Una delle cose che un romanzo può fare è mostrare lo svolgersi dell’esistenza individuale da un punto di vista normalmente inaccessibile a qualsiasi individuo: può mostrare ad esempio i legami invisibili ma decisivi che lo vincolano a forze sovraindividuali selezionandoli tra gli infiniti fili irrilevanti di cui è costituita la sua esperienza quotidiana, mostrare insomma ciò che viene fatto di lui a sua insaputa osservandolo da una prospettiva sopraelevata, oppure può accelerare il calendario e mostrare tutta la sua vita come contratta in un tempo ristretto, quasi in palmo di mano. Questo secondo caso è quello che dà luogo, tra l’altro, alle cosiddette saghe familiari, che sono probabilmente il modo in cui l’epica antica sopravvive nel romanzo moderno anche se al prezzo di abbassare il disegno rigoroso operato dal fato a una capricciosa e piuttosto insensata figura fatta di ghirigori, di svolte e di incroci, ossia al suo contrario: il caso.
Nelle saghe intere generazioni si susseguono nell’arco di poche centinaia di pagine e di non molte ore di lettura: chi all’inizio del racconto è giovane a metà viene sepolto dai figli o dai nipoti i quali a loro volta alla fine saranno seppelliti dai pronipoti; è l’unico caso di letteratura seria in cui il lettore è disposto ad accettare di separarsi da un personaggio positivo senza che un registro drammatico giustifichi la scelta dell’autore. Tra gli effetti di questa drastica contrazione temporale ve n’è uno che qualunque lettore ha sperimentato in modo vivido, assai più vivido di quanto nella propria esperienza reale sia in genere possibile: il sentimento del tempo, quella vertigine che coglie ad esempio un figlio che diventa padre nell’immaginare il proprio padre nei panni di se stesso e se stesso nei panni del marmocchio che tiene tra le braccia, lo scorrere delle generazioni, il ritorno del simile e insieme il mutamento delle circostanze che rendono ogni evento differente anche se dentro una matrice che replica se stessa.
Questo sentimento del tempo, nei romanzi, è un effetto secondario dello svolgersi delle trame e delle esistenze pur contratte dei personaggi, anche se non è azzardato sospettare che le saghe, familiari o individuali, abbiano proprio nell’evocazione di questo effetto, nel recupero di questo tempo perduto in forma di bruciante sentimento la loro ambizione principale. Ma è certo però che l’onestà di uno scrittore si manifesta nel non mostrare in modo troppo scoperto e immediato questa intenzione, nel lasciare che emerga “spontaneamente” dall’accostamento dei fatti, dalla loro successione, che sia il risultato di una macchina narrativa ben costruita e non un roboante effetto speciale.
È questa probabilmente l’origine dell’errore contenuto in “Il tempo è un bastardo”, romanzo premio Pulitzer 2011 scritto da Jennifer Egan. Si tratta di una saga non propriamente familiare perché segue le tracce, nell’arco di una quarantina d’anni, di un gruppo di persone legate da rapporti a volte di parentela (genitori, figli o fratelli), a volte di amicizia, a volte piuttosto casuali: un lavoro, un incontro. La particolarità più macroscopica del romanzo è il tipo di montaggio: non si tratta di una sequenza almeno vagamente cronologica che ripercorre lo scorrere del tempo e delle generazioni, ma di una serie di capitoli-flash che assumono ognuno il punto di vista di uno dei personaggi, con gli altri che tornano da comprimari o spariscono secondo le circostanze, colto in un momento della sua esistenza, senza alcun vincolo di successione cronologica e narrato attraverso una prosa anche troppo duttile (oltre a prima e terza persona alternate senza motivo apparente non ci è risparmiato nemmeno un capitolo in slide, operazione che preferisco non commentare).
In questo modo Egan punta a far esplodere il sentimento del tempo facendo proliferare la trama in molte direzioni divergenti, ritrovandone gli intrecci magari a decenni di distanza, senza che vi sia un vero e proprio asse a reggere la narrazione se non forse il personaggio di Sasha, che è quello rappresentato in modo più palesemente accorato. L’idea a prima vista appare interessante. Solo che poi Egan non è altrettanto brava a riempire di sostanza i vari momenti: un paio sono anche gustosi (quello del pesce, quello del dittatore), ma per lo più invece ripropongono con poca forza i cliché del romanzo di formazione o adolescenziale mass market o un approccio minimalista al “momento topico di un’esistenza” che altri autori hanno percorso con mezzi molto più solidi. Il risultato è una scrittura tutto sommato gradevolmente innocua.
Poca forza drammatica, uno sguardo psicologico che si limita a evidenziare le correnti emotive più ovvie e un impianto che di per sé esalta gli elementi di casualità (perché questi personaggi e non altri se gli intrecci sono spesso contingenti e ciò che emerge da ognuno non è certo così memorabile da giustificare il loro comparire sulla scena?): sembra insomma che Egan voglia ottenere il massimo – evocare un genuino sentimento del tempo – col minimo sindacale di sforzo drammatico. E se il susseguirsi concitato di microstorie, di epifanie che durano lo spazio di un capitolo non fosse sufficiente a somministrare al lettore dosi massicce e reiterate di nostalgia del futuro tali quasi da far supporre una crisi d’astinenza, Egan pensa bene di ricorrere anche agli effetti speciali: improvvise e del tutto ingiustificate progressioni temporali in cui riassume in meno di tre righe cosa accadrà al tal personaggio da qui a vent’anni, una specie di TAV romanzesca dai risultati bizzarri (esempio: sta narrando la vacanza di un ragazzino con padre e sorella e di colpo parte in quarta: quando tra vent’anni si suiciderà a causa dei suoi dissidi col padre con cui non parlava da anni allora la sorella, che nel frattempo avrà gettato la prima parte della sua vita inseguendo una direzione sbagliata eccetera eccetera). Un modo francamente piuttosto goffo e persino disonesto, e tuttavia più volte reiterato, per ottenere l’effetto della letteratura senza fare nemmeno la fatica di scriverla.