alice munro, in fuga

In apparenza il libro di Munro è una raccolta di racconti nel filone del realismo minimalista americano: storie comuni di gente comune narrate con la dose minima possibile di artificio narrativo. In realtà, rispetto a quell’approccio, Munro mostra una particolare sensibilità per certe tematiche più vagamente “metafisiche”, il che, oltre a renderla più interessante, la porta a aumentare le dosi di “fiction” romanzesca e di costruzione nelle sue trame (svolte, colpi di scena, abbondanti agnizioni e il ricorso quasi ossessivo a enormi salti temporali) e a dosare  le sfumature psicologiche, che non rivestono qui una funzione piattamente mimetica, ma alludono sottotraccia a un piano allegorico. Evita così, quasi sempre, il limite tipico del soffocante approccio minimalista, lo scivolamento nell’esistenzialismo spicciolo e lacrimoso, nei “piccoli drammi di un’esistenza” e prima ancora svicola da quell’idea disastrosa che “realismo” significhi replicare la noia e l’assenza di eventi di una fantomatica “vita reale”. Usando le sue armi – tra cui una scrittura eccellente – Munro dipana temi astratti (il fato, lo scorrere del tempo e i suoi effetti abrasivi sulle persone, l’individuo come monade, la dimensione femminile) fino a costruire quelle che a volte sembrano vere e proprie novelle metafisiche ben mascherate. Forse il solo limite il lettore lo trova in una certa mancanza di cattiveria: se pensiamo a un autore in qualche modo vicino per atmosfere come Yates, notiamo come questi, proprio grazie a una ferocia corrosiva, riesca a trasformare le sue storie comuni in ritratti universali. Munro, come detto, sceglie la via della sfumatura ma a volte pare difettare di potenza nella scrittura, raffinata ma solo a volte davvero incisiva, o nella scelta dei destini dei suoi personaggi: la presenza di forti tematiche extranarrative, che da una parte fa salire di giri queste storie, tende tuttavia a prevalere sui personaggi che le incarnano, così che l’enorme dispiegamento di particolari descrittivi e di finezze psicologiche si rivela insufficiente per difenderli dal piano dei concetti, che le trasforma quasi in marionette al proprio servizio. Paradossalmente quindi non è l’eccesso di “realismo quotidiano” il pericolo da cui questi racconti devono difendersi, ma un opposto eccesso ideologico verso cui la scrittura non trova un vero antidoto interno.

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