di nuovo spari in centro

A un certo punto in Italia, fine anni ’70, c’era più o meno un attentato al giorno. Un giorno mi telefona un mio compagno del liceo – entrambi impegnati da ragazzini in oratorio col prete operaio di turno, poi a scuola a far quel po’ di politica da liceo: c’era una certa precocità a quei tempi, giuro che si andava in manifestazione già alle medie, in seconda liceo eri il veterano dei pischelli, in quinta un dirigente cittadino. Del resto ad altre latitudini a quella età avevi due figli, cosa c’è da guardare? A Milano invece se volevi essere figo o eri autonomo o sanbabilino (poi c’era DP, appunto). Noi la prima. E tuttavia non deficienti, lo sapevamo che gli attentati stavano fregando noi per primi. Che sarebbe arrivata la reazione e avrebbe spazzato via tutto. Che i br e gli altri clandestini erano prima ancora che criminali e nemici, dei colossali coglioni. Insomma mi telefona e mi fa, un po’ affranto: «Hai sentito oggi, hanno sparato a X. È terribile». E io mi sono sentito rispondere: «… Embé, capirai. Cazzi loro. Si suicidino. E poi chissenefrega, basta, mi sono rotto i coglioni, siamo altro, facciamo altro». Messo giù il telefono ho osservato il mio cinismo da assuefazione, che era probabilmente una forma sana di sopravvivenza, un modo per uscire da un clima che ti voleva per forza dentro un pozzo a fare a botte con altri ugualmente dentro il pozzo. Non mi sentivo in colpa o disumano. Volevo semplicemente vivere, cazzo, a 15 anni, potevo mica essere un reduce. Probabilmente sono stato il primo ragazzetto anni ’70 che inaugurava un suo personale riflusso nel privato, che da quell’anno divenne oceanico e generale (tra i 15 anni e i 50 c’era chi rifluiva nell’eroina, chi nel sufismo zen, chi in Nietzsche e negli Adelphi, i più nella febbre del sabato sera). Naturalmente poi gli anni ’80 furono una vera merda per me e per il mio amico, filarsela un momento prima della tempesta non ti fa diventare di colpo un socialista rampante. E negli anni ’90 avrei sperimentato, stavolta senza filarmela, la gioia dell’eterno ritorno e la compulsione nell’errore. Non si avanza che a ritroso, e non si impara mai niente.

la persona distinta

«La gente fa di tutto per distinguersi dagli altri, cioè dalla gente. Ma volersi distinguere dagli altri è ciò che in definitiva accomuna tutti, è insomma ciò che distingue l’esser gente. Quindi più la gente prova a distinguersi dalla gente, più lo diventa».

Giulio Bartolomeo Argano, La persona distinta e l’anonimato come stile di vita, Laterza Bari 2022, pag. 2038.

Andreas Gursky, Tote Hosen

john e. williams, stoner

Se un libro cade nell’oblio per 40 anni forse un motivo c’è.

Il proposito che muove Stoner è quello di scrivere la storia di un uomo senza storia che vive una vita come tante, tra l’insignificanza e il fallimento; raccontare un protagonista che subisce la propria esistenza, peraltro priva di eventi che non siano i più comuni (nascere, andare a scuola, veder morire i genitori, lavorare, sposarsi, avere un’amante, invecchiare, morire), e lo fa per timidezza o incapacità di imporsi, per un senso di irraggiungibile estraneità rispetto al mondo, per una costitutiva incapacità di afferrare le cose, a volte per semplice stanchezza e in generale perché immerso in una visione che non riesce e non può superare il proprio naso. Senza però calcare sull’ironia e sul sarcasmo, al contrario: lasciando qua e là la traccia di un gentile ma fermo “preferisco di no”, suggerendo la presenza, dietro l’inettitudine, oltre il giardino, di un segreto non formulabile a parole.

È un proposito promettente almeno quanto lo è stato le altre duemila volte in cui qualcuno ha tentato di realizzarlo, forse a partire dall’inarrivabile modello flaubertiano di “Un cuore semplice” fino a Yates e ai minimalisti.

Ecco come Williams intende far funzionare il meccanismo che regge la leggibilità di una non-storia come Stoner: compensare l’assenza di eventi di rilievo con un forte accento posto sullo struggimento dei piccoli fatti, sulle microscopiche svolte invisibili a tutti tranne al protagonista e tutte indistintamente tritate dalla macina del tempo, catturare l’attenzione del lettore spingendo in particolare sul registro patetico e così insinuare l’idea che Stoner sia in fondo chiunque di noi, o almeno una probabile maschera di Williams stesso.

Questo risultato potrebbe essere raggiunto, come accade agli autori citati sopra, attraverso una prosa particolarmente – a volte microscopicamente, sempre ferocemente – personalizzata e ritorta. Non così in Williams il cui difetto è proprio la prosa. Delicata, tiepida, gentile come il suo personaggio. Ma del tutto priva di forza, inadeguata al compito. Nei rari episodi, nei rari dialoghi, nelle rare scene si risolleva un poco, senza peraltro quasi mai raggiungere una capacità evocativa che superi il piatto resoconto. Per il resto si adagia in sterminati sommari telefonati all’imperfetto – in quel tempo succedeva, spesso faceva, a volte pensava – che collocano bene il romanzo al livello semi-professionale che gli compete.

Gli esperti sottolineano il probabile carattere autobiografico del libro, il che ne spiegherebbe i corpulenti limiti: quando una prosa non riesce a trasformare il piombo dello struggimento consolatorio nell’oro dell’angoscia, quando si ferma sul punto più alto, quello dell’autoindulgenza, di solito è perché l’autore vuole – si suppone inconsapevolmente, giacché la capacità di scrivere benissimo non si impara e l’autore nulla sa dei propri moventi – salvare la rispettabilità del suo alter ego, oppure il proprio fondoschiena, secondo i casi.

l’inchiostro di madame bovary (*)

1 Prima di inventare i romanzi i letterati scrivevano le cose più svariate. Capitava a volte che i loro scritti contenessero elementi che noi oggi giudicheremmo “realistici”, cioè somiglianti alle situazioni che il lettore poteva trovare intorno a sé alzando il capo dalla pagina: un’abitazione come tante, la piazza di un mercato, il ritratto di un carattere comune – l’avaro. Capitava, ma si trattava di un caso, non di un programma e sempre, quando capitava, quei letterati avevano l’accortezza di buttarla sul ridere, di farne commedia o satira. Le loro trame erano così canoniche, prevedibili, così punteggiate di snodi e di colpi di scena rigorosamente codificati che era evidente la ricerca del tipico e il disinteresse per l’individuale. A volte poi seminavano tracce di queste somiglianze dentro avventure così astratte, a base di eteree fanciulle, amori contrastati e ippogrifi, da risultare del tutto impercettibili. Di individui come noi si poteva parlare per burla, non seriamente; la letteratura era destinata a scopi più nobili, o anche più futili, forse anche perché nobili e futili erano i pochi lettori in circolazione.

1.1 Con i romanzi i letterati si trovarono di colpo in mano un’arma di ineguagliabile potenza. Il suo detonatore era nuovo: imitare attraverso un registro serio – o con derivazioni di quel registro come ad esempio l’ironia tragica – la vita, le azioni, i pensieri, i sentimenti, l’ambiente, la famiglia, la società, persino i vestiti degli “individui reali e qualunque” che noi lettori siamo, usando i più vari procedimenti tecnici e narrativi ritenuti utili allo scopo (**).

1.2 Da quel momento in poi il lavoro degli scrittori diventò: scrivere storie di fantasia in cui i lettori prima di ogni altra cosa riconoscessero se stessi. Come produrre nel lettore un efficace “effetto di realtà”, attraverso quali artifici tecnici e quali finzioni: è questa la domanda che ha appassionato due secoli di narratori. In che modo fingere per meglio “dire il vero”.

1.3 Qualcuno ritiene che si trattasse tutto sommato di un’innovazione di poco conto: la capacità di suscitare attenzione, emozione e infine identificazione è connaturata all’arte dei narratori di favole. Così anche se si racconta di ippogrifi o delle disgrazie di un giovane re mai esistito, si parla di “realtà” che toccano chi ascolta, che diversamente tornerebbe a occuparsi d’altro, a curare le capre o a sistemare il conto in banca. Invece sta lì fino alla fine e poi, quando torna a casa o chiude il libro, continua per un pezzo a fantasticare rapito di essere lui quello che combatte il drago o sposa il principe biondo. L’obiezione ha un senso ma come vedremo limitato.

2. Ciò che a noi appare ovvio, all’inizio tuttavia emerse come un enorme problema. La “vita degli individui reali” che questa intenzione mimetica prese di mira è, oggi come allora, assai poco romanzesca: priva com’è di centro e di sviluppo coerente, di epiloghi e prologhi, di temi e di trama, dei tempi giusti e anche sbagliati, di focalizzazioni decenti, si presenta piuttosto come una massa sterminata, cacofonica e informe di eventi indifferenziati privi di un punto di osservazione unificante che a fatica e in modo nebuloso e del tutto precario viene continuamente riordinata dall’interno, retrospettivamente e attraverso versioni traballanti e spesso di comodo: «Lei mi amò, tu l’amasti, io no». Una non-storia priva di Autore, il cui moto perpetuo è una continua reinterpretazione tendenziosa. L’attività che alcuni moderni e troppo fiduciosi interpreti descrivono come “l’incessante fabbricare storie” in cui ognuno di noi sarebbe immerso è in realtà qualcosa di assai farraginoso e molto distante da ciò che, con un po’ di buon senso, intendiamo per storia o racconto.

2.1 Da un punto di vista narrativo quindi questo materiale di partenza non poteva che apparire poco interessante o, detto con franchezza, mortalmente noioso a un qualsiasi  osservatore esterno. I letterati che si diedero il compito di narrarlo si trovarono di fronte a un grave problema: quali di questi eventi polverizzati selezionare e quali scartare e quale ordine e direzione attribuire loro per rendere intelligibile e soprattutto letterariamente interessante o “avvincente” ciò che per sua natura non è tenuto a esserlo, ossia la nostra presunta “vita reale di individui”?

2.2 (“Vita reale di individui”: ossia ciò che rimane una volta che tutte le narrazioni pre-realistiche – rituali, encomiastiche, epiche, ludiche, religiose etc. – che costituivano il precedente panorama mentale degli una volta rari lettori e dei molti ascoltatori siano state dimenticate o stravolte così da ottenere progressivamente, presso gli odierni numerosi lettori o spettatori, quel risultato che noi per retroazione riteniamo originario: “la vita come sequenza temporale di puri fatti cui trovare un senso che li raccolga o trascenda”).

3. Il sistema scovato dai letterati per rendere interessante questa sterminata e anonima sabbia di fatti che passa, nel disinteresse generale se si esclude quello di chi vi è direttamente implicato, attraverso l’imbuto del tempo fu di impastarla dandole la forma più riconoscibile e sexy di un Destino. Un Destino individuale che si compie attraverso peripezie, momenti drammatici o patetici sovraccaricati ad arte in cui tutta l’esistenza si condensa così da apparire significativa, momenti portatori di senso di marcia e direzione, che creano pathos, attesa, suspense, che necessitano di rivelazioni, di ascese e di cadute. Il figlio di un anonimo contabile va nella capitale con la testa piena di sogni, viene preso a benvolere da un uomo potente, ama una fanciulla, si innalza e infine si perde e trova la morte. Una giovane figlia di un anonimo contabile deve prendere marito scegliendo tra i pretendenti tra cui un compagno di infanzia e un giovane facoltoso in villeggiatura nel villaggio: farà valere in questa decisione il cuore o il calcolo? Si trattò insomma di riutilizzare, anche a costo di caricarli al massimo – è il caso del melodramma a tinte forti, che sorprendentemente soppiantò le algide storie di intrighi di corte narrate in punta di intelletto – tutti gli espedienti per attirare l’attenzione basati sull’esaltazione di nuclei emotivi che gli antichi letterati avevano inventato per scopi assai diversi che non imitare l’esistenza di individui qualunque, impiantandoli ora dentro un tessuto “realistico”. Le storie di fanciulle e di intrepidi cavalieri e di mostri orrendi continuarono a essere narrante ma ora la fanciulla non è una principessa e il cavaliere è un operaio.

3.1 In questo modo ciò che il realismo romanzesco di fatto costruì fu una “esemplarità in forma di individuo”, una specie di contraddizione in termini.

4. Accadde imprevedibilmente però che, leggendo romanzi che intendevano imitare la vita dei lettori in quanto “individui reali qualunque”, costoro, rapiti dalla fascinazione di quella esemplarità nei confronti della quale non potevano che sentirsi irrimediabilmente carenti, sfocati, in pratica “irreali”, sentirono ferocemente il bisogno di procurarsi in prima persona quel Destino bisognoso di compimento che nelle intenzioni degli scrittori avrebbe dovuto piuttosto, all’inverso, costituire il nucleo dell’imitazione letteraria degli individui stessi. Quando la letteratura si dà il compito di imitare me, il risultato è un me all’ennesima potenza, un super-me: la scrittura “realizza” ciò che in me è solo un un’ipotesi, rende solido il fluido, trasforma in pieno il vuoto, mette una porta con la targhetta dove c’era solo un passaggio, un transito, uno stipite sguarnito. Il me stesso imitato è più reale del me stesso che imita. Gli individui non avevano nemmeno iniziato a esistere, partoriti dalla pagina, che già iniziavano a imitare le proprie imitazioni. Improvvisamente tutti volevano avere un senso! Cioè a ben vedere un significato. Cioè: tutti volevano essere fatti di parole.

5. Poiché il gioco di specchi del realismo venne rapidamente scoperto i letterati, che non se la sentivano di gettare alle ortiche la loro arma letale appena inventata, non poterono che alzare la posta: al grido «La vita reale non è fatta così!» il programma si radicalizzò riempiendosi di prefissi. Neo-ultra-iper-realismo, narrare riducendo all’osso l’apparato retorico, aggredire l’inenarrabile stasi delle esistenze anonime, i fallimenti esistenziali, i non accadimenti, riempire la pagina di fattoidi irrilevanti o abbassare l’enfasi retorica da Destino a Caso, a porta girevole, o ancora modulare la scrittura in “stili” cioè in strane modulazioni del corpo delle parole e delle frasi per proiettarvi una visione personale e supplire così, dalla parte del Soggetto, alle carenze dell’Oggetto, moltiplicare i fuochi e presentarli tutti assieme oppure sposarne uno interno fornendo di quell’insulso interno un resoconto veritero e fedele o infine, disperati, tentare un’impossibile svolta a U verso il “non realismo” della finzione che sa di esserlo, tra onnipresenti virgolette; ma ormai il danno era fatto, dalla novità della mimesi “dell’evento reale”, cioè dall’invenzione dei fatti-come-tali operata dalla scrittura “realistica”, non si torna indietro. E poiché, in definitiva, il luogo in cui questo paradosso accadeva era la pagina scritta, e non le vite degli individui reali che restavano del tutto non romanzesche, la scrittura e i suoi surrogati diventarono progressivamente l’unico luogo in cui i destini potevano “realisticamente” compiersi e coloro che scrivono i soli che potevano ambire a compiere un Destino, non tanto nella vita individuale ma nello scriverne.

6. A causa di questo crampo mentale collettivo accaddero due fatti dalle conseguenze incalcolabili quanto comiche cui ancora oggi, a queste latitudini, stiamo appesi: mentre lo scrittore, da semplice intrattenitore o uomo di cultura si trasformò rapidamente in una sorta di divinità in grado di dare forma alle nostre vite per interposta invenzione scritta di ciò che siamo tenuti a diventare, la scrittura smise di essere un mestiere e diventò essa stessa quel Destino (un Destino trascendente, alto, “artistico”) di cui nelle intenzioni avrebbe dovuto essere semplice imitazione. E lo diventò nell’ambizione o meglio nella necessità universalmente percepita e il cui contrario è l’oblio e l’insignificanza, di tracciare, fissare, perimetrare (o in qualsiasi altro modo esprimere secondo quanto prescritto dal comandamento duplice: sii te stesso cioè esprimi te stesso) e insieme rendere pubblico cioè pubblicare e così riassumere in sé il proprio profilo di individui, il disegno della propria esistenza, il rispecchiamento reale e puntuale dei microfatti irreali da cui crediamo di essere costituiti, che a quel rispecchiamento devono la propria promessa di consistenza. Individui che sentono di compiere, nell’atto di leggere-e-scrivere-sé o nei vari modi di espressione ormai disponibili, un proprio originale Destino che in verità non c’è mai stato se non, appunto, nel bisogno di crearsene uno esprimendolo.

++++++++

(*)
«
Félicité singhiozzava:
«Ah! La mia povera padrona! La mia povera padrona!»
«Guardatela» diceva sospirando l’albergatrice «come è ancora graziosa! Ci si aspetta di vederla alzare da un momento all’altro!»
Poi si chinarono su di lei per metterle la coroncina.
Fu necessario sollevarle un poco il capo e allora un fiotto di liquido nero le uscì dalla bocca, come vomito.
«Ah! Mio Dio! L’abito! Fate attenzione!» gridò la signora Lefrançois.
»
Madame Bovary.

 

(**)

Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino

jennifer egan, il tempo è un bastardo

Una delle cose che un romanzo può fare è mostrare lo svolgersi dell’esistenza individuale da un punto di vista normalmente inaccessibile a qualsiasi individuo: può mostrare ad esempio i legami invisibili ma decisivi che lo vincolano a forze sovraindividuali selezionandoli tra gli infiniti fili irrilevanti di cui è costituita la sua esperienza quotidiana, mostrare insomma ciò che viene fatto di lui a sua insaputa osservandolo da una prospettiva sopraelevata, oppure può accelerare il calendario e mostrare tutta la sua vita come contratta in un tempo ristretto, quasi in palmo di mano. Questo secondo caso è quello che dà luogo, tra l’altro, alle cosiddette saghe familiari, che sono probabilmente il modo in cui l’epica antica sopravvive nel romanzo moderno anche se al prezzo di abbassare il disegno rigoroso operato dal fato a una capricciosa e piuttosto insensata figura fatta di ghirigori, di svolte e di incroci, ossia al suo contrario: il caso.

Nelle saghe intere generazioni si susseguono nell’arco di poche centinaia di pagine e di non molte ore di lettura: chi all’inizio del racconto è giovane a metà viene sepolto dai figli o dai nipoti i quali a loro volta alla fine saranno seppelliti dai pronipoti; è l’unico caso di letteratura seria in cui il lettore è disposto ad accettare di separarsi da un personaggio positivo senza che un registro drammatico giustifichi la scelta dell’autore. Tra gli effetti di questa drastica contrazione temporale ve n’è uno che qualunque lettore ha sperimentato in modo vivido, assai più vivido di quanto nella propria esperienza reale sia in genere possibile: il sentimento del tempo, quella vertigine che coglie ad esempio un figlio che diventa padre nell’immaginare il proprio padre nei panni di se stesso e se stesso nei panni del marmocchio che tiene tra le braccia, lo scorrere delle generazioni, il ritorno del simile e insieme il mutamento delle circostanze che rendono ogni evento differente anche se dentro una matrice che replica se stessa.

Questo sentimento del tempo, nei romanzi, è un effetto secondario dello svolgersi delle trame e delle esistenze pur contratte dei personaggi, anche se non è azzardato sospettare che le saghe, familiari o individuali, abbiano proprio nell’evocazione di questo effetto, nel recupero di questo tempo perduto in forma di bruciante sentimento la loro ambizione principale. Ma è certo però che l’onestà di uno scrittore si manifesta nel non mostrare in modo troppo scoperto e immediato questa intenzione, nel lasciare che emerga “spontaneamente” dall’accostamento dei fatti, dalla loro successione, che sia il risultato di una macchina narrativa ben costruita e non un roboante effetto speciale.

È questa probabilmente l’origine dell’errore contenuto in “Il tempo è un bastardo”, romanzo premio Pulitzer 2011 scritto da Jennifer Egan. Si tratta di una saga non propriamente familiare perché segue le tracce, nell’arco di una quarantina d’anni, di un gruppo di persone legate da rapporti a volte di parentela (genitori, figli o fratelli), a volte di amicizia, a volte piuttosto casuali: un lavoro, un incontro. La particolarità più macroscopica del romanzo è il tipo di montaggio: non si tratta di una sequenza almeno vagamente cronologica che ripercorre lo scorrere del tempo e delle generazioni, ma di una serie di capitoli-flash che assumono ognuno il punto di vista di uno dei personaggi, con gli altri che tornano da comprimari o spariscono secondo le circostanze, colto in un momento della sua esistenza, senza alcun vincolo di successione cronologica e narrato attraverso una prosa anche troppo duttile (oltre a prima e terza persona alternate senza motivo apparente non ci è risparmiato nemmeno un capitolo in slide, operazione che preferisco non commentare).

In questo modo Egan punta a far esplodere il sentimento del tempo facendo proliferare la trama in molte direzioni  divergenti, ritrovandone gli intrecci magari a decenni di distanza, senza che vi sia un vero e proprio asse a reggere la narrazione se non forse il personaggio di Sasha, che è quello rappresentato in modo più palesemente accorato. L’idea a prima vista appare interessante. Solo che poi Egan non è altrettanto brava a riempire di sostanza i vari momenti: un paio sono anche gustosi (quello del pesce, quello del dittatore), ma per lo più invece ripropongono con poca forza i cliché del romanzo di formazione o adolescenziale mass market o un approccio minimalista al “momento topico di un’esistenza” che altri autori hanno percorso con mezzi molto più solidi. Il risultato è una scrittura tutto sommato gradevolmente innocua.

Poca forza drammatica, uno sguardo psicologico che si limita a evidenziare le correnti emotive più ovvie e un impianto che di per sé esalta gli elementi di casualità (perché questi personaggi e non altri se gli intrecci sono spesso contingenti e ciò che emerge da ognuno non è certo così memorabile da giustificare il loro comparire sulla scena?): sembra insomma che Egan voglia ottenere il massimo – evocare un genuino sentimento del tempo – col minimo sindacale di sforzo drammatico. E se il susseguirsi concitato di microstorie, di epifanie che durano lo spazio di un capitolo non fosse sufficiente a somministrare al lettore dosi massicce e reiterate di nostalgia del futuro tali quasi da far supporre una crisi d’astinenza, Egan pensa bene di ricorrere anche agli effetti speciali: improvvise e del tutto ingiustificate progressioni temporali in cui riassume in meno di tre righe cosa accadrà al tal personaggio da qui a vent’anni, una specie di TAV romanzesca dai risultati bizzarri (esempio: sta narrando la vacanza di un ragazzino con padre e sorella e di colpo parte in quarta: quando tra vent’anni si suiciderà a causa dei suoi dissidi col padre con cui non parlava da anni allora la sorella, che nel frattempo avrà gettato la prima parte della sua vita inseguendo una direzione sbagliata eccetera eccetera). Un modo francamente piuttosto goffo e persino disonesto, e tuttavia più volte reiterato, per ottenere l’effetto della letteratura senza fare nemmeno la fatica di scriverla.

julian barnes, il senso di una fine

Pretesa riflessione in forma di romanzo sulla narrabilità romanzesca di una vita comune e priva di episodi di rilievo nonché sulla compresenza in ogni narrazione di più versioni degli stessi fatti costruite sovente a scopo di autogiustificazione e indulgenza. L’altezza dei temi, malgrado l’evidente tessuto di citazioni che attraversano la vicenda, non è purtroppo trattata attraverso una narrazione efficace. Esaurito un rapido prologo “di gioventù” in cui sono presentati i pochi fatti di rilievo e i soli motivi di interesse, il resto del per fortuna breve romanzo si dibatte tra le riflessioni senili del protagonista su quanto sia stato finora un tipo noioso, che sembrerebbero preludere a una svolta finalmente decisiva, e una improbabilissima vicenda di ricostruzione sentimentale retroattiva, con tanto di scabroso e strampalato finale. La delusione per la sciatteria con cui la storia viene gestita in questa terza parte è tale che il lettore tenderà a scordarsi l’inizio promettente e in sede di recensione fornirà una versione della propria esperienza di lettura ancora meno lusinghiera di quanto dovuto. È opinabile che questo esito fosse nelle aspettative metaletterarie dell’autore.

del modo in cui le canzoni hanno a che fare con noi

Ho tredici anni e sono in piedi sul retro scoperto di un furgone guidato da un diciottenne conosciuto un’ora prima al bar, assieme a mio fratello, che di anni ne ha diciassette e a due ragazze, di sedici anni, che stanno da sole in una tenda canadese proprio di fronte alla roulotte dei miei genitori. Siamo in Calabria e quella è la prima tenda canadese in cui sono stato da solo con una ragazza. È successo due giorni fa. Lei è la più bella delle due o almeno a me è sempre sembrata la più bella, l’altra è troppo magra. “Lei” ha i capelli biondi, il costume da mare due pezzi, la pelle chiara appena abbronzata. La tenda è minuscola.
«E tu che scuola fai?».
«Sono in terza».
«Mh. Sai, alle superiori è tutto diverso».
«Più bello, vero?».
«Sì, anche. È diverso».
L’amica era solo andata al bar con mio fratello a comprare bibite, non sono stati via più di dieci minuti.
Il tempo interminabile della vacanza lo passiamo ascoltando musica dal loro stereo portatile. Le ragazze parlano più che altro con mio fratello, che già fa politica a scuola e ha molte cose da raccontare. Quando mi permettono di stare con loro dimentico finalmente i miei giochi da ragazzino – un sacco di formiche in quel campeggio, me le ricordo ancora e loro credo si ricordino di me – e mi aggrego al gruppo: sto parecchio zitto, guardo tutto e respiro senza saperne nulla un’aria di libertà assoluta che mi accelera il sangue e mi morde le carni, ignaro di ogni cosa. Quel pomeriggio il furgone procede a passo d’uomo nel viale alberato, mentre l’autoradio manda a tutto volume “Com’è profondo il mare”, del cantautore Lucio Dalla. Noi quattro ridiamo come sul ponte di una nave che salpa. Anch’io sto cantando, com’è profondo il mare.
Mi sembrava che avere la vita davanti volesse dire tutto. Un po’ come succede a tutti.

(mi piaceva il titolo, il post è quello che è)

davide enia, così in terra

Romanzo d’esordio ma tecnicamente già maturo. Voce riconoscibilissima e ottimamente tenuta, buon lavoro sulla lingua (non è un italiano con esotismi dialettali, ma un dialetto trasposto dentro l’abito dell’italiano), grande abilità di montaggio. I personaggi si muovono in un orizzonte apparentemente reale e crudo, in realtà del tutto allegorico e mentale, con poche concessioni a forme di neo-neo-realismo che pure l’ambientazione e l’impianto del “romanzo di tre generazioni in una città del sud” farebbe temere – ad esempio: tutti combattono, ma curiosamente è difficile dire contro chi. Ci sono avversari occasionali, certo, ma si tratta per lo più di combattimenti immaginari, che si muovono in uno spazio mentale a metà tra il fumetto d’infanzia per giovani maschi rimembrato e un’epica in-civile e probabilmente im-possibile. Una certa ruffiana capacità di commuovere non guasta affatto.