john e. williams, stoner

Se un libro cade nell’oblio per 40 anni forse un motivo c’è.

Il proposito che muove Stoner è quello di scrivere la storia di un uomo senza storia che vive una vita come tante, tra l’insignificanza e il fallimento; raccontare un protagonista che subisce la propria esistenza, peraltro priva di eventi che non siano i più comuni (nascere, andare a scuola, veder morire i genitori, lavorare, sposarsi, avere un’amante, invecchiare, morire), e lo fa per timidezza o incapacità di imporsi, per un senso di irraggiungibile estraneità rispetto al mondo, per una costitutiva incapacità di afferrare le cose, a volte per semplice stanchezza e in generale perché immerso in una visione che non riesce e non può superare il proprio naso. Senza però calcare sull’ironia e sul sarcasmo, al contrario: lasciando qua e là la traccia di un gentile ma fermo “preferisco di no”, suggerendo la presenza, dietro l’inettitudine, oltre il giardino, di un segreto non formulabile a parole.

È un proposito promettente almeno quanto lo è stato le altre duemila volte in cui qualcuno ha tentato di realizzarlo, forse a partire dall’inarrivabile modello flaubertiano di “Un cuore semplice” fino a Yates e ai minimalisti.

Ecco come Williams intende far funzionare il meccanismo che regge la leggibilità di una non-storia come Stoner: compensare l’assenza di eventi di rilievo con un forte accento posto sullo struggimento dei piccoli fatti, sulle microscopiche svolte invisibili a tutti tranne al protagonista e tutte indistintamente tritate dalla macina del tempo, catturare l’attenzione del lettore spingendo in particolare sul registro patetico e così insinuare l’idea che Stoner sia in fondo chiunque di noi, o almeno una probabile maschera di Williams stesso.

Questo risultato potrebbe essere raggiunto, come accade agli autori citati sopra, attraverso una prosa particolarmente – a volte microscopicamente, sempre ferocemente – personalizzata e ritorta. Non così in Williams il cui difetto è proprio la prosa. Delicata, tiepida, gentile come il suo personaggio. Ma del tutto priva di forza, inadeguata al compito. Nei rari episodi, nei rari dialoghi, nelle rare scene si risolleva un poco, senza peraltro quasi mai raggiungere una capacità evocativa che superi il piatto resoconto. Per il resto si adagia in sterminati sommari telefonati all’imperfetto – in quel tempo succedeva, spesso faceva, a volte pensava – che collocano bene il romanzo al livello semi-professionale che gli compete.

Gli esperti sottolineano il probabile carattere autobiografico del libro, il che ne spiegherebbe i corpulenti limiti: quando una prosa non riesce a trasformare il piombo dello struggimento consolatorio nell’oro dell’angoscia, quando si ferma sul punto più alto, quello dell’autoindulgenza, di solito è perché l’autore vuole – si suppone inconsapevolmente, giacché la capacità di scrivere benissimo non si impara e l’autore nulla sa dei propri moventi – salvare la rispettabilità del suo alter ego, oppure il proprio fondoschiena, secondo i casi.

jennifer egan, il tempo è un bastardo

Una delle cose che un romanzo può fare è mostrare lo svolgersi dell’esistenza individuale da un punto di vista normalmente inaccessibile a qualsiasi individuo: può mostrare ad esempio i legami invisibili ma decisivi che lo vincolano a forze sovraindividuali selezionandoli tra gli infiniti fili irrilevanti di cui è costituita la sua esperienza quotidiana, mostrare insomma ciò che viene fatto di lui a sua insaputa osservandolo da una prospettiva sopraelevata, oppure può accelerare il calendario e mostrare tutta la sua vita come contratta in un tempo ristretto, quasi in palmo di mano. Questo secondo caso è quello che dà luogo, tra l’altro, alle cosiddette saghe familiari, che sono probabilmente il modo in cui l’epica antica sopravvive nel romanzo moderno anche se al prezzo di abbassare il disegno rigoroso operato dal fato a una capricciosa e piuttosto insensata figura fatta di ghirigori, di svolte e di incroci, ossia al suo contrario: il caso.

Nelle saghe intere generazioni si susseguono nell’arco di poche centinaia di pagine e di non molte ore di lettura: chi all’inizio del racconto è giovane a metà viene sepolto dai figli o dai nipoti i quali a loro volta alla fine saranno seppelliti dai pronipoti; è l’unico caso di letteratura seria in cui il lettore è disposto ad accettare di separarsi da un personaggio positivo senza che un registro drammatico giustifichi la scelta dell’autore. Tra gli effetti di questa drastica contrazione temporale ve n’è uno che qualunque lettore ha sperimentato in modo vivido, assai più vivido di quanto nella propria esperienza reale sia in genere possibile: il sentimento del tempo, quella vertigine che coglie ad esempio un figlio che diventa padre nell’immaginare il proprio padre nei panni di se stesso e se stesso nei panni del marmocchio che tiene tra le braccia, lo scorrere delle generazioni, il ritorno del simile e insieme il mutamento delle circostanze che rendono ogni evento differente anche se dentro una matrice che replica se stessa.

Questo sentimento del tempo, nei romanzi, è un effetto secondario dello svolgersi delle trame e delle esistenze pur contratte dei personaggi, anche se non è azzardato sospettare che le saghe, familiari o individuali, abbiano proprio nell’evocazione di questo effetto, nel recupero di questo tempo perduto in forma di bruciante sentimento la loro ambizione principale. Ma è certo però che l’onestà di uno scrittore si manifesta nel non mostrare in modo troppo scoperto e immediato questa intenzione, nel lasciare che emerga “spontaneamente” dall’accostamento dei fatti, dalla loro successione, che sia il risultato di una macchina narrativa ben costruita e non un roboante effetto speciale.

È questa probabilmente l’origine dell’errore contenuto in “Il tempo è un bastardo”, romanzo premio Pulitzer 2011 scritto da Jennifer Egan. Si tratta di una saga non propriamente familiare perché segue le tracce, nell’arco di una quarantina d’anni, di un gruppo di persone legate da rapporti a volte di parentela (genitori, figli o fratelli), a volte di amicizia, a volte piuttosto casuali: un lavoro, un incontro. La particolarità più macroscopica del romanzo è il tipo di montaggio: non si tratta di una sequenza almeno vagamente cronologica che ripercorre lo scorrere del tempo e delle generazioni, ma di una serie di capitoli-flash che assumono ognuno il punto di vista di uno dei personaggi, con gli altri che tornano da comprimari o spariscono secondo le circostanze, colto in un momento della sua esistenza, senza alcun vincolo di successione cronologica e narrato attraverso una prosa anche troppo duttile (oltre a prima e terza persona alternate senza motivo apparente non ci è risparmiato nemmeno un capitolo in slide, operazione che preferisco non commentare).

In questo modo Egan punta a far esplodere il sentimento del tempo facendo proliferare la trama in molte direzioni  divergenti, ritrovandone gli intrecci magari a decenni di distanza, senza che vi sia un vero e proprio asse a reggere la narrazione se non forse il personaggio di Sasha, che è quello rappresentato in modo più palesemente accorato. L’idea a prima vista appare interessante. Solo che poi Egan non è altrettanto brava a riempire di sostanza i vari momenti: un paio sono anche gustosi (quello del pesce, quello del dittatore), ma per lo più invece ripropongono con poca forza i cliché del romanzo di formazione o adolescenziale mass market o un approccio minimalista al “momento topico di un’esistenza” che altri autori hanno percorso con mezzi molto più solidi. Il risultato è una scrittura tutto sommato gradevolmente innocua.

Poca forza drammatica, uno sguardo psicologico che si limita a evidenziare le correnti emotive più ovvie e un impianto che di per sé esalta gli elementi di casualità (perché questi personaggi e non altri se gli intrecci sono spesso contingenti e ciò che emerge da ognuno non è certo così memorabile da giustificare il loro comparire sulla scena?): sembra insomma che Egan voglia ottenere il massimo – evocare un genuino sentimento del tempo – col minimo sindacale di sforzo drammatico. E se il susseguirsi concitato di microstorie, di epifanie che durano lo spazio di un capitolo non fosse sufficiente a somministrare al lettore dosi massicce e reiterate di nostalgia del futuro tali quasi da far supporre una crisi d’astinenza, Egan pensa bene di ricorrere anche agli effetti speciali: improvvise e del tutto ingiustificate progressioni temporali in cui riassume in meno di tre righe cosa accadrà al tal personaggio da qui a vent’anni, una specie di TAV romanzesca dai risultati bizzarri (esempio: sta narrando la vacanza di un ragazzino con padre e sorella e di colpo parte in quarta: quando tra vent’anni si suiciderà a causa dei suoi dissidi col padre con cui non parlava da anni allora la sorella, che nel frattempo avrà gettato la prima parte della sua vita inseguendo una direzione sbagliata eccetera eccetera). Un modo francamente piuttosto goffo e persino disonesto, e tuttavia più volte reiterato, per ottenere l’effetto della letteratura senza fare nemmeno la fatica di scriverla.

julian barnes, il senso di una fine

Pretesa riflessione in forma di romanzo sulla narrabilità romanzesca di una vita comune e priva di episodi di rilievo nonché sulla compresenza in ogni narrazione di più versioni degli stessi fatti costruite sovente a scopo di autogiustificazione e indulgenza. L’altezza dei temi, malgrado l’evidente tessuto di citazioni che attraversano la vicenda, non è purtroppo trattata attraverso una narrazione efficace. Esaurito un rapido prologo “di gioventù” in cui sono presentati i pochi fatti di rilievo e i soli motivi di interesse, il resto del per fortuna breve romanzo si dibatte tra le riflessioni senili del protagonista su quanto sia stato finora un tipo noioso, che sembrerebbero preludere a una svolta finalmente decisiva, e una improbabilissima vicenda di ricostruzione sentimentale retroattiva, con tanto di scabroso e strampalato finale. La delusione per la sciatteria con cui la storia viene gestita in questa terza parte è tale che il lettore tenderà a scordarsi l’inizio promettente e in sede di recensione fornirà una versione della propria esperienza di lettura ancora meno lusinghiera di quanto dovuto. È opinabile che questo esito fosse nelle aspettative metaletterarie dell’autore.

davide enia, così in terra

Romanzo d’esordio ma tecnicamente già maturo. Voce riconoscibilissima e ottimamente tenuta, buon lavoro sulla lingua (non è un italiano con esotismi dialettali, ma un dialetto trasposto dentro l’abito dell’italiano), grande abilità di montaggio. I personaggi si muovono in un orizzonte apparentemente reale e crudo, in realtà del tutto allegorico e mentale, con poche concessioni a forme di neo-neo-realismo che pure l’ambientazione e l’impianto del “romanzo di tre generazioni in una città del sud” farebbe temere – ad esempio: tutti combattono, ma curiosamente è difficile dire contro chi. Ci sono avversari occasionali, certo, ma si tratta per lo più di combattimenti immaginari, che si muovono in uno spazio mentale a metà tra il fumetto d’infanzia per giovani maschi rimembrato e un’epica in-civile e probabilmente im-possibile. Una certa ruffiana capacità di commuovere non guasta affatto.

michele mari, fantasmagonia

Fantasmagonia è una raccolta di una trentina di brevi racconti, in genere non più lunghi di quattro o cinque pagine, più spesso di tre. Ce n’è un paio di una decina di pagine e uno di venti.
In ognuno di questi brevi scritti vengono evocati personaggi di altri libri e non di rado anche i loro autori, da K. a Salgari, da Omero a Borges, da Pinocchio a Byron, dal kraken a Machiavelli ad Alice delle meraviglie a Folgóre da San Giminiano a chi volete voi: ce n’è a dozzine. Con questo materiale e l’aggiunta di vari Signor Nessuno contemporanei Mari costruisce brevi fuochi d’artificio verbali, neostorie, colpetti a effetto, ventriloquismi, presunti dietro le quinte, vere finzioni, finti retroscena, miscele temporali e altri giochetti e nel giro di poche righe confeziona le sue piccole macchinette narrative a soluzione finale, il cui tema è quasi sempre il tema, come scriveva una volta Magrelli, cioè la scrittura stessa come fantasma dotato tuttavia di un imbarazzante effetto di realtà nonché – si parla sempre di sé parlando d’altro ma anche viceversa – il caso, la beffa, la natura del potere, la paura dei mostri, l’infanzia o altre faccende così. Una cosmogonia fantasmatica o anche una fantastica agonia, volendo.

Con dimensioni medie come quelle descritte, tre o quattro pagine a pezzo, è evidente che il realismo narrativo non può che venire meno (*) a favore di un’intenzione del tutto diversa.
La fenomenale abilità formale di Mari e la sua ispirazione manierista, che in altri suoi libri più o meno riusciti si mostra come calco – La stiva e l’abisso – o come impasto  – Tutto il ferro della torre Eiffel – o come schermo anti-sentimentale – Tu sanguinosa infanzia e il suo indimenticabile feticismo della perdita –  o in altri modi ancora, qui ha la possibilità di sprigionarsi in forma di puro gioco. L’intenzione primaria di questo libro, sono giunto infine a pensare dopo uno sforzo considerevole per le mie capacità mentali, mi pare infatti quella ludica.

Non parodica alla Malerba, altro imitatore di fantasmi (se proprio vogliamo c’è il modello della storia di spettri con colpo di scena finale, ma giusto come allusione) e nemmeno esageratamente metanarrativa in senso ideologicamente programmatico, per quanto tutto, qui dentro, sia metanarrativo, ma proprio autenticamente ludica. Forse ludico-tragica, a dar retta a certe impressioni che restano nella testa del lettore, ma in modo appena accennato, come un’allusione che non diventa esplicita. C’è indubbiamente qualcosa di Calvino in questo approccio allegorico e antimimetico alle storie, per non dire del modello alto cui Calvino si ispirava in quella tarda fase della sua opera, ma senza l’estenuazione della posa calviniana, con più corpo e con lo spirito del surreale e un po’ gratuito divertimento di un narratore per bambini, di un Rodari per adulti e meno scemo, se mi posso permettere.

Si potrebbe tranquillamente terminare queste righe senza notare che, se la qualità della prosa è sempre eccellentissima, restano i dubbi sulla diseguale originalità delle trovate che congegnano ogni singolo scritto, che se qualche volta esplodono il lettore in una risata ammirata (esplosioni sommesse naturalmente, interiori: siamo pur sempre lettori pubblici su pendolari vagoni da treno), altre volte producono al più un sorriso o un blando stupore.

***

(*) Non sono un esperto di letteratura quindi una serie di racconti così brevi la ricordo solo in Carver. Il che dovrebbe smentire la mia affermazione secondo la quale la brevità estrema non si addice alla narrazione di tipo realistico, poiché Carver passa per un minimalista, cioè per un realista del minimo. Sempre che invece Carver non sia invece uno scrittore sostanzialmente astratto che finge di fare della mimesi del reale. Ipotesi che sposo per coerenza con il me stesso di sopra.

tom wolfe, il falò delle vanità

 

Ascesa e caduta di un antiaereoe del nostro tempo, causa progressivo stritolamento negli ingranaggi della società. Bonfire è un bel romanzone di sapore vagamente balzachiano: qui l’ascesa a dire il vero è già avvenuta quando la storia inizia, ma l’acutezza e il realismo privo di qualsiasi illusione con cui i meccanismi sociali vengono descritti (ambizione, invidia, meschinità, vanagloria, cinismo, sopraffazione, tradimento, menzogna ecc), la costruzione di veri e propri “personaggi tipici” e l’attenzione conseguente a disegnare ritratti psicologici non idiosincratici, ma invece coerenti con il quadro generale e con le forze da cui i singoli sono mossi piuttosto che da “moti interiori”, paiono rispecchiare molto da vicino quella distinzione tra tipicità e medietà che, secondo Lukacs, smodato ammiratore di Balzac, distingueva il grande realismo dalle scivolate nel naturalismo e relative debolezze.

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jonathan franzen, libertà

ATTENZIONE: CONTIENE TRACCE DI SPOILER

Finita la lettura, sfumato l’accordo in maggiore dell’ultimo capitolo, l’impressione è che le perplessità e i mezzi giudizi abbiano trovato proprio nel lento e raccolto movimento finale una specie di sigillo, visto che non hanno trovato una smentita. Se i nodi non si sono sciolti, hanno però un anello cui legarsi bene. Libertà, a mio parere, sta tutto in quel finale di cui dobbiamo tacere l’aggettivo: per questa doverosa prudenza diventa difficile parlare del libro senza rovinarne la lettura a chi non l’ha ancora aperto. Costui sappia che l’attende un buon romanzo, piacevole e quasi sempre capace di catturare la sua attenzione e in cui troverà la consueta eccellente – a volte addirittura sorprendente – capacità dell’autore di rendere il dettaglio psicologico, ma un’inconsueta, almeno a mio parere, debolezza di voce.

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tom wolfe, il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto

Due brevi, molto riusciti e classici pezzi di Wolfe. Nel primo – Radical chic – si narra di un party nel lussuoso appartamento dei Bernstein, a New York, sul finire degli anni Sessanta, un party più surreale di quello di Sellers; invitate le più sofisticate e progressiste élite liberal e i leader delle Black Panther. Wolfe si diverte a notare come le élite emergenti abbiano ogni volta bisogno di crearsi molteplici strati di falsa coscienza e contorti sistemi di legittimazione. L’esito del party sarà comunque del tutto imprevisto, per quanto il grottesco e inascoltato sogno rivelatore di Lenny Bernstein con cui il pezzo di Wolfe si apre l’avesse anticipato. Nel secondo articolo – Mau-Mauing the Flak Catchers, Mau-maumizzare i Parapalle – che forse è persino più acuto del primo ed è ambientato negli stessi anni, Wolfe descrive le politiche assistenziali promosse dalla burocrazia federale a favore delle minoranze e l’effetto perverso che questi programmi provocavano, la mau-mauizzazione: «Andare in centro a mau-mauizzare i burocrati cominciò a diventare un’abitudine a San Francisco. Era il programma povertà a spingerti ad andare in giro a mau-mauizzare. Era inevitabile. I burocrati del Comune e dell’Ufficio Opportunità Economiche parlavano tutto il tempo di “ghetti”, ma di quello che stava succedendo nella Western Addition, a Hunters Point, a Potrero Hill, a Mission, a Chinatown o a sud di Market Street non ne sapevano più di quanto ne sapessero di Zanzibar. Non sapevano dove guardare. Non sapevano nemmeno a chi chiedere. E così, che potevano fare? Beh… usufruivano del Servizio Etnico a Domicilio…».

svuotaborsa

Pat Hobby. Disavventure di uno sceneggiatore a Hollywood
di Francis Scott Fitzgerald
Uno Scott Fitzgerald minore, ma divertente. Raccolti in volume, i brevi racconti che lo scrittore, ormai alcolizzato, vendeva alla rivista Esquire per sbarcare il lunario. Vi si racconta le avventure di Pat Hobby, sgangheratissimo sceneggiatore, sulla cresta dell’onda per un secondo durante il periodo del cinema muto e poi precipitato nell’oblio, che si arrabatta con lavoretti di scrittura dentro e fuori gli studios della Hollywood degli anni ’40. Fitzgerald stesso fu sceneggiatore in quegli studios, con scarsissima fortuna, tanto che si ritiene almeno in parte autobiografici questi sketch umoristici, tutti piacevolmente giocati sulla tecnica del colpo di scena comico e nei quali il talento dell’autore si sente e non si sente.

 

La vita è un’altra storia. Racconti scelti
di John Barth
“Perso nella casa stregata” è monumentale, “Avanti con la storia” è di una bellezza rara, molti altri racconti sono eccellenti. Peccato per la scelta degli ultimi tre, davvero troppo simili, che suscita un po’ di perplessità. Forse era preferibile privilegiare le prime raccolte invece che cercare di fare un’antologia completa. Ad ogni modo il livello è altissimo.

 

Fuoco fatuo
di Pierre Drieu la Rochelle
Le 100 fulminanti pagine che Houllebecq non arriverà mai a scrivere, nemmeno vincendo all’enalotto degli scrittori. Una volta lette, puoi tranquillamente fare a meno della pomposa opera omnia dell’altro. Basterebbe questo.

 

 
Casa d’altri e altri racconti
di Silvio D’Arzo
Il racconto che dà il titolo alla raccolta merita, ma anche quello dei due anziani coniugi non scherza. Nella mia abissale ignoranza non sapevo nemmeno fosse esistito. Fatto sta che D’Arzo, morto a trent’anni dopo aver pubblicato pochissimo, aveva di certo un gran talento.

 

 
E adesso, pover’uomo?
di Hans Fallada
I presupposti dell’avvento del nazismo nella vicenda di due sposini alle prese con la Grande Crisi. Come nell’illusione dell’anatra-lepre, l’implicazione reciproca di ferocia e dolcezza. Romanzo politico, uno dei manifesti della Nuova Oggettività. Scritto con tecniche neorealistiche (la narrazione al presente, una caratterizzazione dei personaggi in chiave sociale, la resa dei rapporti di potere nelle piccole relazioni quotidiane, uno sguardo tendenzialmente partecipe e dolente) pare tuttavia risentire – secondo me – anche di una certa aria brechtiana che limita la nota tendenza del neorealismo al sentimentalismo e al melodramma. Non si parla di capolavoro letterario, ma di interessante micro-fisica delle basi sociali dell’autoritarismo.

 

cormac mccarthy, suttree

Che meravigliosa storia, comica e struggente, sarebbe stata quella di Harrogate, il topo di campagna divenuto topo di città. Ma McCarthy, in quest’opera ambiziosissima, sbaglia protagonista e invece del vero eroe, ridotto a personaggio minore, ci propina una sua controfigura insipida e inconcludente, tormentata e pretenziosa. Suttree ha un passato faulkneriano, di cui non si sa niente di preciso ma che gli si presenta alla porta a intervalli regolari sotto forma di melodramma (non manca il classico bambino morto, una sicurezza in questi casi) e un presente da asceta urbano. Campa di espedienti sulle rive del fiume in un paesaggio didascalicamente dantesco. Per vivere, guarda un po’, pesca: occupazione evangelica per eccellenza. Frequenta i bassifondi senza mai sporcarsi davvero la coscienza, anzi dimostrando un’empatia silenziosa e rassegnata e una buona volontà soprendente nel soccorrere chi incrocia la sua strada, e quando si mette nei guai è per una certa tendenza all’ubriachezza dissoluta che lascia supporre macigni depositati nell’anima. I compagni di sventure lo amano e lo rispettano e ne cercano l’amicizia come quella di una sorta di gesucristo cameratesco e sdrucito; lui vive alla giornata, in fuga da non si sa cosa e con una spiccata tendenza alla sbornia triste e ai deliri persecutori di carattere religioso.

La struttura della narrazione ricorda il romanzo picaresco, da cui la letteratura america è segnata fin dalle origini: nessun vero intreccio, il procedere della storia legato alla semplice successione di eventi che ruotano intorno al personaggio centrale (la memoria di Huckleberry Finn è immediatamente presente come debito palese, non fosse che il Finn di McCarthy è impersonato da Harrogate, cioè un personaggio secondario). Come da genere, le scene sfumano una nell’altra, ma qui a volte capita si tronchino in modo un poco maldestro, per motivazioni ambigue: in particolare capita alle avventure amorose di Suttree, stoppate dall’autore con espedienti piuttosto estemporanei (una frana che capita a fagiolo; un impazzimento piuttosto immotivato…) evidentemente per non turbare l’allure del personaggio. Alcune scene, va detto, sono concepite meravigliosamente: la pesca dei molluschi ad esempio è epica, e appena appare in scena Harrogate il romanzo si illumina. Anzi, tutti i personaggi secondari, bisogna proprio dire, sono belli e struggenti. Ma poi c’è sempre questo Suttree a cui tocca tornare.

Il limite strutturale nella concezione del personaggio si manifesta anche nella scrittura. I tre registri che McCarthy alterna non si amalgamano: a dialoghi perfetti e perfettamente mccarthiani, si alternano parti descrittive, nel suo consueto realismo asciutto e lirico, anche se qui un po’ debordante e con una tendenza al macabro un filo telefonata; ma poi ecco che entra in scena lui, Suttree, non di rado ubriaco o fatto di funghetti, e salta fuori un registro psichedelico davvero incongruo. Quando nel testo "chi guarda", come diceva Genette, è Suttree, di punto in bianco parte una raffica di metafore strampalate e di deliri verbali stile "pasto nudo" di cui colpisce soprattutto la gratuità negli accostamenti tra immagini, espressi oltretutto con un tono da Ezechiele che profetizza sulle ossa. Dovendo dare una sostanza e uno spessore psicologico al dramma interiore di Suttree, che non è un semplice hippie ante litteram o uno spiantato, ma si suppone personaggio cosmico che si immerge nella tenebra del mondo, nel suo desiderio di fine e di morte, nella sua infelicità senza rimedio, in un corpo a corpo con un dio che non sa che farsene di ciò che ha creato, ecco dovendo rendere credibile tutto ciò, in queste parti McCarthy spinge la scrittura verso una specie di surrealismo in cui, evidentemente, far giocare il margine tra coscienza vigile e sonno (del protagonista, ma anche del mondo o di dio). Il risultato però appare infelice, perché innesta una protesi di mimesi interna su un corpo, quello consueto e scabro della scrittura di McCarthy, che non la prevede e non la sopporta. L’impressione è quindi di una forzatura un po’ gratuita. E’ un esperimento poco corretto, me ne rendo conto, ma provate a paragonare la scena in cui Suttree si perde nei boschi e gli vengono incontro oscure presenze partorite della sua mente, con cui dialoga per giorni (o la scena in cui la nana gli somministra una specie di pozione allucinogena), alla famosa scena, contenuta ne La montagna incantata, in cui il protagonista rischia di morire durante una gita in montagna e in piena tormenta di neve si addormenta e sogna, e avrete l’idea della differenza tra costruire un delirio verbale funzionale e ricco di senso e uno verboso e sostanzialmente vuoto.