vero. Ciò che per primo difetta al compimento è il supporto, ossia la carta. Dapprima egli cerca di porre rimedio alle limitazioni traspositive con l’acquisto di nuovi quaderni, poi ne incolla i fogli alla dimensione tazebao, li sovrappone, li incrocia, si inventa singolari accrocchi simili a torte nuziali multistrato in un furore di calcoli e impazienza, di visioni e irritazioni che rapidamente dilaga lasciandolo a sera vacillante nel corpo e nella mente. Incolla alle pareti alcuni provvisori risultati e prende a miniarli, istoriarli, compendiarli con frecce, iscrizioni, commenti, apre finestre ad anta nella carta e traccia note sull’intonacato, deborda dalla cellulosa armato di scala e biro fino al soffitto, lunghe file di caratteri partono in avanscoperta verso il lampadario, lussureggianti palme di commenti cascanti attraversano gli spigoli e giungono dall’alto al pavimento, lo stipite legnoso accoglie file ininterrotte di doppie colonne sommate in fondo al totale dello zoccolino, le vaste pianure verticali delle pareti germogliano di figure, schemi di raccolta, mondi riassunti in compendio calcolato che contengono altri mondi, tracciature, miniature, strappi di tappezzeria a fiorellini intorno ai quali spuntano petali di segni, foreste di simboli e insetti in movimento ininterrotto sul pavimento inzeppato di innumerevoli note a margine, botole e anfratti lessicali, nell’immobile sacca d’aria tropicalizzata e raccolta della casa da cui l’uomo smette definitivamente di uscire.

L’universo, che alcuni chiamano pagine gialle, si espande e contrae come un polmone invaso lungo assi a perpendicolo fino alle lontane pianure ghiacciate dove resistono solo forme di vita elementare. Pare non sia possibile percorrerlo nel suo intero e misurarne lo sviluppo quadrimensionale. Murato vivo nella sua proiezione planare l’uomo ha invece compiuto la sua evoluzione personale e seduto per terra seminudo nel silenzio del salotto istoriato dentro un vortice immaginario, comincia a ricordare il futuro e i volti accigliati il cui seme non è ancora stato deposto, fino alla fine dei giorni. Che sopraggiunge precisamente un mercoledì in tarda mattinata, dopo una breve sonnolenza priva di sogni, mentre scivola dal letto affrescato: un interminabile e smisurato secondo colmo di accadimenti immaginari, dopo l’impatto fatale del capo con la piastrella.

zac

la dura verità

5.
Tuttavia, mentre lento e metodico come i suoi pellegrinaggi pedonali il sapere si accumula, crescono in lui nuove e insperate abilità: impara specialmente a giungere per via diretta, se così si può dire, all’essenza delle persone saltando i preliminari e i luoghi comuni di approccio e di conversazione e tutto quel più e quel meno pomposo o divagante di cui si gonfiano lieti i discorsi, e insomma gli si apre un mondo: rintraccia certe costanti, ricostruisce certe tipologie, certe ricorrenze: impercettibilmente si disegna nella sua mente e si svolge sulla sua lingua una casistica, un’enciclopedia vivente di tic, di sequenze reattive, di smorfie, di sospiri e di slanci, di nostalgie, una tassonomia di sguardi obliqui e diretti, di curve e rette, pieni e vuoti, di odori, di retropensieri e avanpensieri, un catalogo di attitudini, di morfologie e di sintassi, di psicologie e psicocinetiche, un tesaurum di tutto ciò che attiene all’innato e all’appreso, all’influsso celeste e alla presa terrestre, al consapevole e all’ignoto, all’agente e al paziente. L’inaspettata scoperta gli permette di velocizzare enormemente il compito portandolo a uno stato di esaltazione febbrile: ora può notare e noncurare tutto ciò che ricorre tra un caso e l’altro e concentrarsi sulle differenze, ciò che non coincide e si sfalsa tra un volto e l’altro, tra un tono e il successivo. Le persone che ogni giorno riesce a conoscere grazie a questo consistente salto di scienza applicata salgono rapidamente di numero: trentacinque, poi cinquanta e in un crescendo di virtuosismo e dissimulazione settantacinque e poi cento individui penetrati nell’intimo, o meglio nella propria specifica differenza, ogni giorno che arriva sulla terra.
Ma ormai nella sua mente si fa sempre più chiara un’idea – o forse sempre la stessa diversamente coniugata: ricostruire, mettendola per iscritto, la mappa di questo strepitoso intreccio di ricorrenze e variabilità, rintracciarne la regola che elabora gli strati e distribuisce a raggiera i petali delle posture umane in numero esatto, che presiede allo sviluppo immancabile delle ossa impilate, alla curva dei nasi e dei caratteri. Comprato un grande quaderno e due penne biro, chiude la porta di casa e si dedica anima e corpo al tentativo. È un compito di vaste proporzioni, di smisurata difficoltà, che richiede un’infinita accortezza, una memoria fuori dal comune e una capacità di visione complessiva incalcolabile: non senza un certo spavento, cercando di riassumere i dati che si affollano nella sua testa, l’uomo giunge a una prima sintesi operativa che assomma a milleseicentoventicinque variabili, che operano su centosedici livelli, sulla base di quarantasette gradienti, e venticinque angoli di incidenza, ricostruendo così, calcolati i casi spuri e le possibilità nascoste, un totale approssimativo e stimato di centrotredicimilioniseicentoventitremilaquattrocentosessantadue tipologie di base, o "volti", come li chiama.

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la dura verità

4.
L’incapacità completa di rispondere a queste semplici domande di fronte all’enorme numerabilità del reale lo convince a sufficienza della sorprendente futilità della sua scoperta o vocazione, o chiamata, o come alla fine la si voglia chiamare e lo getta per un certo periodo in una rassegnata accidia e senso di fallimento, che si traduce fin troppo prevedibilmente in un bambinesco moto di protesta e di sciopero a oltranza. Finché un mattino, mentre la saponetta slavata gli scivola dalle mani sul lavabo non immacolato, ecco che una nuova rivelazione non meno indifferente al proprio angolo di impatto delle precedenti lo colpisce chiamandolo all’istante a una nuova impresa che egli, ancora in piedi in abiti succinti davanti allo specchio sbeccato, si figura così: con metodo, ogni giorno, si impegnerà a conoscere una persona nuova nel tentativo in sé disperato ma non inutile né privo di qualche soddisfazione, forse la sola rimasta nel campo avaro del sapere, di limitare giorno per giorno di una quantità ben determinabile la propria ignoranza intorno alla realtà, che così evidentemente si presenta con un’esagerata bulimia di volti e lati.
A questo compito da quel mattino luminescente e saponario si sottomette con dedizione ed entusiasmo. Trascorre dunque tutto il tempo libero sui lunghi marciapiedi della sua città, staziona nei locali fino a notte, si intrattiene nelle pensiline dei tram, sulle panchine dei giardinetti spiantati, conversa con i vicini di carrozza sui treni della metropolitana, si accosta ai crocchi di anziani nelle piazze per inserirsi a tempo in una di quelle conversazioni oziose e sottrarne con garbo uno al gruppo intrattenendosi con quello. Non dimentica di tentare nessuna via tra quelle che il vasto mondo gli offre generosamente e la chiara visione del progetto che si è dato gli rende leggere le brevi difficoltà, i temporanei insuccessi e i limiti personali di imperizia mondana, scadente conversazione e grave timidezza che finora gli avevano reso aliena l’umanità circostante. In breve tempo le persone ogni giorno conosciute diventano da una due, poi cinque, quindi dieci. Fiero dei successi e in pieno incendio per via della fiamma della conoscenza ben nutrita, decide di abbandonare il suo impiego, che ormai costituisce un evidente impedimento alla ricerca, e si licenzia. Nelle molte ore di cui finalmente dispone giunge con metodo e impegno a conoscere ogni giorno una ventina di persone e pur nella brevità e variabilità fugace dello scambio verbale, ritiene di ridurre ogni volta di un tratto certo la propria ignoranza del mondo.

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la dura verità

3.
La sorpresa per la piega inaspettata che la vita adulta gli va riservando rimane a mezz’aria nella sua testa per un breve tempo quando un pomeriggio, fermo davanti a una vetrina di cravatte prodiga di riflessi semoventi, precipita e gli si mette di traverso in zona corticale. Ecco ciò che finora non aveva notato, benché probabilmente risultasse chiaro anche all’ultimo dei menomati: "gli altri" presi insieme possono sembrare uno, ma uno per uno sono sorprendentemente di più! Anche più che sorprendentemente di più: sono un numero sproporzionatamente elevato! Addirittura, nota stupefatto mentre si volta e rivolta girando in tondo sul suo piede, innumerevole è la moltitudine che variamente lo circonda, gli cammina appresso, gli dorme accanto, senza oltretutto che nessuno dia segno di notarlo così che egli pare felicemente trasparente ai loro occhi, e del resto loro lo sono stati colpevolmente ai suoi. Come se appunto di riflessi si discuta e non di esseri in carne e pelle. Anche a voler considerare solo il quartiere in cui abita, computa l’uomo, vi sono più persone di quante egli ne abbia conosciute finora in tutta la vita, che con calcolo giovanile gli pare già dotata di una lunghezza consistente e grave. È poi sufficiente passeggiare lungo una via del centro o fermarsi a osservare la fiumana che procede disattenta e non si può che rinunciare rapidamente alla sovrumana fatica di riepilogare gli individui che scorrono davanti agli occhi uno dopo l’altro o anche tutti assieme. Se poi l’immaginazione cerca di figurarsi per quanto riesce tutte le vie di tutti i centri e magari anche delle periferie, dei borghi, dei paeselli, delle frazioni e delle case isolate che più o meno pittorescamente fanno del mondo un vasto e ambiguo presepe, è facile che l’intelletto perda l’equilibrio. Che ci fa tutta questa gente, si chiede l’uomo, che ci fanno tutti questi umani ognuno fornito di membra in numero generalmente pari, una testa dispari, occhi animati, frasi che escono dalla bocca in ordine imprevedibile e in lingue svariate, ognuno rimemorante anche a richiesta una storia personale fatta di episodi puntuti o di ricordi variamente compendiati a sommario forse in parte persino originali o almeno ad ognuno ugualmente capitati, precipitati addosso e, faccenda scabrosa e imbarazzante, un’abilità nel disconoscere o addirittura opporsi per i motivi più svariati o anche senza motivi alla verità di cui egli pare il solo iniziato? Come si può prenderli uno a uno ed essere sicuri, certi che abbiano davvero capito? E a che serve una verità, altrimenti?

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la dura verità

2.
Divenuto adulto, l’uomo si accorge in breve tempo che per quanto riguarda la verità le cose stanno diversamente e di molto: egli è l’unico a quanto pare a portare in testa il segno dell’antica collisione. Interrogati a riprova alcuni passanti durante lo svolgimento di una gara podistica cittadina intorno alla natura contundente e manesca di quella sostanza a lui così familiare, tutti indistintamente si limitano a osservare l’uomo con sguardo preoccupato, facendo poi cenno di allontanarsi di un paio di passi, per prudenza. La scena si ripete uguale molte volte, tranne per alcune varianti in cui un ombrello e qualche piccola borsa di pelle animale colma in modo irreale di oggetti ignoti ma singolarmente granitici si trovano a sostituire il flusso verbale, ma in direzione contraria. L’uomo tende a imparare dai propri errori specie se corredati da una quota di dolore fisico; non diversamente dal caso generale, quello particolare giunge in fretta a una conclusione: finora egli aveva creduto che tutti se ne dessero per intesi e come non si sta a questionare sull’esistenza dei nasi o del didietro, anche la verità andasse sotto silenzio per troppa manifestazione. Un grave errore: la faccenda stava – e sta, a dire il vero – proprio al contrario, l’ignoranza sul punto è addirittura universale! Che curiosa situazione, pensa l’uomo: un oggetto così consistente che diventa invisibile. E lui che pare l’unico vedente, poi! Come si spiega? E come rendere visibile l’invisibile? Cioè, come rendere evidente l’evidenza, evidentemente non così evidente? Che imbroglio… Le parole sono così deboli, e pure loro invisibili. Saranno dure a sufficienza per lasciare segni certi sulla testa altrui? Massaggiandosi un doloso e recente rialzo occipitale, l’uomo si scopre a nutrire qualche dubbio circa la gratitudine del mondo.

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la dura verità

1.
Del suo incontro con la verità non è possibile fornire un resoconto certo, se si esclude il fatto acclarato che gli piove sul capo con violenza quand’è ancora troppo piccolo perché possa in seguito ricordare l’episodio. Notizia ugualmente indiscussa è che da quel momento ignoto egli si comporta come se quella spigolosa verità sia evidente a tutti. Anche di questo comportamento non si può tuttavia fornire una spiegazione plausibile che ne faccia risalire la causa a una sua debolezza costitutiva di mente o sentimento piuttosto che a una virtù morale superiore, di quelle inspiegabili che quasi oltrepassano in altezza il limite dell’umano, in ogni tempo convenzionalmente tracciato laddove non si ha alcuna intenzione di arrivare. La fine incresciosa della sua fiducia in questa universale notorietà non depone né a favore né contro una di queste alternative. La rivelazione, lui bambino, potrebbe aver preso ad esempio la forma di una pallonata inaspettata, di quelle precise e fatali che durante i giochi la fronte dell’infante più vicino sembra attirare come una calamita. Forse nel suo caso lo schiocco, piuttosto che grida e pianti provoca un’attonita meraviglia a misura di universo, un esordio in seguito mai più colmato e che al momento dei fatti si presenta al suo più alto grado di sviluppo. Ma si può anche ipotizzare che nessun evento pubblico sia rintracciabile a discolpa della sua condizione; la verità per qualcuno è soltanto quella mano ignota e unghiosa che ancora non nati, trattenendo il calcagno, immerge nel battesimo del destino, così che distinguersi dal liquido infido da cui non si viene più estratti o vedere separato il proprio profilo dal suo specchio, diventa impossibile. Fatto sta che nemmeno l’ombra di un dubbio percorre la fronte spaziosa dell’uomo durante la giovinezza, che passa serena e priva episodi di rilievo: quella rude entrata rimane sotterranea o così diffusa nella sua coscienza da risultare indistinguibile, come un’impercettibile nube. Se del resto escludiamo dall’esperienza una certa dose di contrasti o la capacità di coglierli, è giocoforza che essa ci appaia com’è, né buona né cattiva, tale da non suscitare quell’eccesso di pensieri che ci può rendere infelici. Tra la sapienza e l’ignoranza i saggi non scorgono alcuna differenza, e nemmeno gli idioti, perché tale è il fulgore della luce o la densità del buio che la realtà circostante tende ad apparire alquanto vaga, e comunque non così articolata da rendere necessaria un’indagine ulteriore. Ma questa situazione, immobile come l’acqua nella canicola, è sul punto di scivolare nel buco nero dello scarico.

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