In guerra con noi stessi?

A partire da un articolo sull’Economist, si discute della proposta di ridurre la durata del diritto d’autore a 14 anni (questione legata allo scambio di mp3, al prezzo dei dischi e a una miriade di altre cose simili). Dice Cesare:

“(Si tratta di) una tipica iniziativa antiproibizionista, se mi passate il termine (…) La lotta alle violazioni del copyright mi ricorda quella, altrettanto fallimentare, del proibizionismo sulle droghe: miliardi di dollari spesi inutilmente, mafie che prosperano e lucrano. La soluzione radical-liberale non è la liberalizzazione senza regole, ma la legalizzazione. Riportare tutto sotto l’ombrello di poche leggi, chiare ed efficaci. Il consumo di uno spinello o la coltivazione di una piantina NON è un reato.(…). Una salda copertura legale di quattordici anni è più che sufficiente per tutelare, anche economicamente, il creatore di un’opera”.

Più che legalizzazione a me pare una modica quantità. Ma gli utenti ne sarebbero esclusi? O varrebbe per tutti? E’ una modica quantità di diritto allo scambio o di proibizione del medesimo? Dice Luca:

“Un articolo che scrivo, penso che non sia giusto che un giornale lo pubblichi e ci guadagni senza che a me ne venga niente, e che non sia giusto che qualcuno lo metta online gratis il giorno che esce sul quotidiano per cui l’ho scritto e da cui vengo pagato. (…) un cd: penso non sia giusto che lo si venda senza pagare il titolare, né che qualcuno ne riproduca copie identiche e le regali agli angoli delle strade. Per il resto, ovvero l’uso personale – che si tratti mp3, cd copiati, o fotocopie di libri, o nomi di trasmissioni tv – tutti liberi. (…) Gli mp3 su Gnutella annullano del tutto il potenziale economico del prodotto a favore di chi l’ha inventato? Risposta: ovviamente no. (…) Io non sono sicuro che la riproduzione dell’opera dell’ingegno (e teniamoci l’espressione ingegno anche per sarannofamosi) debba per forza essere pagata, parliamone: di sicuro non è giusto che sia pagato chi non si è ingegnato”.

Il punto è che il vero problema (o presunto tale) delle mayor è il peer to peer, l’uso personale. E’ proprio questo il terreno del contendere. E su questo terreno, a me pare, non c’è scadenza o legge che tenga: semplicemente non è un processo controllabile, se non chiudendo la rete attraverso un radicale controllo preventivo – hardware – alla fonte, il che getterebbe l’economia intera sul lastrico nel giro di 24 ore. Almeno, a me pare così, ma magari mi sbaglio… La modica quantità, in questo caso, è una legge che va a cavallo mentre tutti volano in Concorde. Dice Paolo:

“Credo che ci sia una notevole quantità di persone, in particolare in questo paese, che messi davanti alla scelta “paga il giusto e accedi legalmente” contro il “non pagare niente e ottieni illegalmente” sceglierebbero la seconda strada”.

Vero, ma la questione non è morale, è tecnologica. E quello che credo di aver capito è che tecnologia non è l’ufficio di quelli vestiti col camice bianco, ma è il ponte tra i desideri – innestati su pratiche di relazione con gli altri e con l’ambiente – e il “poter fare” che a questi desideri si riferisce. La tecnologia è una forma di consapevolezza, che deriva dal nostro essere nel mondo e ne misura continuamente i limiti, saggia l’inerzia della materia e la utilizza come terreno di spinta e di sponda.

Forse un punto di vista come il mio può far sorridere, ma quello che a me sembra è che il dna della rete sia di tipo inclusivo e non esclusivo. In sintesi: si regala tutto (compreso se stessi) per ricevere tutto (compresi gli altri). Il principio di esclusività (selezione e controllo dei flussi) ha vita difficile qua dentro. Non so cosa tutto ciò significhi in termini di autopercezione e di uso di sé. Mi basta il dato più immediato: l’inclusività non è un principio “economico” (nel senso di immediatamente lucrabile, anche se poi è economico in un altro senso). Mi sembra, se non erro, che la rete non sia descrivibile come uno spazio economico, ma più probabilmente, girando il problema, “l’economico” non è quello che siamo soliti pensare.

Come se ne esce – anzi, come vi si entra?

Forse l’unica strada è iniziare a prospettare soluzioni integrate direttamente sul terreno della rete, poiché in rete non ci sono compartimenti: in rete non vige separazione rigida tra personale, relazionale, produttivo, politico. In rete, o si connette e si sposta il piano d’opera attraverso le interazioni, o tutto si spegne. E ciò vale sia che lo guardiamo con l’occhio alle relazioni umane, sia che osserviamo le relazioni economiche, la dimensione sociale o politica. E’ sempre lo stesso movimento. Non c’è crescita che non sia integrata. La rete è un enorme esperimento di esperimenti. Si tratta di inventare soluzioni al suo (che poi è il nostro!) livello.

 

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